Quest’uomo nè alto nè basso, abile nel racconto, ricco di sintesi e di liricità, è stato l’angelo sulle ferite e sulle angosce di centinaia di persone: Ottorino Dolso, medico condotto e ufficiale sanitario in quei giorni del terremoto. Abitava in collina, scoprì il terremoto nella scomparsa della luna: «Il terreno tremò, era una pagina della fine del mondo. Il fumo si alzò dalle macerie e oscurò la luna. Anzi, la ingoiò. I bambini giocavano fuori casa, una sera di maggio già torrida. Al momento ho pensato a dei petardi giganti. Che non siano i ragazzi? È stata un’illusione, forse un’autoillusione, il desiderio di allontanarsi dall’idea terribile del terremoto».
Il dott. Dolso sale in auto, punta verso Buja dopo aver visto sbattere le porte e le pareti di casa. Chi riusciva a intravedere il passaggio del medico, lo chiamava. «L’80% delle case era inagibile - racconta il dott. Dolso -; con me c’era il dott. Paoluzzo, due giovani medici, il dott. Taboga e il dott. Poianz, poi il dott. Pizzalis. L’aiuto più importante fu offerto dall’ospedale della Marina militare, indirizzammo i feriti verso gli ospedali di Udine e di San Daniele».
Subito mille vaccinazioni, l’iniezione leggendaria dei militari di leva contro il tifo, il paratifo, il tetano. I sacrosanti militari delle caserme friulane furono manna dal cielo. Spesso contestati dal ’68, scesero a liberare le strade dalle macerie, a soccorrere feriti, a ospitare i senza tetto. Potete immaginare cosa potè salvare uno di quei medici della mutua di una volta, di quelli che passavano 24 ore nella casa degli altri e nella loro stessa casa, secondo un dono d’ubiquità elargito dalla vocazione.
Il dott. Dolso si commuove: «Bisognava ricomporre le salme. Passammo un giorno e mezzo a riconoscere e a ricomporle. 48 corpi ricomposti a Buja e 12 fuori Buja..».
Altri ci diranno di una macabra singolarità, quando arriveremo davanti all’ex cinema, oggi occupato da botteghe commerciali: «Lì fuori dal vecchio cinema c’erano due morti. Quella sera giravano un film intitolato: "La città verrà distrutta all’alba"».
Otello Gubiani aveva 24 anni e la sua fidanzata, oggi sua moglie, ne aveva 20. Lo incontriamo. Ci dice: «Siamo rimasti 8 ore sotto le macerie a Sopramonte. Ero in salotto e mi sono trovato in cucina. Non ricordo come sono tornato alla vita e come sono tornato a casa. Voi siete di Brescia? Alza il calice rosso e piange. Ripete: "Grazie".». Ogni volta che noi bresciani ci sentiamo depressi per l’abbassamento della pressione della nostra identità, che ci sentiamo giù di corda o con un po’ di rimorsi, veniamo a Buja e sentiremo parlare di noi come dei galantuomini indimenticabili. Fa bene, un bene che andrebbe provato.
Il dott. Dolso si commuove ancora, incontra i ricordi dell’ex sindaco Eddi Giacomini, li incrocia, li verificano insieme. Tutto si tocca, i morti e i vivi, la memoria è intatta. E fin quando la memoria rimane intatta, il terremoto sa di non tentare incursioni, pensando di sorprendere, di imprimere la morte, colpendo alle spalle. Il terremoto sa che a Buja come altrove, nel Friuli, le case non sono più le case d’una volta e che ogni persona s’addormenta con una riserva mentale di terremoto in testa.
Al camposanto di Buja, troviamo i morti del terremoto. Basta cercare l’ora della tragedia. Eccoli, uno dopo l’altro: Antonio Londero: "polse in pas"; Nicola Minisini, 4 anni. La foto è sdrucita dal sole che gli batte dentro in modo aperto, essendo esposta a un nord largo, dalle 10 alle 17.
I giorni che seguirono il terremoto piovve come nel diluvio universale. Poi riapparve la luce dal monte del camposanto.
Ognuno potè seppellire i suoi morti.