La chiesetta della Madonna delle Acque di Andreuzza a 25 anni dalla ricostruzione di Mirella Comino | |
Un’immagine da cartolina “…a nassevin tan’che foncs pes campagnis, in cuc dai cuei o dai zucs, e ancje sul ôr di cualchi vile, chês gleseutis votivis, cence grandis pretesis artistichis, ma dispès deliciosis te lôr armonie e semplicitât…”. Giuseppe Marchetti descriveva così, in uno scritto del 1959, la presenza delle chiesette votive nel paesaggio friulano. 1 Anche la chiesetta di Andreuzza, intitolata ai Santi Andrea e Lucia e dedicata alla Madonna delle Acque, si presenta “deliziosa nella sua armonia e semplicità”, impeccabilmente graziosa in ogni momento dell’anno, lungo la strada comunale che va da Avilla a Majano passando ai margini di Borgo Schiratti, e sembra uscita da una cartolina, o da una brochure turistica che invita alla pace silenziosa della campagna, o da un vecchio libro di lettura con le poesie di Renzo Pezzani e di Angiolo Silvio Novaro. Sorge su una collinetta che si apre alla strada sottostante attraverso pochi gradini di vecchio acciottolato, e che cambia d’abito con il ruotare delle stagioni: tappezzata di viole d’ogni sfumatura in primavera, spruzzata di salvia selvatica, ranuncoli, margherite e profumata dai vari miscugli erbosi in estate, cangiante di ori e verdi cupi in autunno, quando acacie e frassini stanno per perdere le foglie, mentre gli abeti e i bossi sembrano diventare più scuri; scintillante di brina in inverno, o tutta bianca quando le eventuali nevicate ne fanno l’unico pendio degno di essere percorso dagli slittini dei bambini del borgo. I muri candidi delimitano una piccola aula rettangolare, completata da un vano ad uso sacristia a nord e da un portichetto che protegge l’ingresso a sud, e sormontata da un campanile a vela con l’unica campana che suona solo in poche occasioni: la prima domenica d’agosto, per festeggiare con una messa e una processione solenni la Vergine delle Acque, il 30 novembre (Sant’Andrea) e il 13 dicembre (Santa Lucia) per una messa serale in onore dei Santi contitolari, oppure quando un abitante di Andreuzza lascia per sempre questo mondo. Anche l’interno è un piccolo gioiello di armonia, che va ben oltre il semplice equilibrio estetico per suggerire raccoglimento e pace. Il pavimento rustico e le pareti in mattoni diffondono i colori caldi delle terrecotte; le stazioni della Via Crucis, pregevoli dipinti ottocenteschi già in uso nella chiesa parrocchiale di Avilla, rendono vive le pareti laterali dalle nicchie in cui sono incastonate. L’altare semplice di marmo, la statua della Vergine e quelle dei Santi Andrea e Lucia, collocate su sobrie mensole sporgenti dalla parete dietro l’altare, sono i protagonisti del presbiterio, separato dall’area dei fedeli da un unico scalino in pietra. La luce entra discreta da due finestre laterali oppure, alle spalle dei fedeli, dalle due finestrelle con inferriata in ferro battuto che affiancano la porta d’ingresso, sovrastata dalla figura della Vergine che si innalza sopra le macerie del terremoto. Già, il terremoto: lo squarcio spietato con cui ha segnato il tempo, gli uomini e le cose dei nostri paesi in un “prima” e in un “dopo” irrevocabili, ha messo il suo piede mostruoso anche qui, sulla piccola chiesa che oggi non è in nulla, se non in pochi arredi interni e qualche pietra, la chiesetta di prima del 6 maggio 1976. 1976 – 1983: distruzione e rinascita Una relazione tecnica stilata all’indomani di quella data su incarico del parroco don Saverio Beinat, che cercava di capire se i muri colpiti dal sisma potevano ancora avere un futuro, parlava chiaro: l’edificio sacro che gli abitanti di Andreuzza avevano restituito al culto nel 1935, dopo anni di abbandono, era condannato a morte, come molte delle case di fronte, dall’altra parte della strada, e come la maggior parte delle case di Buja. Non c’erano elementi architettonici o artistici che giustificassero un tentativo di ripristino; d’altra parte, nemmeno l’urgenza funzionale era ravvisabile in quei tempi in cui la scelta saggia di ricostruire “prima i luoghi di lavoro e le case, poi le chiese” metteva in ogni caso all’ultimo posto le esigenze di un oratorio di campagna che non aveva nemmeno il compito di dare un tetto alle necessità della vita religiosa parrocchiale. Ma l’eventuale scelta di una ristrutturazione era ostacolata soprattutto dall’evidenza che essa era insostenibile economicamente e rischiosa sotto il profilo della sicurezza, anche a causa dei tanti rimaneggiamenti precedenti, realizzati in condizioni di risparmio più che di attenzione alle leggi della statica. La chiesetta aveva dunque tutte le carte in regola per diventare un rudere esposto alle intemperie e finire dispersa, pietra dopo pietra, tra i sassi della collinetta, secondo un destino già visto, in epoche e per ragioni diverse, per altre chiesette di Buja: San Sebastiano in Monte, Santa Caterina a Codesio, SS. Natività in Campo Garzolino, l’Oratorio di S. Maria, S. Giovanni Battista e S. Giuseppe in località Caselle.2 E tuttavia, pur con tutti i problemi e i pensieri che ciascuno aveva dovuto affrontare per suo conto negli anni dell’emergenza e della ricostruzione post sismica, sette anni dopo quella drammatica notte, e precisamente il 6 agosto 1983, la comunità di Andreuzza festeggiava ufficialmente la rinascita del suo piccolo tempio, riedificato ex novo “a vantaggio della speditezza, della sicurezza, dell’economia e, dato che si tratta di un edificio pubblico, della tranquillità”, come recitava il parere finale della già citata relazione tecnica. In altre parole, dopo la necessaria anche se dolorosa demolizione “per scomposizione”, e cioè con attenzione al recupero di quei pochi pezzi architettonici che potevano essere riproposti per dare continuità al suo aspetto fisico, la chiesa era di nuovo in piedi: diversa, sì nella materialità dei suoi componenti e nell’immagine esteriore, ma pur sempre casa sacra del borgo, uno dei luoghi chiave della sua identità. La cerimonia inaugurale e di riconsacrazione vedeva la partecipazione di autorità religiose e civili: il Vescovo ausiliario mons. Emilio Pizzoni, l’arciprete pievano della chiesa madre di San Lorenzo, mons. Aldo Bressani a fianco del parroco di Avilla mons. Saverio Beinat, gli amministratori civici col sindaco Gino Molinaro, ma anche la cantoria del duomo diretta da Mario Monasso e accompagnata all’armonium da Elio Tessaro e una gran folla in cui si mescolavano gli abitanti del borgo con i benefattori, con gli impresari e gli operai che avevano contribuito nei modi più diversi alle operazioni di ricostruzione. Una giornata memorabile e solenne per quel piccolo pugno di case abituato da sempre a vivere all’ombra di eventi che si svolgono abitualmente in altri luoghi del paese. E d’altra parte, un altro dei punti significativi della fisionomia complessiva di Buja ritornava al suo posto, a riprendere la funzione che la storia gli aveva assegnato da oltre tre secoli e che la gente del posto aveva fermamente voluto riconsegnare al futuro. Ma come era avvenuta quella impensabile rinascita? Purtroppo non ci sono i nomi di tutti coloro che diedero la loro parte di lavoro, di tempo, di forze e anche di denaro per far sì che la chiesa fosse riedificata. Non ci sono perché, come spesso accadde in mille altri interventi di collaborazione solidale che il terremoto fece germogliare dalle sue macerie, coloro che diedero col cuore lo fecero spesso senza lasciare traccia del loro impegno. Si sa però che quasi tutto arrivò nel posto giusto, al momento giusto e gratuitamente. Così il progetto e i calcoli dello studio tecnico dell’ingegner Enrico Sandro Baracchini e del perito edile Egidio Tessaro; così una montagna di ore di lavoro, di materiali e attrezzature dell’impresa “Chinchine”, cioè l’impresa di Mario e Gianni Taboga. Ma ci furono donazioni consistenti di materiali, impianti e attrezzature provenienti da altre piccole e grandi aziende e da privati cittadini, vicini e lontani, compresi quelli che avevano già stretto legami di solidale amicizia con la parrocchia di Avilla. Ci fu, a centinaia di ore, il lavoro degli Alpini di Buja, che in quegli anni onoravano la loro vocazione alla solidarietà impegnandosi in modo particolare per restituire al paese un tassello alla volta della sua fisionomia perduta. L’amministrazione civica, impegnata nell’83 per le celebrazioni dei mille anni del castello di Monte, deliberò di lasciare traccia di quel frammento di storia finanziando il restauro dei quadri della Via Crucis i quali, dismessi, come si è già detto, dalla chiesa parrocchiale di Avilla essendo stati sostituiti nel ’59 dalla donazione di 14 fusioni in bronzo di altrettanti grandi artisti italiani, potevano trovare utile ed armoniosa collocazione tra gli arredi interni della nuova chiesetta. Anche l’altare veniva recuperato dalla chiesa parrocchiale, dove prima del terremoto era collocato in una delle due navate laterali. Quanto ai finanziamenti, per lo più provenienti da offerte anonime, si può aggiungere che perfino i funerali degli abitanti del borgo erano talvolta occasione di donazioni, che si riproponevano di rendere omaggio al defunto rispettando il suo desiderio di vedere la chiesetta sempre più bella. Si sa che dietro a tutto questo c’erano la regia, la capacità, l’intelligenza del parroco mons. Beinat, ma è anche certo che la vera anima della ricostruzione fu quella del borgo, con gli uomini, le donne e perfino i bambini di allora. Lo testimonia un piccolo quaderno di appunti manoscritti lasciato da Alfredo Osso: una specie di diario nel quale, a partire dal 1° maggio 1979, egli registrava i vari momenti dei lavori di riedificazione. Da quelle pagine si ricavano informazioni e curiosità: quando e da chi fu aperta una delle finestre o furono montate le armature, o dipinte le travi, oppure semplicemente quando si dovette rinunciare a lavorare a causa della pioggia, o quando intervenivano l’impresa Taboga o gli Alpini. Poi, con grande puntualità, venivano registrati i nominativi di coloro che lavoravano e per quale monte ore. L’impresario Gianni Taboga, assiduamente presente ai lavori col fratello Mario, sostiene tuttora che altrove, in qualche altra scartoffia, mons. Beinat aveva ricevuto resoconto persino di quanto vino si era consumato nei “dopolavoro”, che erano comunque occasione di incontro, di scambio, di soddisfazione condivisa per come andavano le cose. Comunque sia, quegli appunti ricostruiscono non solo le tappe di una ricostruzione, ma anche uno spaccato della vita del borgo di allora. E sullo sfondo di quel brulicare di carriole, operai e attrezzature da carpenteria si muovono Rineo, Rino Bolzon, Meni Bosie, lo stesso Fredo, i Caselants, Pierino Matieto, qualche abitante di Avilla e del vicino borgo Schiratti, oppure Aldo dal Mulin che portava la ghiaia data gratuitamente da un’impresa di Majano. Nomi e volti che dicono poco al di fuori della geografia del luogo, ma disegnano nella mappa dei ricordi del borgo un tessuto sociale e modalità di vita profondamente diverse dalla realtà odierna, ancorché non poi così distanti nel tempo. Alti e bassi lungo più di tre secoli di storia Quanto è abbondante e precisa la documentazione di ciò che avvenne in quel brevissimo intervallo di sette anni in cui la chiesetta scomparve e rinacque, tanto è, ovviamente, più povera la disponibilità di notizie certe andando a ritroso nel tempo, per dileguarsi del tutto in prossimità delle origini. La prof. Andreina Nicoloso Ciceri, che fece ricerche a completamento di un inedito di sua madre Maria Forte,3 riferisce quanto seppe da mons. Saverio Beinat sulla base delle visite pastorali che si trovano documentate negli Archivi della Curia Arcivescovile di Udine ed afferma che la cappella privata dedicata a Sant’Andrea, da cui avrebbe preso contorni decisivi la chiesetta, era stata eretta nel XVII secolo dalla famiglia dei Conti Andreuzzi (o Andreuci, o Driussa), nobili signori ai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia, che avevano residenza a San Daniele, ma nella località di Andreuzza avevano una casa di campagna. La casa si trovava di fronte alla chiesetta e nel 1976 andò anch’essa completamente distrutta dal terremoto dopo che, comunque, aveva già perso negli anni, con successive modifiche, i pregevoli elementi architettonici di stile veneziano che la qualificavano come casa signorile. Della “cappella” o “oratorio” si sa poi che alla fine del 1700 era di proprietà di Fabio Antonini di San Daniele, e che passò in seguito alla famiglia Barnaba di Buja, proprietaria di vari beni in Andreuzza fino a buona parte del XIX secolo. Di certo il piccolo fabbricato ad uso religioso dovette affrontare altri momenti di degrado, se nel “Manuale del Parrocchiano di Buja” di mons. Pietro Venier, del 1876, venne messo nell’elenco delle “chiese soppresse”, insieme ai già citati oratori della SS. Natività di Campo Garzolino e di S. Maria, S. Giovanni Battista e S. Giuseppe della località Caselle, con una nota di due righe: L'Oratorio di S. Andrea Apostolo di Andreuzza, benedetto nel 1829, è abbandonato. Era di ragione dei Conti Andreuzzi di S. Daniele; ora della famiglia eredi q. Ermanno Barnaba di Buia. Ad un anno di distanza, e cioè al 1830, fa risalire invece la benedizione Pietro Menis nelle informazioni storiche sulle chiese di Buja in appendice a “La Pieve di Buja” del 1930, dove si legge: Sant’Andrea in Andreuzza. Si sa che esisteva nel secolo XVIII. Di essa si legge che nel 1830, con delega del Vescovo Emanuele Lodi, il Pievano Bonetti la benediva il 30 - Nov. È abbandonata, ed è di ragione privata. In uno stato di conservazione probabilmente non molto diverso, la cappella veniva poi acquistata dalla famiglia Vuattolo (Vattolo), che, proveniente da Mulinis prima della metà del secolo, si era stabilita in Andreuzza, dove Francesco Vattolo aveva realizzato un battiferro funzionante con le acque della Roggia4 ed aveva progressivamente ampliato l’acquisto dei suoi beni. È certo, ed era vivo nel ricordo delle generazioni da poco scomparse, che i muri che avevano accolto un luogo di preghiera venivano utilizzati nei primi anni del ’900 come deposito di prodotti agricoli. Ed è un’ipotesi suggestiva, ma non confermata, che negli anni della prima guerra mondiale possa avere tenuto nascoste persone e cose minacciate dalle alterne vicende di quel conflitto. Da alcune foto cartolina di Tarcisio Baldassi, precedenti al 1934, si sa di certo che la struttura del fabbricato, segnato da profonde crepe, era caratterizzata da un vano di dimensioni e collocazione approssimativamente uguali a quelle attuali, con la porta d’ingresso sormontata da un arco a sesto acuto. Gli abitanti del borgo nati prima di quella data hanno sempre affermato anche che la chiesetta era priva di abside e di altri corpi annessi ed aveva il campanile a vela desolatamente privo della sua campana, ad indicare la perdita pressoché totale della sua funzione di luogo destinato a chiamare alla fede. Pietro Menis, narrando le vicende storiche del cimitero nel volumetto “Chiese di Buja – San Bartolomeo” (Tipografia Toso, 1937), spiega che quella campana, nascosta da Paolo Vattolo nel proprio orto per sottrarla al sequestro degli Austriaci nel 1917, era andata poi a sostituire proprio la campana del cimitero, di cui invece non si era riusciti ad evitare la requisizione. La rinascita era però dietro l’angolo. Tra il 1934 e il 1935, infatti, l’attenzione della famiglia Vattolo e dei borghigiani, d’intesa col vicario di Avilla (non ancora eretta in parrocchia autonoma) don Ribis, si mobilitò per restituire alla chiesetta la sua dignità di luogo di culto. Anche allora fu la gente del posto a promuovere i lavori di restauro, che vennero eseguiti grazie ad offerte in denaro e manodopera. Venne tolto completamente il tetto dalle travi ormai infradiciate e, fatto un semplice progetto attento a definire l’aspetto finale del fabbricato, si ripararono i muri pericolanti e si aggiunse a nord un’abside semicircolare con funzione di sacristia. Anche la porta cambiò aspetto prendendo forma a tutto sesto e il campanile a vela accolse due campane al posto dell’unica precedente. La chiesa ricostruita venne solennemente inaugurata tra sabato 3 e domenica 4 agosto 19355 e dedicata alla Madonna delle Acque. Trovandosi infatti nei pressi del nodo idraulico di Andreuzza, che dal 1881 dava acqua per l’irrigazione di tutta la bassa friulana tramite la costruzione del canale Ledra Tagliamento, fu deciso di assegnarle, come calendario celebrativo, la data della solennità della Madonna della Neve, che si festeggia la prima domenica di agosto in diverse chiese di tutta Italia e che è titolare anche della chiesa di Ursinins Grande. Quei giorni furono davvero straordinari: «Sabato 3 Agosto 1935 – XIII. Ore 10: Benedizione della restaurata Chiesetta. Ore 18.00: trasporto solenne delle Sacre Immagini» e «Domenica 4 Agosto ore 10.30 – Messa Solenne. Ore 15.30 Funzione Vespertina». Quindi: «Lotteria .Corse varie. Cori friulani. Fantastica illuminazione» scriveva il volantino stampato dalle Tipografie Buttazzoni di San Daniele per dar conto del programma di quell’evento. Il foglio era corredato da tre composizioni in versi di Francesco Vattolo, uno dei figli di “mestri Pauli dal Batafier”: “La sagre su le culinute da l’Andreuce”, “A la gleseute da l’Andreuce” e “La Ledre e la valade”, riproposte poi nel 1958 in un libretto di 56 pagine intitolato “Lusignutis su lincuin”, (tipografie Buttazzoni). Una solenne processione, documentata anche fotograficamente, inaugurò il percorso che sarebbe poi diventato l’itinerario consueto lungo il Canale Ledra, attraverso le opere del nodo idraulico e lungo il Rio Fossalat, cui allora si aggiungeva anche il tracciato della “Roe di Bernart”, la roggia oggi scomparsa che muoveva il maglio di “mestri Pauli”. Stando alla testimonianza della maestra Nella Baracchini, la statua della Vergine, che da allora accompagna ogni anno la processione, entrò in scena nelle celebrazioni della festività grazie ad una donazione della madre, che l’aveva avuta in dono a sua volta da un sacerdote di Codroipo. Alla semplice arca che l’accompagnò nella prima uscita solenne furono aggiunti, verso la metà degli anni ’50, gli elementi dell’arca attuale, che incornicia la Madonna sullo sfondo di una grande conchiglia dorata. Nei primi anni ’60 la chiesetta diventava di proprietà della Parrocchia di Avilla con atto di donazione della famiglia Vattolo Francesco. La Sagra A partire dal ’35 cominciavano dunque tempi ben più felici per la chiesetta e la sua festa. Fede e gioia, momenti tradizionalmente inseparabili nella partecipazione popolare, annunciati esplicitamente dal programma delle giornate inaugurali, continuarono ad essere componenti sempre più vivi delle celebrazioni della prima domenica di agosto. Nel calendario e nei costumi assai più semplici di quelli odierni, la festività collocata nei giorni della canicola estiva offriva non solo motivi di devozione e preghiera, ma anche il ristoro di tanto verde e delle fresche acque circostanti e conduceva fin qui, per le strade polverose di allora, i co – parrocchiani di Avilla tanto quanto intere famiglie da altre borgate di Buja e dai paesi contermini. Due o tre bancarelle venivano allestite coi consueti dolciumi per i desideri dei bambini, ma grandi fette di anguria, pescata all’ultimo momento da grandi mastelli d’acqua fresca, erano un’attrattiva irrinunciabile anche per i grandi. Tanto bastava perché, nel parlare comune, la sagra fosse identificata anche come “sagre de angurie”. I preparativi cominciavano nel borgo già parecchi giorni prima della festa con l’allestimento di lunghi fili delle bandiere colorate che univano le case alla sommità del campanile e con la pulizia minuziosa dell’acciottolato esterno e di ogni angolo e arredo e suppellettile interna. Ognuno aveva il suo compito, a seconda della delicatezza dell’intervento da sbrigare, ma persino strappare ad una ad una le erbacce che si infiltravano fra le pietre della scalinata diventava una mansione cui applicarsi con orgoglio, soprattutto da parte dei bambini. Già nei tre giorni precedenti la domenica tutto doveva apparire splendente, perché le funzioni religiose si aprivano con un triduo che introduceva alla solennità vera e propria. Concluso il momento della fede, la domenica incominciava il momento del divertimento. Le classiche pentole da colpire alla cieca per raccogliere una manciata di monetine (o per essere investiti da un getto d’acqua o una nuvola di cenere!) si allestivano lungo un filo tirato tra due pali sulla collinetta. Il terrazzino che faceva da tetto al “camarìn” della casa di fronte, invece, poteva prestarsi a fare da palco per le gare di velocità a mangiare pastasciutta, cui i giovani non disdegnavano di partecipare, visti i tempi di scarsa abbondanza. Partecipare o assistere aveva poca importanza: era comunque una giornata di gioia semplice, senza pretese, ma autentica e condivisa anche al suono di una fisarmonica. Ancora oggi, dopo anni di progressivo ridimensionamento degli aspetti ludici e ricreativi a vantaggio di ben più allettanti offerte (il festival di Majano si affermava negli anni ’60 e la diffusione dei mezzi di trasporto individuali è andato di pari passo con il proliferare di sagre di ogni dimensione in ogni paese), la sagra di Andreuzza ha conservato caratteristiche di essenziale semplicità. L’attuale parroco, don Felice Snaidero, si è attivato da qualche anno a questa parte per aggiungere alla processione pomeridiana qualche interessante riflessione di tipo culturale. La nota più rilevante della solennità della giornata è comunque costituita dalla partecipazione puntuale ed immancabile della Banda Cittadina, che oggi come tanti anni fa segue il momento religioso della processione e lo completa con una breve rassegna di vivaci motivi del suo repertorio. Ma, stando alle affermazioni di coloro che non vogliono mancare all’appuntamento annuale con la Vergine delle Acque, proprio la genuinità senza forzature e senza deviazioni, in cui ciascuno può serenamente trovare una sosta dell’anima nel panorama assolato di agosto o nella complicata vita di ogni giorno, è la caratteristica forse più apprezzata ancora oggi. Ed è, speriamo, la più salda garanzia di lunga vita a questo piccolo monumento di fede che l’affetto di un borgo, con il sostegno di tanta gente perbene, ha fatto rinascere due volte come risorsa del patrimonio storico - religioso di tutta la comunità. NOTE: 1. La citazione si trova in Chiesette votive friulane di Giuseppe Bergamini, “Civiltà friulana di ieri e di oggi”, S.F.F. e Regione F.V.G., 1980, pag. 177. L’Autore aggiunge: “Le chiesette votive, che prima almeno del terremoto erano più di ottocento, sono un vero e proprio elemento caratteristico del paesaggio friulano”. 2. La bibliografia sulle chiesette scomparse è quasi sempre frutto del lavoro di ricerca di Pietro Menis. Dell’Autore si veda: Chiese di Buja. S. Caterina, in “II Popolo del Friuli” 3.7.1937, Chiese di Buja. Santa Caterina, S. Daniele, 1937, volumetto di 17 pagine, 1 tavola, con la storia della scomparsa chiesetta votiva del 1372 dedicata a S. Caterina in Codesio. Il certificato di nascita di una chiesa che non è più in “Voce amica”, Bollettino Parrocchiale della Pieve di Buja, gennaio 1935 è la trascrizione del documento del 1734 attestante la nascita della chiesa della SS. Natività di Campo Garzolino, demolita nel 1834. Consultabile in “Nô i sin ce che i lassin” DVD di Gallina C., 2006 (Percorso: Culto- Storia- Bollettini). SS. Sebastiano e Rocco nella Pieve di Buja, S. Daniele, 1946, 1951 è un volumetto di 23 pagine con notizie storiche sul culto e le statue (sec.XVII e XVIII) dei Santi oggi esposte nella Pieve e facenti parte della chiesetta di San Sebastiano prima della sua demolizione, avvenuta nel 1909 per permettere la costruzione di un fortino! Le chiese di Buja in “La Pieve di Buja, notizie storiche”, Gemona, Toso, 1930 è un’appendice allo studio sulla Pieve e riassume informazioni storiche aggiornate al 1930 sulle altre chiese di Buja, tra cui quelle scomparse. Dell’oratorio di S. Giovanni Battista e S. Giuseppe, oltre che delle altre “chiese soppresse”, dà notizia mons. Pietro Venier nel “Manuale del Parrocchiano di Buja”, Torino, 1876, pag. 20. 3. Cfr.Casal del Andreuzza di Andreina Nicolos Ciceri, in “Buje Pôre Nuje” n.4, 1985, pagg. 11 – 12. 4. Cfr anche: Il mai di Pauli di Maria Forte in “Buje Pôre Nuje” n. 4, 1985, pagg. 9 – 10 e Dal mai di Pauli all’Europa di Celestino e Mirella Comino, in “Buje Pôre Nuje” n. 20, 2001, pagg. 113 – 118. 5. Dell’evento imminente danno informazione alcuni volantini locali e Pietro Menis sul Gazzettino del 1.8.1935 con l’articolo “Chiese di Buja. La nuova chiesa di Andreuzza e le sue origini storiche”. |