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Padre Marco Bertoni

“un fî d’anime di Vile”, 

missionario in Ciad

di Giorgia Zamparo

 

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Originario di Rizzolo di Reana del Roiale, ma da sempre nostro cittadino onorario e, prima ancora, “fî d’anime” della comunità e della parrocchia di Avilla – padre Marco Bertoni, quando torna in Friuli per soggiornare qualche giorno con la sua famiglia a Rizzolo, appena può, viene a trovare anche i suoi amici e i suoi parenti buiesi. All’occasione, magari per una festa o per una ricorrenza – come è successo la scorsa estate – si ferma volentieri e concelebra la Santa Messa, nella chiesa di Andreuzza (l’anno scorso, per la festa della “Madonna delle Acque”), e in quella di Avilla, che fu al tempo parrocchia della sua mamma, Diana Calligaro, e dei nonni, Erna e Mario Calligaro, di Ontegnano (familiarmente conosciuti a Buia come “chei de Crete”).

Che sarebbe tornato e, soprattutto, che sarebbe sempre rimasto legato alle sue radici paterne e buiesi, padre Marco lo aveva detto fin dall’inizio, ovvero fin da quando, appena divenuto sacerdote, in procinto di partire in missione in Ciad, già affermava: “come missionari mi sint leât ae culture furlane, lidrîs te cuâl o soi cressût e cu la cuâl o podarai metimi a confront par condividi altris culturis”. E da allora, di culture ne ha incontrate e conosciute tante, vivendone in prima persona la diversità etnica e la ricchezza umana e culturale di ognuna. Un patrimonio immenso, che di certo non poteva neppure lontanamente immaginare quando, già da piccolo, in famiglia diceva di voler fare il prete missionario. “Lo ripeteva frequentemente e con grande convinzione”, dice mamma Diana, che afferma di essersi stupita non poco quando, in terza elementare, Marco le aveva mostrato lo schizzo di una mappa del Ciad, copiata o intravista chissà dove e quando. Solo uno o due anni più tardi, racconta ancora la Signora Diana, “anche l’incontro con padre Rodolfo Cirroi – missionario al tempo in Indonesia, che era passato per qualche ragione a Rizzolo, ma che noi non conoscevamo – ha probabilmente rafforzato in Marco la sua già indiscutibile intenzione, o per meglio dire, la sua precoce vocazione”.

 

Il percorso verso il sacerdozio missionario

Sul “Foglio d’informazione per gli amici” dei Missionari Saveriani, del 22 settembre 1985,  padre Marco (nato il 29/07/1960) racconta così il suo percorso verso il sacerdozio missionario:

“La mia vicenda inizia a undici anni, quando da Rizzolo del Roiale sono andato a Udine, dove i Missionari Saveriani hanno la casa e le scuole medie; quindi ho continuato gli studi a Zelarino (VE). Sono giunto così ad un primo passo decisivo con l’ingresso nel noviziato ad Ancona: un anno importante nel quale ho approfondito il carisma della famiglia saveriana e, al termine del quale, ho fatto la prima professione dei voti religiosi. Sono passato quindi nello Studentato filosofico-teologico di Parma e dopo due anni di studi sono partito per un tirocinio pedagogico nella nostra Casa Apostolica di Macomer (NU); ritornato a Parma ho iniziato gli studi teologici. Con la professione perpetua, il 3 dicembre dello scorso anno, sono entrato a pieno titolo nella Famiglia saveriana e mi sono messo definitivamente alla sequela di Gesù Cristo. Quest’anno poi ho ricevuto l’ordine del Diaconato, ultimo passo prima del presbiterato”.

Sullo stesso foglio, infine, il neosacerdote preannunciava la data della sua prima Messa: nella parrocchia di Rizzolo, il 29 settembre 1985; quella immediatamente successiva, invece, il nostro “fî d’anime di Vile” l’avrebbe celebrata proprio nella sua chiesa di Avilla: un segno di affetto per la madre e, naturalmente, per Don Saverio Beinat che lo aveva sempre sostenuto ed aiutato; sicuramente, un ulteriore gesto di gratitudine e di riconoscenza per una comunità che anche qui, in qualche modo, gli era stata sempre vicino e a cui padre Marco in più occasioni aveva dimostrato il suo affetto, che ad oggi persiste e pare reciprocamente accrescersi.

 

In missione in ciad dal 1989

La piccola cittadina di Gunu-Gaya, dove padre Marco è arrivato nel 1989 e in cui è vissuto fino al 2002, e il vicino villaggio di Jodo, in cui ha prestato la sua opera fino al mese di agosto del 2008, si trovano nel Sud Ovest della Repubblica del Ciad, alla frontiera con il Camerun. Quest’area, grande poco meno della Val d’Aosta, è abitata dai Musey, popolo che raggruppa un insieme di etnie diverse, per un totale (dai dati di uno degli ultimi censimenti sulla popolazione) di circa 184.000 abitanti. A questo numero vanno aggiunti i quasi 20.000 Musey stanziati nel Camerun (ma poi vi è  anche un’altra stessa colonia in Nigeria e alcuni altri insediamenti in regioni limitrofe); la disgregazione di questi gruppi dalle stesse etnie ciadiane e la loro dislocazione va ricercata soprattutto nelle spartizioni, nelle separazioni territoriali e nella definizione delle frontiere operate dalle potenze vincitrici e dai loro accordi fatti a tavolino, alla fine della Prima Guerra Mondiale. Fu infatti nel 1918, dopo la sconfitta della Germania e la conseguente perdita delle sue colonie, che venne fissata la frontiera tra il Camerun e il Ciad, decretando una massiva separazione di questo popolo (e così fu anche per altre popolazioni africane che vennero a dividersi sebbene appartenessero alle stesse etnie); il territorio musey passò inoltre sotto l’amministrazione coloniale francese.

È dunque qui, tra questi luoghi e tra questo popolo, che padre Marco ha dato inizio alla sua attività missionaria di evangelizzazione. Soprattutto inizialmente, nei primi impatti con questa nuova realtà, cercare di essere accettato ed accolto da quelle etnie, impegnandosi da subito ad imparare la loro lingua, per comprendere e farsi capire, non deve essere stato facile; altrettanto faticoso, di certo, il tentare di abbattere o smussare – attraverso un operare consapevole e rispettoso – antichi retaggi di una brutale colonizzazione e di una prevaricazione assurda, esercitata da una cultura occidentale che, con grande presunzione, si è spesso sentita superiore, agendo di conseguenza.

Verso la fine dei primi tre anni di missione, in una lettera rivolta a parenti ed amici –  che ringraziava perché durante tutto quel tempo li aveva sempre sentiti vicino a sé, materialmente e con la preghiera – padre Marco raccontava questo suo percorso di inserimento, senza tuttavia far trasparire le difficoltà, ma evidenziando piuttosto le soddisfazioni. 

Così scriveva: “Non mi è facile raccontarvi tutte le esperienze e le cose che ho vissuto nel primo impatto con una cultura di un mondo diverso e in un ambiente dove il cristianesimo vive il quotidiano con la religione tradizionale e con la complessità di una società che lotta contro miseria e ingiustizia. Grazie alore parcé che no mi soi mai sintût di bessôl e di Riçûl mi è simpri rivât tant. La mê lidris e je achì, ma cumò al è a Gunu-Gaia che o cîr di fâ cressi la plante dal Vanzeli di Gjesù Crist. 

Arrivato in Ciad, nella missione di Gunu-Gaia, il mio primo impiego si è concentrato nello studio della lingua locale musey; uno sforzo essenziale per poter comunicare e capire a fondo questo popolo. Esclusi gli animatori formatisi alla missione, la maggior parte è analfabeta; in Ciad lo è il 75%; la nostra gente è molto semplice e lavora duro durante i cinque mesi di pioggia per ricavare il sufficiente per vivere tutto l’anno; l’alimento base è il miglio-sorgo con il quale si fa la polenta; i valori più forti sono la famiglia, intesa in senso allargato e dove i figli sono una benedizione; così pure l’accoglienza allo straniero visitatore. Un esempio di un caso capitato a me: venuto a conoscenza che un anziano, membro della Caritas, aveva perso la capanna a seguito di un incendio, sono andato a trovarlo per aiutarlo ed incoraggiarlo; arrivato sul posto, dopo un po’ di discussione, mi è stato offerto del tè e delle arachidi e prima di andarmene ho ricevuto anche un pollo, segno di amicizia e di alleanza e così me ne sono andato via con molto di più di quel che avevo dato.

Appena presa un po’ di confidenza con la realtà, ho iniziato a celebrare la  Messa in lingua musey e poi ho preso in mano una specie di Caritas. In ogni comunità cristiana del villaggio c’è un animatore che è scelto per seguire poveri e ammalati; con loro io faccio una riunione mensile di formazione. Tutte le riunioni si fanno nei sette centri-parrocchie dove si celebra la Messa ogni quindici giorni e dove si riuniscono dieci/quindici villaggi. Là si impara soprattutto il Vangelo secondo l’opzione diocesana che corrisponde alla loro tradizione di  racconti di memorizzazione della parola di Dio. Con il Vangelo nel cuore gli animatori rientrano al villaggio dove cercano di praticarlo: preghiera, visita agli ammalati, raccolta di legname per un anziano... Nei periodi di difficoltà gestiscono anche la distribuzione del miglio ai poveri; è successo anche nel 1991, quando infatti c’era un po’ di crisi: noi padri abbiamo messo dei soldi nelle casse di questi animatori e loro hanno comperato e distribuito del miglio facendoci poi il resoconto. Questo rientra in una prospettiva diocesana che mira all’autonomia e all’autogestione; certo non bisogna farsi delle illusioni, ma l’importante è abbandonare un certo paternalismo e operare affinché la gente si rimbocchi le maniche e non stia lì, con la mano tesa, ad aspettare un aiuto.

In un secondo tempo ho seguito anche il catecumenato, cammino strutturato in quattro anni e mezzo di preparazione per ottenere il Battesimo. In particolare, coadiuvato da un animatore, ho tenuto gli ultimi ritiri di preparazione diretti a questo Sacramento; sono giorni intensi di riflessione sulla Parola di Dio e sulle esigenze della vita cristiana, tenendo tutto il positivo della loro tradizione. Normalmente si termina la domenica con un rito davanti alla comunità: la gioia di avere percorso un’ altra tappa del cammino cristiano si esprime con il canto e con la danza. Dall’anno scorso ho preso in consegna pure i catechisti che sono circa 200, divisi in due gruppi a seconda della catechesi che devono trasmettere; anche con loro c’è un incontro mensile di formazione dove si impara  il Vangelo e si riflette su di esso. Questi, poi, vengono a ripeterlo tra la loro gente e alcuni fanno un ritiro mensile rivolto a tutti i catecumeni di un insieme di villaggi.

Infine seguivo le attività di produzione umana e principalmente il settore di animazione agricola; ci sono due animatori locali, assunti dall’Organismo Diocesano per lo sviluppo, che cercano di aiutare il loro popolo a fare dei granai comunitari, o li sensibilizzano per piantare alberi, dato che pian piano inizia la desertificazione. Sta iniziando anche una specie di “cassa di risparmio” per aiutare la gente ad economizzare ed utilizzare al meglio i soldi che, per loro, oltre ad essere solo un’invenzione dei bianchi, sono anche fonte di molti problemi.

Per la scuola e per i tre dispensari, invece, ci sono delle suore che vi lavorano e ne fanno la supervisione; lì, infatti, il  responsabile è una persona del posto che le stesse sorelle avevano precedentemente inviato in formazione.

Dal mese di dicembre 1990 la nostra diocesi di Pala è in Sinodo per celebrare il quarantesimo di evangelizzazione e analizzare la presa reale del Vangelo sulle gioie, le speranze e le tristezze della gente. Il 3 maggio ‘92 abbiamo terminato la prima tappa con l’assemblea e la festa di consacrazione della nuova cattedrale. Dalle riunioni sinodali delle nostre parrocchie sono usciti vari problemi tra i quali l’ingiustizia, l’abuso dei militari, le tasse arbitrarie e la vessazione. Nel matrimonio, non si segue più la tradizione e la dote è diventata un semplice commercio di soldi; l’alcolismo e l’abuso di alcol in genere è divenuto un vero e proprio spreco di miglio per fare birra. L’analisi di queste situazioni, che ha portato alla ricerca di piste che ora devono essere battute e rese percorribili da tutti i cristiani della diocesi, sarà la seconda tappa del sinodo. Termino ricordandovi il motto del nostro sinodo: “Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo, affinché ciascuno di noi in ogni situazione possa vivere secondo il Vangelo essendo il sale che non disgusta, ma che nella giusta misura dà un buon gusto al mondo. Grazie e mandi a ducj”.

 

E ad oggi, padre marco?

Qual’è il grado di alfabetizzazione del popolo Musey e di altre etnie in aree limitrofe?  Il livello e la diffusione dell’alfabetizzazione e della scolarizzazione nella regione dei Musey e in aree limitrofe, evidentemente non possono essere definiti e riassunti in un dato univoco; qui ci sono ancora delle etnie il cui livello di analfabetismo raggiunge il 70/80%  per gli uomini e il 95/100% per le donne (spesso si tratta soprattutto di popolazione anziana); ad oggi, però, si registra un notevole aumento del livello di alfabetizzazione soprattutto tra i giovani ed i bambini; nel caso del popolo Musey, dove si è compresa l’importanza di istruire un giovane o qualcuno di casa, un’altissima percentuale di bambini (quasi il 100%) va a scuola. Il problema, in generale, è che gli allievi sono tanti e gli insegnanti sono pochi, o comunque non in numero sufficiente; a questo, si cerca di supplire organizzando nei villaggi dei gruppi di persone che si ritrovano, magari sotto una tettoia improvvisata, e fanno scuola attraverso qualche giovane della comunità che per l’occasione si fa maestro.

E tra le varie lingue utilizzate, quale si insegna nella scuola ciadiana? L’arabo è la lingua veicolare, utilizzata soprattutto nel mercato, nelle operazioni e negli scambi commerciali; dovrebbe essere insegnato anche nelle scuole (e in alcune sedi si fa) affiancato al francese, che è la lingua maggioritaria e pertanto utilizzata anche nell’attività didattica educativa. Qui in Ciad, comunque, la “politica linguistica”,  insiste sul fatto che ai bambini vada insegnata prima di tutto la loro lingua madre, sia essa qualsiasi varietà, perché da questo iniziale e spontaneo utilizzo, l’apprendimento delle altre lingue diventa molto più facile ed immediato. (!)

Attualmente, su che cosa si basa l’attività produttiva locale?  L’economia locale si basa ancor oggi su un’agricoltura di sussistenza e sulla monocultura del cotone, di cui i Musey sono tra i maggiori produttori; introdotta con la forza delle armi nei primi decenni di colonizzazione francese, questa attività è attualmente regolata dalla raccolta collettiva attuata da una società denominata “CottonTChad” che detiene il monopolio del prodotto e che unilateralmente stabilisce la quotazione del mercato. Il clima subtropicale, caratterizzato dal succedersi della stagione piovosa (da maggio a settembre), a quella secca (per i mesi restanti), favorisce la coltivazione di molte varietà di miglio e sorgo, che costituiscono le derrate agricole più importanti; buona è anche la produzione di riso, panico e altri legumi e vegetali.

Va comunque detto che, in genere, le attività produttive non mirano ad un’accumulazione di tipo capitalistico, ma alla sopravvivenza dei membri del villaggio, tra cui vige una notevole solidarietà tra parenti, soprattutto in periodi di carestie e in mancanza occasionale di provviste. Prima della colonizzazione, e quindi prima che la savana venisse trasformata in campi per la coltivazione del cotone, i Musey erano dediti soprattutto alla caccia poiché quel territorio era ricco di tutti i tipi di selvaggina; oggi vi si dedicano soprattutto durante la stagione secca. Le pratiche venatorie rientravano anche nelle loro tradizioni, per esempio: per attribuire ad un giovane il titolo di “vero uomo”, questo doveva catturare grosse prede e guadagnarsi la fama di “gran cacciatore”. I Musey erano e sono tutt’oggi noti anche per essere allevatori di cavalli, che nel passato erano considerati beni di scambio per ricompensare la famiglia da cui un uomo prendeva moglie; questi animali, inoltre, erano molto utilizzati per la caccia in savana. Oggi, anche la loro funzione di locomozione é demandata alla bicicletta e, in alcuni casi, alla motocicletta. Le attività artigianali sono rivolte soprattutto alla realizzazione di intrecci per la produzione di panieri, la fabbricazione di corde, di reti (per la caccia e la pesca fluviale e lacustre) e la concia delle pelli.

 

I musey: una passione autentica raccolta in un libro

Al popolo Musey, padre Marco ha dedicato uno studio molto dettagliato e approfondito, raccolto in un libro che ha per titolo “I Musey. Miti, favole e credenze del Ciad”.  La possibilità di pubblicare quest’opera – edita nel 2005 – è scaturita da un progetto di ricerca dell’Università di Sassari e dell’Ateneo N’Djaména che nel reciproco accordo di collaborazione scientifica, hanno espresso l’interesse di inserire il lavoro di padre Marco fra le ricerche etnoantropologiche condotte nell’ambito del medesimo accordo. Il progetto di ricerca e la pubblicazione dell’opera sono stati realizzati grazie ai finanziamenti del “Progetto Ciad”, destinati alle attività di cooperazione con i paesi in via di sviluppo (Legge 19/96), messi a disposizione dalla regione Sardegna.  L’opera racchiude gli elementi fondanti dell’identità culturale del popolo Musey (largamente sconosciuto agli antropologi e ai sociologi, prima di questa ricerca) e si presenta come una raccolta ben ordinata e minuziosa di miti, favole, credenze, proverbi, indovinelli, formule rituali e di propiziazione. Il valore di questo studio e il grande merito del suo autore – scrive il responsabile del “Progetto Ciad”, prof. Mario Atzori, nell’introduzione del libro – “sta nella documentazione delle tradizioni orali”; padre Marco, infatti, “ha messo insieme i racconti del popolo Musey in forma orale e si è poi adoperato affinché venissero  trascritti con i caratteri fonetici internazionali, per fissare graficamente la pronuncia e l’intonazione”. È un’operazione di grande rilievo, perché è pionieristica e basilare “.  ... E la sua composizione – rivela padre Marco – è stata una vera e propria avventura: per le distanze e per la carenza di strumenti di comunicazione che infieriscono sul flusso tempestivo delle notizie fra il mondo tecnologico dell’Europa e quello arcaico dell’Africa; il computer, per esempio, utilizzato grazie ad una carica di batteria a basso regime, è servito a registrare, mentre i contatti con l’università di Sassari per lo scambio degli aggiornamenti necessari, avvenivano tramite un ponte-radio volante attivato da amici volonterosi.   A loro, appunto... a questi collaboratori instancabili che – accanto alle istituzioni e ai loro illustri referenti, agli studiosi e ai ricercatori – hanno contribuito in forme e modi differenti alla pubblicazione del suo lavoro, padre Marco esprime la propria riconoscenza nella parte conclusiva del suo libro. Così, per averlo invogliato ad entrare nel programma di ricerca, per avergli dato lo stimolo ad andare oltre il semplice apprendimento della lingua musey e per la trascrizione fonetica dei testi nello stesso codice linguistico, padre Marco esprime tutta la sua gratitudine a padre Antonio Melis, missionario saveriano, anch’egli in Ciad, presso la popolazione Masa e a sua volta studioso e profondo conoscitore di quella cultura. E soprattutto non manca di ringraziare il popolo Musey che lo ha accolto ed integrato e che nel corso di circa vent’anni (tanto è durato anche lo studio e la raccolta dei dati), con pazienza e generosità, gli ha insegnato la lingua e rivelato straordinari segreti della propria cultura.

Miti, favole, credenze, indovinelli, proverbi e motti... Volendo riportare qui un sintetico estratto di almeno una di queste sezioni approfondite nel libro, si propone una breve selezione di proverbi, tra i numerosissimi citati dall’autore. Collocandoli nel capitolo “Proverbi e motti”, padre Marco precisa che ogni comunità, a seconda dell’ambiente naturale, sociale e dell’apparato simbolico, elabora specifici proverbi, i cui riferimenti si contestualizzano nell’orizzonte culturale su cui si collocano e trovano riscontro. Così è per questi proverbi del popolo Musey, la cui lingua, peraltro, non contempla un termine corrispondente a quello di “proverbio”; il concetto, invece, rimanda all’espressione “parole di saggezza”. Questa selezione lo evidenzia:

La paglia è sufficiente per finire il tetto (Si dice per la spartizione delle cose; ce n’è per tutti);

Una sola corda non è sufficiente per legare la legna (Si ha sempre bisogno degli altri);

Incoraggiare non mette a terra nessuno (Soltanto incoraggiare non dà forza, bisogna aiutare)

Il miglio che è lontano non ti salverà (Non sono gli aiuti esterni che risolveranno i tuoi problemi);

La volpe non mangia le arachidi che sono davanti alla sua porta (Non rubare dai vicini);

Il lavoro ti fa depositare molti escrementi (Se lavori bene sarai ricompensato);

Tu suoni il flauto verso il vicino (Per qualcuno che vede gli sbagli degli altri e non i propri);

La nuca non può diventare la fronte (Bisogna rispettare i più anziani);

Tu non sei come il legno rosso che dura molto tempo (Non si è eterni);

La carestia è come la rugiada, la si scuote in fretta (Bisogna saper aspettare, perché comunque l’abbondanza tornerà).

 

Padre marco alla radio di bongor

Padre Marco ha lasciato Jodo nel settembre dell’anno scorso per continuare la sua missione a Bongor, città del Ciad occidentale, capoluogo della regione del Mayo-Kebbi Est. È qui che – come da incarico ricevuto dai propri superiori – è tenuto ad animare, rendere funzionale e gestire, sotto la sua supervisione, una stazione radio. La presenza di questo mezzo comunicativo in Ciad – come in molti altri stati africani, e non solo nelle città più grandi, ma anche in piccoli villaggi – è discretamente elevata.

Disporre di piccoli apparecchi radio a batterie (che i ciadiani acquistano molto spesso in Nigeria, dove si fabbricano e si vendono a prezzi molto accessibili) è abbastanza facile. La cosa non deve stupire, afferma padre Marco, che dice:

 “anche in Africa il mercato è arrivato un po’ovunque e molte cose sono estremamente accessibili. A discapito di altre, forse, e creando talvolta  il  paradosso; se infatti è vero che alcune aree sono completamente prive di acquedotti, reti fognarie ed elettricità, è anche vero che  si assiste ad una sempre più frequente istallazione di nuove antenne telefoniche e alla conseguente vendita di numerosi telefoni cellulari. La radio, tuttavia, qui in Africa e in Ciad, è uno strumento fondamentale attraverso il quale si possono diffondere importanti notizie e contenuti che accomunano una moltitudine di destinatari che con questo mezzo è  possibile raggiungere. Attraverso la radio potrò parlare di sanità, lanciare appelli e ricordare appuntamenti particolari inerenti quest’ambito, sensibilizzando e ricordando alle persone di sottoporsi alle vaccinazioni o ad altri provvedimenti sanitari consigliati o “imposti” in particolari periodi e circostanze; si lavorerà per diffondere avvisi, adempimenti e accorgimenti particolari relativi all’agricoltura o ad altri settori; si  parlerà  di cultura, di lingue e di tutto quello che riguarda il territorio...  e naturalmente io continuerò a diffondere la Parola di Dio...”

Queste, dunque, le intenzioni ed i propositi che padre Marco ci anticipava l’estate scorsa, qui in Friuli, poco prima di partire per Bongor.

Direttamente “dall’officina di realizzazione” di questi obiettivi, il neo direttore radiofonico (nonché regista, speaker, tecnico audio ed informatico, muratore ed aiuto elettricista), in una mail inviata a casa lo scorso 13 novembre, raccontava però anche le prime difficoltà a porli in essere: in primis le mille peripezie affrontate per ripristinare lo stabile destinato a divenire sede radiofonica.  Così scriveva:

“...Qui a Bongor, dopo una buona stagione delle piogge, col fiume che è debordato ed ha inondato vari villaggi e che adesso si sta abbassando in fretta – siamo in piena stagione secca, con clima fresco al mattino e caldo di giorno. Alla radio, in seguito alla caduta di un fulmine e a vari problemi elettrici, ho dovuto richiedere l’intervento dell’elettricista della Diocesi per rivedere tutti gli impianti... ma il lavoro è lungo. Devo anche fare lavori di muratura per rimettere in ordine e rendere più funzionali le stanze... che devono diventare adatte al montaggio sonoro e allo studio. Fortunatamente mi sono accorto che i pannelli isolanti dello studio e dell’ufficio sono pannelli isolanti di amianto ... per cui devo cambiarli. Dato che siamo senza tecnico, devo seguire anche le riparazioni o spostarmi per trovare un riparatore... mentre  sto reinstallando anche alcuni computer. L’altro giorno sono stato nella Diocesi di Lai e per attraversare i fiumi di quell’area ho dovuto utilizzare due traghetti; ho così potuto vedere posti nuovi e conoscere l’emittente radiofonica del luogo, dove il tecnico ci ha anche riparato un mixer. In generale, il lavoro qui alla radio è appassionante, ma è un vero lavoro; lo è stato soprattutto all’inizio e dopo un tempo di vuoto direzionale e di manutenzione a cui sto ancora provvedendo.

Come vi dico, infatti, sono  preso da tanti lavori ma spero di poterne uscire e arrivare a fare le cose con più calma e spirito.”

E a questo speranzoso proposito – con cui padre Marco Bertoni chiudeva questa sua ultima missiva  (ovvero la più recente, alla data di redazione di questo articolo) – noi amici di Avilla aggiungiamo i nostri migliori auguri per la realizzazione ed il successo del suo progetto e – attendendo di poterci collegare sulla sua frequenza radio... – ci accontentiamo di collegarci a distanza, con il cuore, la preghiera, ed il nostro affetto.