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| Don Luigino d'Agostini di Mirella Comino | |
"Si viodìn le prossime volte". Così salutava gli amici di Buja quando doveva lasciarli per rientrare a Udine, dove dal 1967 era cappellano in Duomo. E aggiungeva, nascondendo la tristezza con una battuta ironica: "I' voi in sitât! ". Era giunto a Buja per la sua prima esperienza sacerdotale come cappellano della parrocchia di Santo Stefano nel 1960. Da allora questo paese gli era entrato nel cuore così profondamente che nemmeno, più tardi, l'affetto grande e sincero di tanti parrocchiani udinesi riuscì mai a mettere in secondo piano la gente del suo primo incontro pastorale. I giornali del 18 luglio 1974 annunciavano a tutti gli amici, quelli di Buja, quelli di Udine e quelli che, a decine, aveva conquistato dovunque, che una prossima volta non ci sarebbe stata mai più: don Luigino era morto la sera del 17 luglio nell'ospedale di Udine, dove il "male del secolo", che egli aveva riconosciuto fin dal principio e che aveva orgogliosamente sfidato con un'incredibile voglia di vivere, aveva alla fine avuto la meglio. Aveva 37 anni. Parlare di lui non è facile. Anche a vent'anni di distanza c'è chi non ha colmato il vuoto della sua presenza profonda e cristallina e, come il fratello Giorgio o tanti altri amici, dietro un "non so cosa dire" difende il diritto di tenere il ricordo di questo personaggio straordinario al riparo da ogni interferenza esterna. Parlare di lui non è facile, ma è necessario soprattutto oggi, e soprattutto a Buja. Viviamo in tempi difficili e lo vediamo dovunque. Sono tempi di pessimismo, di divisioni e particolarismi, in cui distruggere è più facile che costruire, criticare è più comodo che testimoniare coi fatti le proprie proposte, ed è più ovvio trovare colpe negli altri piuttosto che scavare dentro il proprio senso di responsabilità. Lui era abituato a percorrere strade esattamente opposte. Lo sport, la cultura e il tempo libero, oltre, naturalmente, a tutti gli impegni educativi e liturgici connessi alla sua funzione sacerdotale, erano i campi che attraversava ogni giorno contattando una per una le famiglie e le singole persone: quelle della sua parrocchia, in particolare a San Floreano cui era stato assegnato, ma anche quelle di altre zone di Buja; quelle che la pensavano come lui, ma anche quelle che non andavano in chiesa, o che addirittura professavano apertamente idee anticlericali o antireligiose; quelle "che contavano", ma anche, e credo soprattutto, quelle senza storia, o peggio ancora, avvilite da storie di tristezza ed emarginazione. La sua presenza nelle varie iniziative che curava era trascinante ed instancabile. Un'anziana donna di Ursinins Piccolo lo aveva soprannominato "il passarìn", per significare la rapidità con cui appariva e scompariva nell'intento di arrivare dappertutto. Era una presenza che doveva arrivare dappertutto perché non poteva tradire l'obiettivo principale che si era dato: portare a tutti, ma specialmente ai giovani, il patrimonio di quei valori che si specchiano nella luce del Cristianesimo e che danno, loro soli, dignità e grandezza alla vita di ogni uomo. Non predicava tutto questo, e non lo scaricava sulle spalle di altri: lo faceva. Interpretava di volta in volta la parte dello sportivo, del fotografo, del musicista, dell'animatore sociale perché aveva capito che questi erano i linguaggi che gli avrebbero permesso di entrare nel cuore della gente e di mettersi al suo servizio secondo il modello di Cristo. Nello sport, con la fondazione della Stella Bujese che accolse oltre cento ragazzi fino ai sedici anni, ribaltò il concetto di competizione: i suoi calciatori, ciclisiti, podisti, avevano l'impegno di battere non tanto la squadra avversaria, quanto i nemici che stavano dentro di loro stessi, come la slealtà, la bestemmia, la violenza, l'incapacità di controllare le proprie reazioni, la mancanza di rispetto per chi vestiva una maglia di colore diverso. Negli anni '60 conquistarono classifiche regionali, ma il loro fiore all'occhiello furono le Coppe Disciplina che premiavano il loro essere uomini, in un concetto di sport oggi quasi introvabile. Nella musica, con la fondazione del Gruppo corale "Buje", costrinse a camminare sullo stesso binario finalità culturali, artistiche e sociali che spesso si pensano in contrasto tra loro, come quella di raggiungere livelli tecnico-espressivi di una certa importanza e quella di permettere a chiunque lo volesse, ed incredibilmente perfino agli stonati, di entrare a far parte del gruppo dei cantori. La sua fiducia nelle persone e nella loro capacità di migliorarsi era incrollabile e forse fu proprio comunicandola senza incertezze ai coristi che riuscì in meno di due anni a consegnare a Buja un gruppo canoro di grande sensibilità ed affiatamento. Le regole del gioco, d'altra parte, erano poche e semplici: il coro era il luogo di chi amava il canto, ma soprattutto di chi amava stare insieme, senza distinzioni di appartenenza sociale, politica o territoriale, e senza presunzioni di superiorità. Con la Stella Bujese ed il Gruppo Corale, ma anche con i campeggi e le gite sociali per i giovani, e con la fotografia (quante sono ancora la famiglie di Buja che hanno in casa il ritratto di un bambino o di un vecchio, inquadrati attraverso l'obiettivo delle sue Rolley o Canon con l'occhio che il cancro non gli aveva distrutto!) tentò di curare il male che considerava più cronico ed autodistruttivo di Buja: il campanilismo, che egli si rifiutava di confondere con il giusto rispetto della personalità individuale di borghi e parrocchie. La lotta tra campanili, troppo spesso consumata nell'indifferenza o addirittura con la complicità di chi si diceva cristiano, era a suo avviso lo specchio delle piccole e grandi invidie personali, ed era la causa di tanti limiti che Buja imponeva a se stessa, impedendosi di costruire risultati di un certo valore nonostante i tesori di risorse che sapeva di possedere dentro di sè e nella sua gente. Che questi mali gli siano sopravvissuti e siano oggi perfino in fase recrudescente non c'è dubbio. Il tempo che ha avuto a disposizione per seminare è stato troppo breve; oltre a ciò, chi l'ha conosciuto sa in mezzo a quali contrasti ed a quale prezzo abbia seguito la sua strada di coerenza fino all'ultimo giorno. Il seme che ha gettato, però, non è caduto tra le pietre, se dopo vent'anni c'è ancora chi ha voglia non solo di ricordarlo con affetto e nostalgia, ma anche di raccogliere il suo messaggio e di farlo conoscere a coloro che non hanno avuto l'esperienza preziosa di conoscere lui. La Pro Buja, per iniziativa del presidente Bruno Cattarino, ha programmato per il '94 una serie di manifestazioni che potranno dare l'occasione di riflettere sui significati sociali, culturali, politici, pastorali, tracciati nel paese e nella gente dal troppo breve passaggio di quest'uomo che, come ha affermato uno dei suoi coristi, "è stato grande fino in fondo". Un libro che uscirà a maggio racconterà la sua vita, ricostruita attraverso le testimonianze di tante persone che l'hanno conosciuto; nella seconda parte descriverà poi il suo mondo, riproducendo ciò che lui sapeva guardare attorno a sè attraverso l'obiettivo della macchina fotografica. Sarà quindi un libro biografico e fotografico che, assieme alla proiezione di diapositive e di filmati da lui realizzati e assieme ad alcune mostre sui soggetti a lui più cari (bambini, paesaggi, campeggi) sarà contemporaneamente un ricordo ed un prezioso documento della vita di Buja negli anni sessanta e nei primi anni settanta. Ci saranno inoltre iniziative musicali e sportive, curate da diverse Associazioni, che riporteranno alla luce la sua attività in questi campi. Come quand'era tra noi, insomma, don Luigino è riuscito a mettere insieme persone e gruppi diversi che possono lavorare d'accordo per uno scopo comune. Dovrebbe essere questa la linea guida non solo della Pro Loco, ma, speriamo, di tutti i Bujesi di buona volontà. |