Vita Cattolica 26 maggio 2007

Mons. Gian Carlo Menis ha diretto il museo diocesano
 per 47 anni giovedì 31 maggio il saluto e il
passaggio del testimone a Giuseppe Bergamini

«Ho detto no ai Musei Vaticani»

 di Erika Adami

 

 

Dopo 47 anni alla guida del Museo diocesano, 12 da quando è ospitato nel Palazzo Patriarcale, mons. Gian Carlo Menis - storico, storico dell'arte e archeologo di natali bujesi - si congeda dal servizio dopo una vita dedicata all'arte sacra friulana. Un impegno, quello della sistemazione delle collezioni d'arte diocesane e della fondazione della nuova istituzione museale, al quale si è dedicato con dedizione e passione. Tanto da rinunciare alla direzione dei Musei Vaticani.

 

Nonostante il pontefice avesse già firmato il decreto di nomina. Mons. Menis (nella foto) scelse di lavorare per il bene della comunità friulana, sacrificando un incarico che gli avrebbe conferito grande prestigio. «Mi pareva - racconta - che la creazione del nuovo Museo diocesano fosse ben più importante per l'Arcidiocesi di Udine che il mio passaggio ai Musei Vaticani». L'arte sacra, infatti, ama ricordare mons. Menis, «è espressione della pietà cristiana». L'intreccio tra arte e fede forma la più suggestiva espressione della religiosità e insieme la più suadente rivelazione di Dio all'uomo. Per di più, tali manifestazioni religiose sono profondamente incarnate nella realtà storica e culturale delle singole comunità credenti, per cui ogni espressione dell'arte cristiana è anche testimone dei caratteri etnici di una Chiesa particolare. In questo quadro si inserisce l'impegno pluridecennale di mons. Menis.

Giovedì 31 maggio, alle 17, nel Palazzo Patriarcale di Udine la Chiesa Udinese lo ringrazierà per il servizio reso, alla presenza di autorità civili e religiose, di rappresentanti del mondo della cultura e sacerdoti dell'Arcidiocesi. Sono previsti dei momenti musicali con il trio «Flora» del Conservatorio «J. Tomadini» di Udine e il clavicembalista Manuel Tomadin, mentre le collaboratrici del Museo diocesano leggeranno una selezione di scritti del sacerdote.

Mons. Menis, come e quando si è appassionato all'arte?

«Compresi l'importanza dell'arte sacra come espressione della pietà popolare fin da bambino di fronte al «Martirio di San Lorenzo» di Nicola Grassi, una pala cinquecentesca conservata nella pieve di San Lorenzo a Buja. Mi sono accostato concretamente all'arte ai tempi del Seminario. Avevo 18, 20 anni. È diventata subito una passione. Determinante è stato mons. Pietro Bertolla, che è stato un maestro di amore al Friuli, all'arte e all'arte sacra in particolare. Ho collaborato alla preparazione delle esposizioni da lui organizzate, per esempio quella sulla miniatura friulana. Purtroppo allora non sono stati fatti i cataloghi e quelle mostre sono rimaste sepolte nel passato».

L'arte ha, dunque, fatto parte della sua formazione al sacerdozio. Una passione che è diventata una professione. «Sì. La scuola del Seminario prima e il Pontificio istituto di archeologia cristiana di Roma poi, dove mi sono laureato

con una tesi sulle chiese paleocristiane della zona di Aquileia, hanno lanciato la mia attività di storico dell'arte». Il contributo

scientifico di cui va più fiero?

«Non ce n'è uno in particolare. Sono le tante pubblicazioni di cui sono autore, contributi che riempiono una biblioteca».

E la scoperta scientifica?

«Gli scavi a Buja, dove ho scoperto una chiesa del V, VI secolo, che ha trovato poi riscontro in riviste specializzate».

Cosa ricorda del periodo di insegnamento al Seminario di Udine?

«Ricordo in particolare l'attenzione dei seminaristi alla storia riflessa nella vita quotidiana, alla storia del Friuli, che mi diede poi l'occasione di pubblica-

re per la Società filologica friulana la «Storia del Friuli dalle origini alla caduta dello stato patriarcale", edita più volte e tradotta in diverse lingue».

Per 47 anni ha diretto il Museo diocesano e per un ventennio il Centro di catalogazione dei beni culturali ed ambientali del Friuli-Venezia Giulia di Passariano. Sulla base della sua esperienza, di cosa ha bisogno il patrimonio culturale friulano?

«Di maggiore attenzione. Era chiaro già all'epoca del terremoto del 1976. Quell'esperienza ha rappresentato per me un momento di presa di coscienza della valenza del patrimonio artistico locale e della grande sensibilità dei friulani verso le espressioni dell'arte sacra, della propria cultura e fede». C'è ancora questa sensibilità? «Sì, è il Museo diocesano ha proprio il compito di non farla venir meno, ricordando che l'arte è manifestazione della propria fede. In questo l'arte sacra si distingue dall'arte in genere, perché è anche espressione della pietà cristiana».

Le chiesero di dirigere i Musei Vaticani. Si è mai pentito di non essere andato a Roma?

«No. Il Papa aveva già firmato il decreto di nomina, ma in quel momento mi pareva che la creazione del nuovo Museo diocesano, la sua valorizzazione con la possibilità di dare sviluppo all'arte locale, fosse ben più importante per l'Arcidiocesi di Udine che il mio passaggio ai Musei Vaticani».

Come ricorda la fase di allestimento del museo?

«Con grande emozione. Il museo ha conosciuto tre fasi: dagli scantinati del Seminario in viale Ungheria al tra sloco nel Palazzo Patriarcale, passando per la fase, la più drammatica, del terremoto. Fu l'arcivescovo Giuseppe Zaffonato, nel 1963, ad inaugurare un primo nucleo museale negli scantinati del Seminario. Nel 1968, il museo organizzò una mostra dei Codici liturgici aquileiesi e nel '72, in sala Ajace, la prima mostra della miniatura in occasione del 18° Congresso eucaristico nazionale nel palazzo comunale. Con l'arrivo a Udine dell'arcivescovo Alfredo Battisti si concretizzò il progetto di aprire al museo il Palazzo Patriarcale, rendendo visibili al pubblico le Gallerie del Tiepolo. Ma il terremoto del 1976 provocò una battuta d'arresto. Si dovettero salvare dalle rovine di tante chiese lacerti di affreschi, dipinti su tela e su tavola, sculture, oggetti d'oreficeria. Le scosse sismiche avevano danneggiato anche il palazzo patriarcale, per cui fu necessario un intervento radicale di consolidamento e restauro. Il 29 aprile del 1995 si arrivò all'attesa inaugurazione. Da allora abbiamo organizzato una serie di esposizioni temporanee: nel 1996 quella su Paolino d'Aquileia, nel 1998 la mostra della religiosità popolare, nel 2001 la mostra del restauro, poi dell'oreficeria sacra,

dell'arte contemporanea e l'anno scorso quella dei capolavori salvati dopo il terremoto. L'attività espositiva è stata accompagnata dalla pubblicazione dei relativi cataloghi, e poi da quella di opuscoli informativi in diverse lingue. Annualmente viene edito un numero della rivista "Vultus Ecclesiae". Tutto questo ha collocato il museo nel contesto contemporaneo».

La fase del terremoto fu, come ha ricordato, la più drammatica, ma si contraddistinse anche per la grande vitalità, con la raccolta delle opere d'arte dalle zone terremotate e l'avvio di un importante programma di restauro - un lavoro imponente che lei diresse e coordinò -, espressione di una forte attenzione per il patrimonio artistico locale.

«All'impresa diedero il loro contributo tantissimi volontari. Furono determinanti. Tutto il materiale recuperato, centinaia e centinaia di pezzi utili a ricomporre il tessuto di fede popolare, di cultura, di tradizioni, vennero raccolti prima a Udine, nell'ex chiesa di San Francesco, poi nella villa Miotti di Tri-cesimo, e nel Centro di catalogazione di Villa Manin, per essere poi restaurati e ricollocati nelle loro sedi originarie».

I motivi di maggiore soddisfazione del suo servizio alla guida del Museo diocesano?

«In ognuna delle tre fasi del museo ci sono stati dei momenti esaltanti. Guardando all'oggi, la presenza di molti visitatori, soprattutto d'Oltralpe, meraviglia ed è motivo di grande soddisfazione. Nell'ultimo anno ci sono stati quasi 10 mila visitatori, la metà dei quali proveniente dall'estero».

Il passaggio del museo dagli scantinati del Seminario di viale Ungheria al Palazzo Patriarcale ha rappresentato un salto di qualità.

«Certamente, sia dal punto di vista dell'organizzazione, sia dal punto di vista dell'accesso alle opere d'arte, alle quali si sono aggiunti gli affreschi di Giambattista Tiepolo. È stata una promozione radicale, lo si vede anche dalle visite di molte scolaresche». La parte didattica è, in effetti, un punto di forza

del Museo diocesano. «Sì, abbiamo attrezzature e personale che segue gli alunni con percorsi adeguati, perché possano avvicinare i più giovani all'arte».

Molto è stato fatto anche sul versante delle collaborazioni scientifiche...

«Certo. Il fatto che l'ex direttore dei Musei civici di Udine, Giuseppe Bergamini, stia diventando il direttore del Museo diocesano è una prova

Il pezzo più rappresentativo del Museo diocesano?

«L'altare ligneo di Domenico da Tolmezzo, che è diventato un modello di altaristica del legno dal Quattrocento in poi».

Guardando al futuro, di cosa ha bisogno il Museo diocesano?

«È necessario lavorare in due direzioni: quella della maggiore valorizzazione dell'arte sacra locale, anche attraverso mostre, e della formazione delle giovani generazioni».

A cosa sta lavorando ora?

«Sto realizzando un libro su Udine "città del Tie-polo", detta così perché conserva un alto numero di opere dell'artista e perché rappresenta un momento decisivo nello sviluppo dell'arte del Tiepolo, che arriva a Udine da Venezia. Il libro è in corso di realizzazione, uscirà entro l'anno».

Un augurio al suo successore?

«Che possa migliorare ancora il Museo diocesano, camminando sulla strada tracciata».