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Mussolini architetto

Intervista a Paolo Nicoloso 

di Maurizio Giacomini

 

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Paolo Nicoloso (Buja, 1957) insegna storia dell’architettura alle Università di Trieste e Udine.
Studioso di storia dell’architettura italiana del Novecento, soprattutto del ventennio 1922-1943, nel mese di febbraio del 2008 ha pubblicato per la casa editrice Einaudi il libro Mussolini Architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista. Un saggio interessante da annoverare tra i migliori lavori storiografici italiani degli ultimi anni per l’attenta indagine critica e la lucidità di esposizione. Un lavoro di ricerca appassionato che, come dice lo storico Sergio Luzzatto, è il «frutto di un monumentale scavo archivistico».

Molti dei documenti esaminati sono inediti, e riportano episodi e fatti, talvolta curiosi, in grado di rivelare e avvalorare con forza quella che è la tesi del libro. Sempre Luzzatto: «l’opera di Nicoloso rappresenta il tentativo più compiuto e più riuscito di misurare la funzione dell’architettura nell’edificazione dell’uomo nuovo fascista». Infatti, il libro analizza, con un linguaggio estremamente chiaro e preciso, il ruolo avuto dall’architettura nella strategia del consenso e la sua azione educativa. Uno strumento politico connesso in profondità con le vicende degli anni Trenta (anche del dopoguerra vista l’eredità delle centinaia di architetture che il ventennio fascista ci ha lasciato). Scrive ancora Luzzatto: «la ricerca di Nicoloso dimostra tutta la vitalità di quella stagione architettonica, e tutta la disponibilità verso il dittatore degli architetti che vi operavano». Il saggio di Paolo Nicoloso, grazie ad un approccio rigoroso, ripercorre un periodo fondamentale del nostro Novecento e i mutamenti sociali, politici e culturali che lo hanno caratterizzato.

 

M.G. Nel tuo libro affermi che l’architettura nel caso del fascismo sia stata non solo un mezzo teso al raggiungimento del consenso ma anche un mezzo di educazione delle masse (e di comunicazione verso le masse). In che senso l’architettura partecipa all’educazione delle masse?

P.N. Finora si è sempre sostenuto che il fascismo si sia servito dell’architettura per ottenere e consolidare il proprio consenso politico. La mia tesi è diversa.  Sostengo che per il fascismo l’architettura non sia stata solo strumento di consenso, ma anche di educazione politica. Questa ulteriore finalità dell’architettura si manifesta circa nella seconda metà degli anni Trenta quando il regime imprime al paese un’accelerazione totalitaria.

Dopo avere raggiunto un ampio consenso, Mussolini vuole infatti trasformare quel consenso al fascismo in una fede politica. Vuole, cioè, inculcare nel popolo i valori fascisti. Per creare e diffondere questo credo, questa fede, sono necessari i miti. Il popolo si nutre di miti e la modernità del fascismo sta proprio nel governare le masse utilizzando i miti. Il mito più diffuso, più produttivo, più capace di incidere sull’immaginario collettivo è quello della romanità. Durante il fascismo questo mito ha fatto credere a milioni di italiani che un popolo di dominatori fosse rinato. Ciò che serve dunque a Mussolini è un’architettura capace di trasmettere i miti del fascismo, quello della romanità in primis. In questo senso l’architettura svolge una funzione educativa, partecipa cioè al progetto di fascistizzazione delle masse.

M.G. Tu parli di progetto antropologico.

P.N. Sì. Il progetto di Mussolini, quello più ambizioso, è di trasformare antropologicamente gli italiani, di creare l’ “uomo nuovo”, di far rinascere l‘uomo guerriero, dominatore su gli altri popoli: in altre parole il vero fascista. A questo si mira, ad esempio, creando un’organizzazione per l’educazione della gioventù, la Gil. A questo progetto educativo partecipa l’architettura favorendo, con la costruzione di nuovi paesaggi urbani, la trasmissione nelle masse dei miti fascisti.

M.G. Lo stratega di tutto ciò sembra essere stato il solo Benito Mussolini. È lui che invade di prepotenza il campo dell’architettura ritenendolo un formidabile strumento di potere. Da chi o da che cosa è stato persuaso in questo convincimento?

P.N. Tra i consiglieri di Mussolini nel campo dell’architettura possiamo individuare Margherita Sarfatti, Ugo Ojetti, Marcello Piacentini. Senz’altro con loro ha discusso sull’importanza dell’architettura come strumento di potere. Tieni conto poi che Mussolini ha davanti agli occhi gli straordinari monumenti dell’antica Roma e della Roma dei papi. Sono esempi formidabili di come si governa con l’architettura e si rimane nella storia. E Mussolini insegue con ossessione l’idea di rimanere nella storia.

M.G. Quale peso hanno avuto le frequentazioni d’Oltralpe con il Führer (a sua volta influenzato da un architetto come Albert Speer)?

P.N. Senz’altro Mussolini è colpito dall’importanza che Hitler assegna all’architettura. L’architettura diventa, come nel viaggio in Germania del settembre 1937, uno dei temi delle loro discussioni. A me ha colpito molto questo fatto, che due capi di Stato s’incontrino per parlare di architettura. Vuol dire che l’architettura è in cima ai loro interessi. E non per amore dell’arte.

M.G. La sfida di Mussolini a Hitler sui temi dell’architettura si percepisce in maniera netta.  Entrambi sostengono che il clima imperiale che trascinerà le folle nascerà solo dalla monumentalità e maestosità che assumeranno i volti delle città simbolo, ossia Roma e Berlino. Una guerra a suon di programmi edilizi tra i due dittatori.

P.N. Certamente c’è una sfida tra i due dittatori. Mussolini è salito al potere prima e quindi è avvantaggiato. Ma Hitler ha le idee più chiare sulla funzione dell’architettura. Essa deve servire a far prendere coscienza di sé al suo popolo, a rafforzarne l’identità politica e razziale. Più grande, più ciclopica è l’architettura, più potente è la nazione. Davanti a un’architettura colossale, confida Hitler a Speer, il popolo comprenderà chi comanda nel mondo.

M.G.. Riferendosi alla più imponente delle architetture in progetto a Berlino, il dittatore tedesco dirà che essa vale più di tre guerre vinte.

P.N.  E’ un’affermazione che fa impressione. Ci fa capire quale importanza assoluta viene dal capo del nazismo assegnata all’architettura.

M.G.  L’architettura che attrae Mussolini e Hitler è contraddistinta da opere che simboleggiano la solidità, l’eternità della costruzione (l’architettura dei marmi e dei graniti...), l’architettura che rappresenta meglio la forza del potere. Si può assegnare una vittoria in questa sfida?

P.N. Sono architetture costruite in marmo e in granito perché devono durare, perché devono continuare a trasmettere significati anche dopo la morte dei loro committenti, anche dopo la fine dei regimi politici.

I programmi architettonici di Hitler dovevano essere realizzati per il 1950, ma non decollano a causa della guerra. Mussolini invece ha costruito molto durante gli anni Trenta. Inoltre ciò che non è stato concluso viene completato nel dopoguerra. In questo senso si può dire che abbia vinto Mussolini.

M.G. Nella seconda metà degli anni Trenta Mussolini sembra interessarsi più ai grandi progetti monumentali e meno agli aspetti sociali dell’abitazione.

P.N. Sì, avviene proprio questo. Preferisce indirizzare la spesa pubblica nella costruzione dei grandi edifici monumentali piuttosto che nella costruzione di case che mancano. Perché forgiare la mentalità degli italiani è più importante che offrire loro una casa decente. E’ una scelta che risponde a un calcolo politico.

M.G. Ma nell’Italia profondamente agricola, disseminata di casolari e di piccoli insediamenti rurali, vivono persone per lo più all’oscuro della maestosa figurazione di potere che il dittatore sta inscenando.

P.N. Non credo che l’Italia contadina rimanga estranea emotivamente a questa figurazione del potere. Il regime ha una capacità di penetrazione estesa e capillare. La fascinazione mitica ha una forte presa sulle popolazioni contadine, così come su quelle urbane.

M.G. Il significato “romano” degli imponenti palazzi di marmo è davvero comprensibile a tutti?

P.N. Mussolini vuole costruire architetture comprensibili. L’architettura deve servire al regime per comunicare al popolo. “In arte – aveva detto – bisogna essere capiti, soprattutto capiti”. C’è dunque la volontà di arrivare con l’architettura al cuore della gente. Di creare un certo tipo di emozioni. Credo che tra le ragioni che lo spingono a preferire l’architettura fatta di archi e colonne all’architettura “razionalista” sia la maggiore chiarezza di significato della prima rispetto alla seconda. Dunque la preoccupazione di Mussolini è quella di far giungere a tutti il messaggio.

M.G. Ma l’edificazione del «uomo nuovo fascista» non è semplice.

P.N. L’edificazione dell’ “uomo nuovo” non è certamente semplice e si rivela un fallimento se pensiamo alla disaffezione e poi all’odio riversato dalle masse popolari sul fascismo. E probabilmente almeno una parte di quelle masse aveva acclamato anni prima il regime e il suo duce.

M.G. In una famosa intervista rilasciata a Ludwig, Mussolini giunge a definire, con toni sdegnati, il popolo italiano «una razza di pecore».

P.N. Mussolini disprezza quella che lui chiama la materia prima, cioè il popolo italiano. Per lui, il popolo è una massa che va modellata. Una massa che deve innanzitutto credere. “Credere, obbedire e combattere” è uno degli slogan più diffusi. Non una massa che ragiona, ma che crede nei valori, nei miti che gli vengono inculcati.

     M.G. Negli stessi anni, negli altri paesi europei, paradossalmente, è in atto un’altra edificazione. Il “nuovo uomo repubblicano”, che in Francia abiterà le nuove case bianche, cubiche, su pilotis di Le Corbusier (invano chiederà udienza a Mussolini), che in Finlandia familiarizzerà con le armoniose costruzioni di Alvar Aalto in legno e laterizio (materiali diversissimi dal marmo e dal granito), un “uomo nuovo” che i  razionalisti moderni, i Gropius, i Mies van der Rohe, i Loos, i Wright, i Garnier, inseriranno in abitazioni caratterizzate da curtain wall in vetro, da chiari blocchi prismatici,  da angoli liberi da sostegni visibili, da composizioni spaziali oggi diffuse ovunque. Mussolini, soprattutto dopo il 1936, rifiuta quel modernismo europeo, rifiuta il carattere dell’architettura che si sta sviluppando negli altri paesi, inadeguata, a detta sua, a portare le masse verso la nuova civiltà romana.

P.N. E’ vero quello che dici. Ma va tenuto anche presente che la tendenza verso un modernismo classicista nell’edilizia pubblica rappresentativa negli anni Trenta non riguarda solo i paesi totalitari, l’Italia, la Germania e l’Urss, ma è presente anche nelle democrazie liberali, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia. Però in Italia e in Germania, come abbiamo visto, assume un significato particolare. Qui è in corso un esperimento totalitario. Il suo successo dipende anche dal ruolo svolto dall’architettura.

M.G. Ma nella scelta di Mussolini di non sostenere più l’architettura “razionalista” (come aveva fatto ancora nel 1934), di liquidarla perché troppo cosmopolita e precaria, non va intravisto il vero limite della visione architettonica del dittatore?

P.N. Mussolini ragionava in termini politici. Il discorso architettonico è sempre subordinato a quello politico. L’architettura “razionalista” a un certo punto gli sembra poco italiana, troppo concettuale e d’elite. Non funzionale al raggiungimento dell’obiettivo politico. Questa scelta, che appare “antimoderna” come tu fai capire, rischia di collocare l’Italia in un posizione d’inferiorità provinciale. E’ proprio ciò che preoccupa Bottai ed è questa una delle ragioni del dissenso tra il ministro e Mussolini.

M.G. Un altro aspetto interessante sollevato dal libro è quello che riesamina il ruolo degli storici del fascismo. Nelle sue indagini, ad esempio, Renzo De Felice, il maggiore tra gli studiosi di Mussolini, non coglie l’importanza avuta dall’architettura come strumento politico e propagandistico durante il fascismo. Qual è il motivo per cui i maggiori storici del fascismo ignorano (intenzionalmente o involontariamente), la funzione fondamentale dell’architettura del Ventennio che nel tuo saggio viene ampiamente dimostrata?

      P.N. Per me rimane incomprensibile che uno storico del profilo di De Felice abbia taciuto sui rapporti tra Mussolini e l’architettura. De Felice ha studiato l’opera e la vita di Mussolini in ogni piega, ha esaminato una quantità enorme di materiale archivistico. Eppure in 4000 pagine dedicate al dittatore non nomina una sola volta la parola architettura. Questo silenzio dello storico più autorevole ha probabilmente influenzato anche altri studiosi. Chi per primo ha compreso l’originalità del rapporto tra architettura e fascismo è stato Emilio Gentile con un libro uscito nel 1993 e intitolato Il culto del littorio.

Dal canto loro gli storici dell’architettura, pur individuando diversi episodi di contiguità tra il fascismo e l’architettura, hanno sempre insistito nel sottolineare un’autonomia della disciplina dalla politica del fascismo. Che è un modo per salvare l’architettura e gli architetti dall’accusa di collusione con il fascismo. Spero di aver messo in discussione questa presunta autonomia.

M.G. Tra gli architetti che trattengono rapporti diretti con Mussolini ci sono Piacentini, Moretti, Terragni. In che cosa si differenzia il loro legame con il dittatore?

P.N.  A differenza di Hitler, Mussolini non ha un suo architetto. Non lo è dunque neppure Piacentini, che è certamente gli è accanto più di tutti. A lui Mussolini affida molti tra gli incarichi più difficili. L’uno non si fida dell’altro. Mussolini gli controlla il telefono. Sul piano umano sono due campioni di cinismo. Moretti, allievo di Piacentini, è invece un talentuoso architetto non ancora trentenne a cui vengono assegnati incarichi di grande responsabilità. Nello scenario ipotizzato di un confronto con la Germania di Speer, forse Moretti avrebbe potuto sostituire Piacentini. Terragni è quasi coetaneo di Moretti. Manifesta una fede sia verso l’architettura “razionalista”, sia verso Mussolini. Per lui l’architettura del fascismo non può essere che razionalista. Entra in crisi quando Mussolini identifica negli archi e nelle colonne l’architettura del fascismo.

M.G. Nel tuo libro sostieni che l’architettura, da sempre, svolge un ruolo fondamentale nel processo formativo dell’identità di una comunità, di un popolo, di una nazione.

P.N. L’architettura da sempre funziona come un dispositivo identitario. E questo processo identitario avviene nella mente dell’uomo anche in modo inconscio. Il fascismo ha investito moltissimo in una certa architettura per modellare l’identità fascista degli italiani. Per trasmettere certi valori, un’idea di grandezza, di potenza, di superiorità della nazione italiana sulle altre, di civiltà dominatrice del mondo. Pur sfumati, questi messaggi arrivano anche oggi. Ad esempio, davanti a un edificio come il “Colosseo quadrato” all’Eur, pur senza conoscerne la storia, uno riceve da quei marmi un senso di forza, di imponenza. E’ spinto a credere che sia stato costruito in un periodo “glorioso” della storia d’Italia. Certamente non pensa che per costruire quest’edificio non si sono realizzate opere ben più utili, come le case per chi ne era senza. E quasi sempre è incapace di collegare quei marmi all’ideologia di un regime che aveva tolto agli italiani le più fondamentali libertà.

M.G. Edificare architetture per costruire una memoria collettiva?

P.N. Sì, credo che in fondo sia un problema di trasmissione della memoria. La memoria filtra la storia. E’ selettiva, è sempre di parte. La memoria di pietra, voluta per celebrare il fascismo, rimane, è visibile. Le altre forme di memoria, quella orale, quella scritta e anche quella rituale-celebrativa tendono a svanire. Anche nella crisi dell’antifascismo può essere vista la conseguenza di una caducità della memoria. In questo senso ritengo che il progetto mussoliniano di investire nell’architettura si stia rivelando vincente.

M.G. Nell’attuale situazione politica europea è possibile risvegliare sentimenti di appartenenza e di orgoglio nazionale facendo ricorso alla rappresentazione architettonica?

P.N. L’esperimento totalitario fascista applicato all’architettura ha avuto in Italia un suo carattere originario e non ripetibile. E’ invece ancora possibile risvegliare con l’architettura sentimenti di orgoglio nazionale. Lo ha fatto, ad esempio, Mitterand in Francia negli anni Ottanta, avviene solitamente nei paesi ospitanti durante i giochi olimpici. Diversamente dal fascismo, in questi casi  non si ricerca un’identità linguistica nazionale.