IIIa edizione di

 "Buja Terra e Popolo" 

L'intervento dell'Autore

Gianfranco Ellero

 

 

Sabato 1 febbraio alle ore 11, nella sala conferenze della Biblioteca comunale, è stata presentata a un folto e ricettivo uditorio la terza edizione di “Buja. Terra e popolo”.

Dopo i saluti del Sindaco, Luca Marcuzzo, e dell’Assessore Elena Lizzi, dell’ opera e dell’A. hano parlato in termini motivatamente elogiativi il prof. mons. Gian Carlo Menis, Direttore del Museo Diocesano d’Arte Sacra e il prof. Giuseppe Bergamini, Direttore dei Civici Musei di Udine e Presidente della Deputazione di Storia Patria per il Friuli.  Il prof.  Menis ha ricordato che Ellero ha potuto muoversi su terreno già arato e coltivato, traendo evidenti benefici dalle preesistenti storie di Buja, narrate da Pietro Venier, Vincenzo Joppi e Pietro Menis, conferendo però un tratto di inconfondibile originalità a un’utilissima opera di divulgazione scientifica.

Il prof. Bergamini ha posto l’accento soprattutto sulla chiarezza e sulla leggerezza dello stile narrativo dell’Autore, che vuol farsi capire da tutti i lettori, senza tuttavia rinunciare alla serietà e completezza della ricerca, e ha avuto parole di plauso per l’aggiornamento della terza edizione dell’opera, dedicato principalmente  all’illustrazione di Buja come Città d’arte: una definizione calzante – ha detto -   non solo per l’esistenza del Museo della medaglia, ma anche per la presenza di un ricco e importante patrimonio artistico, che comprende felici esiti architettonici, pittorici e plastici, bene descritti e illustrati nel nuovo libro, stampato con la consueta abilità dalle Arti Grafiche Friulane.

L’oratore ha detto ancora che, a partire dal classico “Storia dei Friulani”, le riedizioni  non sono una rarità nella produzione di Ellero, e non è detto che la terza edizione di “Buja. Terra e popolo” sia l’ultima!

Ha concluso la mattinata Gianfranco Ellero con un intervento che, omettendo la parte introduttiva riservata ai ringraziamenti di rito,  riportiamo a ricordo dell’avvenimento.

                                                                                                                     Mirella Comino

Quando l’Assessore Lizzi mi disse che sarei stato il terzo e ultimo oratore della mattinata, non potendo io parlare del mio libro, se non per dire che si è trattato di una dura fatica, ho pensato che sarebbe stato utile riflettere insieme sul significato e la funzione del cosiddetto “libro locale”, commissionato, stampato e distribuito al di fuori dei grandi circuiti dell’”industria culturale”.

Credo sia una riflessione utile, che proporrò partendo da due pensieri di Carlo Guido Mor: “Che cosa faremmo noi storici professionali – mi disse – senza gli storici di paese?” e poi aggiunse, ghignando: “Non invidio gli storici futuri”.

Vediamo di applicare i due pensieri del grande medievalista al libro che oggi si festeggia per la terza volta.

 Mor riteneva indispensabile l’azione degli “storici di paese” anche quando si tratta di maldestri ma appassionati dilettanti. Un giorno, mostrandomi in un libro locale la riproduzione di un manifesto, mi fece notare che l’autore non era stato neanche in grado di trascriverne esattamente il titolo nel testo, e con mia sorpresa disse: “Gli sono grato ugualmente: senza di lui non avrei scoperto un documento molto interessante”. Mor, che poteva permettersi di scrivere grandi opere sull’ “Età feudale” europea, sapeva benissimo che, per capire quanto generale e, nel contempo, capillare sia l’incidenza di un fenomeno, bisogna analizzarne i particolari, e può trattarsi di migliaia o milioni di piccoli e spesso sconosciuti archivi: un lavoro impossibile per uno storico professionale.

Dicendo “storici di paese”, Mor  includeva anche se stesso quando, come nel caso di Maniago, Fagagna e di molti “numeri unici” della Filologica, si calava nei piccoli archivi delle parrocchie o delle case dei nobili per scrivere, a un livello naturalmente alto e raffinato, diciamo al suo livello, qualche capitolo di storia paesana.

Non c’è dubbio, allora, che il libro di storia locale non è soltanto utile ma anche indispensabile, se si considera che nessun editore dei grandi circuiti commerciali dell’industria culturale si imbarcherebbe in un’impresa che, sotto il profilo economico, si conclude spesso in perdita o in pareggio. Eppure possiamo affermare, citando Mor o anche soltanto con un minimo di riflessione, che il libro locale svolge una funzione culturalmente importante, anche se può essere letto (e talora anche concepito) come una concessione allo spirito di campanile o al sentimentalismo localistico. Si tratta di un libro importante, possiamo dire nonostante gli errori ideologici e tecnici dell’autore, sicché il Comune, nel nostro caso di Buja, le parrocchie, le associazioni o altri enti, compiono un’opera meritoria quando finanziano un libro scritto da uno storico di paese: fanno un investimento che darà frutti nel tempo.

Veniamo ora al secondo pensiero: “Non invidio gli storici futuri”.

Quando gli chiesi la ragione di queste parole, mi rispose con una domanda: “Sai perché sono diventato medievalista? anzi, altomedievalista? Perché sono pigro!”.

Considerando i cinquecento titoli della sua bibliografia, il suo insegnamento in quattro Università, il suo rettorato a Modena, la risposta non mi parve convincente, e dissi: “Pigro tu? Non ci posso credere”.

E lui che amava l’umorismo e l’autoironia: “Sono diventato medievalista perché te la cavi con duecento documenti. Ecco perché non invidio gli storici futuri. Ti rendi conto che stiamo accumulando milioni e milioni di  di documenti e informazioni su supporti non mangiabili dai topi, che sono dei formidabili selezionatori negli archivi di carta, aiutati naturalmente dai tarli, dalla polvere, dall’umidità, dalle inondazioni e dagli incendi?”

“Se i topi non ci possono più aiutare nella selezione delle memorie artificiali – dissi – possiamo sempre sperare nelle guerre, nei terremoti, nella smagnetizzazione dei supporti, nell’alterazione chimica delle pellicole, negli errori degli archivisti, nella mancanza di spazi e la conseguente necessità di svecchiamento degli archivi ... Vedrai che la storia troverà qualche antidoto all’eccesso di informazione e di memorizzazione.”

In effetti sono anch’io convinto che i futuri rimarranno increduli di fronte alle  tre o quattro pagine dedicate ogni giorno al gioco del calcio anche dai quotidiani di informazione e quanto meno strana apparirà  la costante attenzione per le previsioni del tempo di una società non più contadina!

Niente di nuovo sotto il sole, intendiamoci. I miti dello sport sono antichissimi. Nella storia di Roma, ad esempio, è rimasto il nome di Scorpo e delle sue 2048 vittorie nel circo. E’ Marziale che gli fa dire: “Gloria del Circo, fragoroso applauso,/ e tua breve delizia, o Roma, io sono/ il grande Scorpo che la Parca uccise/ a ventisette anni, per invidia./ Stava contando i miei trofei/ e mi credette vecchio.” Ma allora i miti entravano quasi sempre nella tradizione orale, che pian piano si spegnava. Oggi rimangono su cd-rom, un supporto inalterabile, e inattaccabile dai topi! Sarà difficile in futuro separare il poco grano dal molto loglio, e non è detto che poi lo si trovi, perché l’eccesso di attenzione per il loglio può aver fatto dimenticare proprio il grano!

Ci sono già esempi preoccupanti di memorizzazione distorta, che possono avere, naturalmente, diverse giustificazioni.

E poi bisogna tener conto che, martellati come siamo di informazioni, apparentemente a portata di mano, finiamo per dimenticare dati importanti, anche recenti, se non si stabiliscono i criteri di selezione dei dati e di memorizzazione. Facendo l’inventario delle opere d’arte contemporanea di proprietà comunale, ad esempio, abbiamo scoperto che la scultura in ferro esposta nella bussola d’ingresso alla sala consiliare era anonima. Nessuna firma sull’opera, nessuna traccia nei documenti del Comune. 

E pur essendo di recente acquisizione, nessuno ricordava chi, quando e perché  era stata donata. Avrei potuto cavarmi d’impaccio scrivendo “opera di autore ignoto”, ma ho coinvolto nella ricerca, tutt’altro che agevole, la Signora Lizzi, Assessore alle attività culturali in carica, e la Signora Comino, Assessore nel tempo della donazione. E così è stato faticosamente possibile stabilire, grazie all’avvocato Brogliato di Vicenza, che l’opera, di Giancarlo Decembrini, era l’omaggio di un gruppo ciclistico vicentino a un analogo gruppo bujese, che a sua volta l’aveva donata al Comune verso la metà degli anni Ottanta. L’occasione creata dalle ricerche per la terza edizione di quest’opera era forse l’ultima prima dell’oblio definitivo.

Ho collaborato alle ricerche dell’artista sconosciuto e, in un certo senso, preteso di conoscere il suo nome perché quando scrivo un libro di storia locale penso sempre ai lettori e agli storici futuri.

Che cos’è, infatti, un libro di storia, se non un racconto sul passato con il linguaggio del presente indirizzato al futuro?

E’ per questo che cerco sempre di renderlo ricco di dati potenzialmente utili, che fra qualche tempo sarebbero di difficile o troppo onerosa reperibilità.

Ricordo ancora gli occhi del compianto Gino Molinaro, il Sindaco della ricostruzione, quando gli dissi che nella prima edizione avrei pubblicato alcune tabelle di risultati elettorali nel Comune di Buja. Mi guardò sorpreso e mi chiese: “Sono tanto importanti?” Detto con altre parole: perché pubblicare dati così recenti?

Ebbene sì, sono importanti, non soltanto perché nessun lettore può permettersi una ricerca personale per verificare se il racconto dello storico è aderente al fenomeno studiato, ma anche perché i dati per Comune (da qualche anno lodevolmente pubblicati sui quotidiani), prima dell’elettronica, erano di non agevole reperibilità anche per gente del mestiere. Dirò di più: se fosse stato possibile, in termini di spazio editoriale e di costi tipografici, sarebbe stato auspicabile persino la disaggregazione dei dati per seggio elettorale, posto che, ad esempio, il risultato del mio paese di nascita, Fraforeano, unica frazione del Comune di Ronchis, risultò spesso decisivo per l’esito delle elezioni comunali.

Se noi immaginiamo uno sviluppo storico esponenziale, vediamo non soltanto una linea curva che si dirige verso l’alto, come la scia di un aereo in decollo, ma vediamo anche la stessa linea che si ingrossa sempre più e, a partire dalla metà del secolo scorso, si dilata in un fascio di corde. Fino a non molto tempo fa la storia dei nostri paesi era soltanto “cristiana e contadina”, disse Pasolini, oggi è anche industriale, postindustiale, tecnologica, informatica... Ecco perché Mor non invidiava gli storici futuri!

Ciò significa, in concreto, che non si può semplicemente ristampare un libro di storia locale: bisogna aggiornarlo.

Già in seconda edizione, nel 1996, furono aggiunti cinque nuovi capitoli e la carta toponomastica. Nella terza sono state aggiunte trentadue pagine per illustrare il patrimonio artistico, nel quale è naturalmente inserito il Museo della medaglia, istituito nel 1998, ma sono ben quattordici le nuove immagini inserite nella parte già edita, e fra esse mi piace segnalare quella che illustra i percorsi delle rogazioni descritti da Pietro Venier nel 1876.

Venendo ora alla terza edizione di “Buja. Terra e popolo”, dirò che molto ho imparato viaggiando con il fotografo Riccardo Viola, fedele interprete visivo del mio modo di fare storia anche per immagini: un metodo che è stato possibile applicare fin dalla prima edizione grazie a  “Buja cent’anni”, il libro fotografico di Giuseppe Bergamini. Fu lui, infatti, a cercare, trovare e disporre in sequenze narrative, nel tempo fecondo delle celebrazioni del millenario, molte delle fotografie che si ritrovano in questo libro. Ed è grazie a quella pubblicazione che poi fu possibile attribuire a Giovanni Domenico D’Aita le immagini dei fornaciai sui luoghi di lavoro, copie di positivi contenuti in tre album ritrovati da Franca Merluzzi presso gli eredi del fotografo, a dimostrazione che chi investe in cultura raccoglie i frutti nel lungo periodo.

Molto ho imparato, dicevo, entrando nelle chiese di Buja per guardare le opere d’arte in esse custodite, rimanendo spesso in precario equilibrio su sedie appoggiate su banchi per portarmi ad altezza e distanza “fotografica”: dirò, in sintesi, che sono rimasto colpito dalla bellezza e dalla vastità del patrimonio artistico bujese, che mi era ovviamente noto fin dai tempi della prima edizione del libro (anche se in quegli anni di ricostruzione le chiese erano  in attesa di rifacimento) ma non avevo mai guardato con occhio avido e rapace, come nell’autunno del 2002. Sono rimasto particolarmente colpito non soltanto da Zanini, Pittino e Piccini a Urbignacco, ma anche da quell’autentico scrigno dell’arte contemporanea che è la chiesa di San Pietro ad Avilla. Lo stesso Domenico Fabris, pittore ottocentesco non certo famoso, nella pala di Tonzolano e nella Via Crucis del Duomo, mi è parso artista di tutto rispetto. Ed era giusto rendere omaggio anche agli artisti della contemporaneità, come Renato Calligaro, Bruno Aita e molti altri che con le loro opere lanciano nuovi messaggi e contribuiscono a tener viva quella “bujesità culturale” che mi era apparsa ben evidente fin dalla prima edizione.

Ho voluto poi storicizzare due importanti pubblicazioni periodiche, “La Pieve di Buja” e “Buje pore nuje”, che si sono rivelate fonti preziosissime per la storia locale: due pubblicazioni che potevano nascere soltanto nel particolare humus della “bujesità culturale”.

Visto che l’arte, per sua natura “inutile”, è utilissima per costringerci a percorsi mentali diversi da quelli, di solito utilitaristici, della quotidianità, mi auguro che molti lettori di questo libro possano aprire gli occhi su un autentico tesoro artistico, troppo spesso ignorato o guardato con indifferenza.

Concludo dicendo che fui fortunato, vent’anni fa, quando Gian Carlo Menis e Gino Molinaro mi chiamarono a scrivere questa storia. Fui fortunato perché trovai molte fonti edite e inedite, ma soprattutto persone che facilitarono il mio lavoro, e poi capirono che avevo trattato la storia di Buja non soltanto con professionale distacco ma anche con coinvolgimento emotivo. Avevo sposato questa storia, insomma, ed ero poi rimasto sempre “in uaite”, anche perché avevo acquisito una particolare sensibilità. Ma devo dire che mi costrinsero all’attenzione perché molte volte mi invitarono a collaborare a “Buje pore nuje”, a tenere conferenze, a presentare mostre d’arte, a scrivere nuovi libri e, infine, ad aggiornare per due volte “Buja. Terra e popolo”.