Messaggero Veneto 17 marzo 2008

Oltre cinquemila versi nelle più recente opera del sacerdote-poeta che ama il mito

L'epica di Domenico Zannier

ritorna con "I fîs de piere"

di Roberto Jacovissi

 

 

E' stato Aristotele che in Poetica, una delle sue opere acroamatiche riservate ai discepoli, ha scritto che la poesia epica, risultando imitazione di nobili imprese, si accompagna alla tragedia, ma da questa pure si diversifica perché non ha limiti di tempo, e utilizza un unico metro poetico, l'epos, che in greco, originariamente, significava parola, discorso, e solo più tardi "esametro", ossia il verso di sei piedi, il verso eroico dei poeti epici. E se in un primo momento un altro filosofo, il Vico, credette di individuare nel poeta-cantore epico l'espressione (il riferimento qui a Omero è d'obbligo) di una collettività etnica, più avanti la filologia romanti-cheggiante diversificò un'epica "spontanea e popolare" da quella "d'arte o riflessa", quest'ultima prodotta da civiltà mature e creazione di poeti acculturati. È questo il caso, a esempio, dell'Eneide virgiliana o della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.

Interpretazioni che, a parte il mito romantico dell'origine spontanea e popolare della poesia, accumunano l'idea di nazione a quella del mito etnico-religioso, così che ogni nazione sarebbe fondata sul mito, ossia, come sostiene un noto studioso delle religioni, Mircea Eliade, che ogni nazione si fonda su un avvenimento mitico, successo in un tempo molto lontano, agli albori della civiltà. Resta il fatto che secondo quella parte della critica letteraria che sembra aver scarsa dimestichezza con memorabili pagine del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Sassure, a partire dall'800, in Europa, e con la sola eccezione dei Paesi scandinavi, si sarebbe del tutto perso l'incanto del mito e la pratica della poesia epica. Un fatto è certo: la mitologia greca - come l'arte greca, del resto - non fu più possibile quando il progresso scientifico e tecnico rese razionali forze che prima erano sembrate inspiegabili.

Del resto, anche l'Ariosto deprecava l'invenzione dello schioppo. «Avevano dato il colpo di grazia alla cavalleria e, da allora in poi - scriverà in un ammiccante saggio (Viaggio nel paese della poesia) Giuseppe Petronio - un Orlando furioso non fu più possibile; ci fu un Don Chisciotte, ma era pazzo». A riprendere la questione, qualche secolo dopo l'Ariosto, sarà Carlo Marx che dopo essersi chiesto se Achille fosse compatibile con la polvere da sparo o, più in generale, se l'Iliade fosse comatibile con il torchio tipografico, si interrogava se con la pressa del tipografo non dovessero necessariamente sparire le Muse e, dunque, le condizioni necessarie alla poesia epica. Tutto questo è vero, però-e qui torniamo al Petronio - il progresso della ragione e della scienza rende impossibile una certa mitologia, non la mitologia; uccide certi sogni, non il sognatore.

In Friuli, comunque, la poesia epico-mitologica esiste ancora, e ha connotati del tutto particolari: quelli dell'opera poetica di Domenico Zannier, che tanti anni fa ha avviato un'originale tradizione di poesia epica e storica, che ne ha fatto il "poeta nazionale del Friuli". Perché in lui è ferma la convinzione che il mito sia necessario alla nascita di una nazione, di una patria, anche se non nega che la civiltà avanzi a fatica, passo dopo passo, e che il progresso umano avvenga per tappe successive. Prima di Zannier, il Friuli era privo di un suo "poeta nazionale": è ben vero che intorno al Settecento il nobile goriziano Gian Giuseppe Bosizio si era cimentato con la traduzione in friulano delle Georgiche virgiliane con grande proprietà di linguaggio e senso del ritmo («nel di mai, alor che dai monz gris / a disfasi l'umor si va vedint»),e soprattutto con quella dell'Eneide, mutandone tuttavia il tono epico in andamento

bernesco e scherzoso, e che a metà dell'800 Francesco Blasoni aveva pubblicato un poemetto La mitologie di Ajace rappresentat in marmo nel palaz comunal di Udin, e un Poemet popolar pal centenari di Dante (che provocò un'interessante polemica sulle pagine della Rivista Friulana), in un friulano alquanto italianizzato: ma si tratta di poca cosa. Domenico Zannier, a partire dalla prima quadrilogia poetica (Les culines palides, Furiarne di cîl, L'ancure te Natisse e I dumblis partiarcâi), cui altre sono seguite, ha consegnato alla letteratura friulana il più vasto ciclo epico narrativo di tutti i tempi. Giorgio Fag-gin, a proposito della sua epica, ha scritto che l'epos di Zannier si poteva paragonare, per la sua ampiezza e ispirazione, e per i suoi risultati poetici, ai moderni poemi di due altre piccole patrie romanze: al Mirelo del provenzale Mistral, all'Atlantide e al Canigiu del catalano Jacunt Verdaglier, opere pervase da un intenso amore per la storia e i costumi patrii. Dopo poemi quali Crist padan e Colombs d'Etrurie, altrettante tappe del cammino di un popolo che è ben identificato nei suoi caratteri di identità, Domenico Zannier, con quest'ultimo poema di oltre 5000 versi, Filii petrae -I Fîs de piere (edizioni Laurenziane),porta il lettore ancora più a ritroso nella storia dell'umanità, per entrare nella pre-istoria di quei popoli di stirpi diverse che hanno dato origine alla gens friulana, nel momento in cui l'uomo che viveva nelle caverne di questa regione ne usciva, andando incontro alle sfide della storia.

Anche Filii petrae è suddiviso in canti, e presenta un preambolo nel quale l'autore dichiara che con questo canto intende portare a compimento il lungo percorso letterario attraverso i secoli di vita della sua e di tutte le patrie, con l'obiettivo di ricrearne, con la sua poesia, la storia. Un programma ambizioso, risolto con un andamento ciclico: il mito diventa storia e la storia stessa diventa mito, in una progressione di avvenimenti che portano alla affermazione della civiltà dell'uomo fino al grande balzo umano verso la "coscienza del sé", quando l'uomo posa il suo piede ancora incerto sul limitare della storia.

Dalla pietra al metallo; dalla caccia all'allevamento del bestiame; dalla nascita del linguaggio elementare all'elaborazione del pensiero, per arrivare fino all'incontro e allo scontro con altri popoli e alla scoperta di un sacro che è purificato dal totemico terrestre, assumendo le sembianze di divinità celesti. Attraverso questi passaggi, la famiglia del clan dell'Orso - nei poemi di Zannier non c'è un solo eroe epico a dominare la scena - Ursino, la moglie Luna, i figli Polino, Fiorito e Piccolo Sole vanno incontro all'alba di un'umanità che ancora vive in una fase oscura, ma è proiettata verso nuove e civili illuminazioni, verso una vita spirituale e culturale della quale ancora oggi sopravvivono le tracce e i miti di una notte lunga e lontana. Tutto questo canta il nuovo poema epico di Zannier, componendo uno straordinario mosaico per orditura, contenuti e risultati poetici, fino a svelare il messaggio di fondo, che è un messaggio di pace e di amore.

E la storia del clan dell'Orso - con una felice intuizione dell'autore - diventerà, alla fine, essa stessa epos, perché sarà proprio Lauro, l'aedo, a cantare le imprese gloriose degli eroi che hanno difeso il loro popolo alle giovani generazioni. Il suo canto, così, darà l'avvio all'epica, affidando per sempre alla memoria la storia dell'incontro di popoli diversi che hanno dato vita ad una stirpe nuova, e non saranno più figli della pietra, ma uomini liberi avviati verso l'alba di un'umanità nuova.