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L’”Omaggio al Friuli“ 

dei Medaglisti Italiani

di Mirella Comino

 

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Raccontare la storia è tra i compiti della medaglia. Storia di sentimenti e di vissuti personali, oppure di momenti condivisi dalla comunità, o di grandi eventi che fanno da cornice al cammino dell’umanità: tutto può trovare il suo bagliore di eternità nello splendente rilievo del metallo che, secondo i canoni classici di quest’arte preziosa e poco nota ai più, si iscrive nella forma perfetta del cerchio.

Il nostro grande Bujese della medaglia e della numismatica, Guerrino Mattia Monassi, aveva fatto di questa convinzione un programma che si era concretizzato nell’AMES, l’Associazione Medaglistica Esaltazioni Storiche, da lui stesso fondata nel 1974 per tenere continuamente presente il significato celebrativo che a questo prodotto dell’arte può essere assegnato dal committente, dall’artista o da entrambi. Ma, come affermano da sempre gli specialisti di questo settore (mi vengono in mente, ad esempio, Piero Voltolina con la sua “Storia di Venezia attraverso le medaglie”[1] oppure, come esperienza tuttora emozionante, la conferenza del prof. Giancarlo Alteri, direttore del Dipartimento di Numismatica della Biblioteca Apostolica Vaticana, nell’incontro svoltosi nella pieve di San Lorenzo in Monte[2]), da quando gli uomini presero a fissare la memoria degli eventi su una superficie di metallo, questa “piccola-grande forma d’arte” documenta con un proprio linguaggio ciò che altrimenti dobbiamo andare a cercare nei libri di storia.

Il terremoto del Friuli di trent’anni fa è uno di quegli eventi e Buja ha il singolare privilegio di conservarne traccia non solo nella memoria degli uomini, che prima o poi il tempo nasconde, né solo nell’obbiettivo crudo e dolente delle macchine fotografiche, che consumarono allora chilometri di pellicola per far sì che ogni scatto cogliesse un frammento di quella catastrofe, e nemmeno soltanto nelle pagine che furono scritte a migliaia per raccontare verità vissute o immaginate tra le macerie ancora fumanti. Il privilegio di Buja si chiama “Il terremoto nella medaglia - omaggio al Friuli” e costituisce la sezione più ricca di diversità d’ingegno artistico che venga attualmente ospitata all’interno del Museo d’Arte della Medaglia, dove sono altresì allestite la mostra didattica sul percorso di realizzazione di un pezzo coniato e l’esposizione delle opere più significative dei Maestri Incisori bujesi.

La storia di questa sezione museale è intimamente legata alla vicenda che sconvolse il Friuli trent’anni fa e ai suoi anniversari commemorativi.

Racconta il prof. Piero Monassi, nome tra i grandi della medaglia di oggi, nonché nipote e allievo di Guerrino Mattia, che fu proprio la prima, solenne ricorrenza del decennale del terremoto, nel 1986, a gettare le basi della realtà odierna. Egli ricorda, infatti, che nel promuovere ed organizzare a Milano la mostra “La medaglia in Friuli dal ’400 al ’900 e i Maestri incisori bujesi: attualità e tradizione”[3], individuata dal Fogolâr Furlan del capoluogo lombardo con le Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche per rappresentare l’iniziativa simbolo della ricorrenza, erano frequenti i segnali di curiosità che si percepivano nel confronti della piccola Buja, misteriosamente culla dei maggiori geni della medaglistica e della numismatica del ’900. Il successo della mostra, così ricca sul piano artistico e non di meno sul piano emotivo per la forza dei ricordi ancora vivi riguardanti l’evento sismico e l’ondata mondiale di solidarietà che lo seguì, lasciò in eredità a Monassi almeno due indirizzi operativi prioritari: uno fu quello di mettere a disposizione tutta la sua esperienza affinché, collaborando con le diverse amministrazioni comunali, con le associazioni, con gli studiosi e con i semplici appassionati locali, Buja potesse ornarsi della preziosa realtà artistico - culturale di un museo della medaglia. L’altro fu quello di individuare fin da allora nel terremoto un tema fortemente connotativo, capace di motivare la presenza di grandi medaglisti nazionali a fianco dei gloriosi nomi di Buja. Trasformare il significato celebrativo di quella mostra in un’iniziativa stabile, incentrata su quel tema specifico, non fu difficile: la sensibilità degli artisti donatori trovava un vasto campo di spunti creativi nelle diverse facce di un’esperienza emozionalmente e storicamente penetrante come quella del terremoto; la loro generosità, col dono gratuito delle opere, consentiva la formazione pressoché immediata di una collezione; la collaborazione della Triennale Italiana della Medaglia d’Arte di Udine, che nell’edizione del 1984 aveva dedicato una sezione proprio al terremoto, permetteva ulteriore completezza alla collezione. E infine, naturalmente, la felice realizzazione del sogno di un Museo della Medaglia a Buja nel 1998 dava una casa definitiva all’iniziativa.

Il terremoto, dunque, è soggetto unico dell’ampia sezione, esclusiva nel mondo, che qualifica il museo bujese ed è formata dalle opere donate inizialmente da una trentina di medaglisti provenienti da tutta Italia, cui si sono aggiunti in seguito, con altri pezzi, quasi altrettanti artisti.

Un tema unico, ma quante sfaccettature? Quante sfumature, quanti messaggi, quante corde sensibili si intrecciano a comporre il disegno di un evento che ha segnato la storia dei nostri paesi?

Nella rilettura di quegli avvenimenti viene inevitabile ripercorrere diversi tracciati: la cronaca della tragedia e della distruzione, i sentimenti con le loro infinite tonalità di sofferenza, paura e voglia di vivere, i segnali di rinascita, la solidarietà coi suoi uomini e i suoi mezzi, ma anche gli insegnamenti che l’intelligenza e il cuore possono e devono far propri come lezioni di vita scaturite da un banco di prova di dimensione epocale.

Nelle medaglie di questa sezione museale tutto questo è presente.

Se tra quei piccoli capolavori di bronzo, qualche volta d’argento, cerchiamo traccia delle ferite che squarciarono l’anima della nostra gente, possiamo trovare quella traccia nei volti urlanti di Antonino Bidoli in “Trauma” e di Venanzio Crocetti in “Friuli 1976”, nel groviglio disperato dei corpi di “Terremoto del Friuli” di Sacchetti o nelle linee di frattura di “La terra tremò maggio 1976” (Furio Di Bello) e “Omaggio a Udine” (Giampaolo Menegazzo), che disegnano con linguaggi simbolici le spaccature della terra, della storia, dei sentimenti, della vita stessa dei friulani.

Se cerchiamo i segni della distruzione li troviamo nei rilievi tormentati di “Caos” (Mercedes Biasizzo) e “Omaggio al Friuli” (Guido Vanni) e nell’abisso che tutto sembra inghiottire di Gianfranco Zanetti, nell’intreccio di volti e macerie di “6 maj 1976” (Carlo Badii) e nelle torri, nelle chiese, nei campanili, simboli spezzati delle comunità, come in “Friuli 6 maggio 1976” (Sergio Giandomenico), “Friuli 1976-1996” (Gianfranco Malison), o nel “Friûl 6 di mai 1976” di Claudio Rodaro, che sul rovescio iscrive il lamento dell’antica villotta “Un dolôr dal cûr mi ven”. C’è la cronaca della morte in “Francesca” di Enore Pezzetta, che ricorda l’ultima immagine di una bimba di Osoppo rimasta sepolta dalla propria casa e in  “L’ultimo dono di una madre”, capolavoro in due versioni di Pietro Galina, dove la tragedia, il dono della vita e la speranza di futuro affidata al piccolo bimbo nutrito al seno dalla madre morente tra le macerie disegna in pochi centimetri la sintesi di un quadro d’apocalisse.

Ma il terremoto non è stato solo catastrofe: c’è un’araba fenice che risorge dalle sue ceneri nel “Post fata resurgo” di Enore Pezzetta; c’è un armonioso duetto di volti emergenti dal travaglio di segni in movimento di Luciano Del Zotto in “el taramot al à sdrumât nome i mûrs”, e c’è un addensarsi di nuovi rilievi che si formano nella convessità della faccia titolata “Rinascita”, emergente dalla concavità in negativo dell’altra, significativamente denominata “Abisso” dall’autrice Luigina Osso (Gia).

E poi le mani, quante mani! Protese a cercare insieme i gesti del lavoro che rimetterà pietra su pietra (“Ricostruzione” di Arnaldo Baldassi e “Risentire la vita, nonostante” di Luigi Mazzella, ad esempio), aperte a proporre con linee decise la forza della solidarietà nell’omonimo pezzo di Enrico Bossi, tese ad afferrare e pronte a stringere nel patto indissolubile dell’aiuto e dell’amicizia, come in “Friuli 6 maggio 1976” di Sergio Giandomenico: pagine straordinarie di civiltà della fratellanza hanno scritto in questi pezzi la loro memoria. È una civiltà in cui hanno lasciato il segno cappelli con la penna nobile ed orgogliosa, che si vanta di ricordare “o jeri ancje jo!” (Eugenio Driutti), o di vestire i corpi sudati degli Alpini al lavoro, come nel verso della medaglia intitolata “Solidarietà” di Enore Pezzetta. Una penna che, anche spezzata, non ha reticenze a chiamare “fradi”, fratello, il friulano colpito dal dolore, come nella placchetta dell’A.N.A. opera dell’alpino - medaglista Gianni Passalenti, ricevendo di rimando lo stesso appellativo di “fratello” per accompagnare un grazie (“Ai fradis alpins un grazie di cûr”, ancora di Pezzetta).

In verità le iscrizioni non sempre sono necessarie per raccontare nel basso rilievo questa indimenticabile storia di 30 anni fa.

Basta un SISMO, il classico, desueto termine che ha fatto posto al “sisma” del parlare comune, per ricordare in un flash di pochi segni simbolici i connotati di una tragedia che ha sconvolto la terra chiamata Friuli: un mucchio di macerie e gocce di sangue e dolore nell’area dell’epicentro; da lì, onde concentriche attraversano il territorio della regione storica (e quindi priva della Venezia Giulia, lasciata ai margini dalle vibrazioni sismiche) fino ai suoi estremi confini. La medaglia di Piero Monassi riesce, com’è consuetudine dell’artista, a raggiungere il massimo di capacità narrativa ed espressiva nel suo stile moderno, riluttante a regole troppo ferree di rotondità, giocato sugli effetti cromatici quanto sui rilievi. In quelle onde sismiche c’è la paura; sotto quel cumulo di rovine sanguinanti ci sono Buja, Gemona, Osoppo, Majano, Venzone e gli altri paesi, e le case e le storie di ognuno di noi.

Ugualmente schive di parole sono le tante composizioni che portano iscritte soltanto semplici date, prima tra tutte l’indimenticabile 1976: non serve molto di più per ricordare che per il Friuli, nella lettura del tempo storico, quella data è un nuovo anno 0 che si aggiunge a quello ufficiale della nascita di Cristo. Nella ricostruzione delle memorie locali dell’ultimo Novecento essa segna con un “prima” e con un “dopo” la periodizzazione e la collocazione degli eventi lungo la linea cronologica. Quell’anno, cui non mancarono altre grandi vicissitudini catastrofiche come i terremoti in Guatemala e in Cina, né importanti interrogativi nazionali come le elezioni politiche che fecero traballare i vecchi equilibri dei due maggiori partiti di governo e opposizione, non ha per il Friuli significati degni di attenzione oltre a quelli che segnarono la sua distruzione e il suo infinito dolore.

Una data, dunque, o poco più: sembra quasi che i segni incisi nel metallo assecondino in qualche modo la reticenza dei Friulani a spendere parole per una tragedia che le parole non possono esprimere. Tuttavia le parole, poche ed efficaci come la medaglia richiede non solo in funzione espressiva, ma anche estetico – compositiva, provano talvolta a incorniciare gli scenari del dolore, della speranza, della solidarietà, della riconoscenza. BUJA OSOPPO GEMONA VENZONE COLLOREDO MAJANO MOGGIO RESIA in “Terremoto ricordo” di Carlo Behmann richiama la geografia del cataclisma affiancando ai nomi dei paesi disastrati un rosone spezzato, riconoscibile per quello del duomo di Gemona, che sappiamo opera del Maestro Bugeta (Domenico da Buja) e che, per Gian Carlo Menis, forse “… è già una ‘medaglia’ cesellata, in cui si palesa la profezia della grande stagione artistica della moderna medaglistica bujese”[4]

“SENZA LA FESTA DEL SOLE…NON ILLUMINERAI STELLE”, di Giancarlo Ermacora, accompagna, sottolineandola, la frattura di sogni incapaci di arrivare al firmamento; L’UMILE DOLENTE E FORTE FRIULI di Bruno Santini incorona una piccola chiesa votiva spezzata, simbolo di una fede antica che in secoli terribili di pestilenze ed invasioni sorresse nella modestia di quattro muri, senza guglie e senza marmi preziosi, la voglia di rinascere delle nostre genti.

Più spesso l’iscrizione si avvale della lingua madre: lo fa quando il messaggio deve diventare più esplicito, forse per assolvere una funzione di dedica nella quale è irrinunciabile la sottolineatura dell’identità: “O JERI ANCJE JO” (C’ero anch’io) racconta l’orgoglio delle Penne nere nel partecipare alla nobile, immane operazione di solidarietà messa in opera dall’allora Presidente nazionale dell’A.N.A. Franco Bertagnolli; “NO VIN TIMP PAR VAI - UNINSI DUC’ A RICOSTRUI” (“non abbiamo tempo per piangere, uniamoci tutti a ricostruire”) di Arnaldo Baldassi esalta la pronta, quasi rabbiosa reazione del popolo friulano di fronte alla sventura. Oppure, distribuita tra il recto e il verso, “TI JUDI A TORNÂ TAL TO FOGOLÂR” (ti aiuto a tornare nel tuo focolare) “AI FRADIS ALPINS UN GRAZIE DI CÛR” (ai fratelli Alpini un grazie di cuore) rappresenta la riconoscenza secondo Enore Pezzetta, mentre, ancora tra recto e verso,  L’AMOR· DI· UN· POPUL· LE· VEVE· ALZADE – IL· TARAMOT· NUS· E· A· RUVINADE· DANUS· LA· MAN· SIGNOR· PAR· RESURI (l’amore di un popolo l’aveva innalzata, il terremoto ce l’ha rovinata, dacci una mano Signore a risorgere) è di Pietro Giampaoli per l’amatissima chiesa di Urbignacco.

Ma tra tanti pezzi meravigliosi per l’efficacia espressiva dei linguaggi verbali e iconografici, figurativi e astratti, classici e moderni e per la trasparenza o la forza dei rilievi, c’è la Medaglia cui riverentemente tutti assegnano l’iniziale maiuscola del capolavoro. È quella che, dai bimbi delle scuole agli adulti di ogni età, tutti riconoscono come “la Medaglia del Terremoto” perché capace di raffigurare la storia e la leggenda, l’identità e la tragedia, la violenza e la speranza: L’ORCOLAT L’ERE VÊR di Guerrino Mattia Monassi.

La storia è quella di un passato così spesso segnato dagli scotimenti della terra da diventare leggenda, mito altrimenti inspiegabile nell’antica semplicità del mondo rurale friulano. La leggenda è quella dell’Orcolat, che non sempre è confondibile col più dispettoso e volubile Orgul, sorta di Sbilf, cioè folletto dalle mille risorse di trasformismo nelle sembianze e nel carattere. L’Orcolat è il mostro, il terribile, il maldestro dalla vita nascosta nel ventre della terra, capace di improvvisi risvegli e di passi rovinosi con gli enormi piedi sotto i quali tutto si scuote e si frantuma. L’identità, oltre che dal personaggio mostruoso al quale il Friuli ha sempre dato il compito di impersonare i tratti di un evento purtroppo conosciuto e forse inconsciamente rimosso, tanto da destare sorpresa quando si fa presente (“l’ere vêr”= era vero), è sintetizzata dal mazzo di campanili ondeggianti, prossimi a seppellire sotto le proprie pietre la storia millenaria dei paesi che rappresentano. La tragedia è ciò che la medaglia suggerisce in un “dopo” non ancora visibile; la violenza è nella dimensione sproporzionata tra il mostro e la manciata di torri che secoli di lavoro non hanno potuto rendere forti abbastanza perché potessero difendere la vita di coloro che vivevano nella loro ombra.

Quanto alla speranza, tra i diversi modelli di rovescio ideati da Monassi c’è quello raffigurante il tipico fogolâr friulano, icona della casa, della famiglia, degli ideali e dei valori della tradizione. “PAR DÂ UNE MAN AE INT FURLANE A TORNÂ COME PRIN” (= per dare una mano alla gente friulana a tornare come prima) recita l’iscrizione, identica nelle varie versioni.

C’è il programma di un grande sogno in quel cerchio ormai noto in tutto il mondo e riprodotto in varie dimensioni, in metalli a diverso titolo di nobiltà. Un sogno che Monassi non poté vedere compiuto perché il suo tempo finì prima che i grandi cantieri della rinascita riedificassero, mattone su mattone, i campanili sbriciolati nella notte dell’Orcolat.

Era un sogno di rinascita economica, perché l’Autore contava, una volta tanto, di produrre a grandi numeri il suo capolavoro per poter realizzare un qualche più consistente contributo di solidarietà a beneficio delle necessità dei Friulani. Era un sogno politico, perché voleva cogliere per il Friuli, nella sofferenza di quei giorni, l’occasione di un riscatto dall’ingiusto anonimato che l’ha sempre penalizzato nonostante l’onestà, la laboriosità, la grandezza di tanta parte della sua gente. Era, insomma, il sogno di un Friulano che, nonostante i traguardi raggiunti ed il successo artistico conquistato a livello internazionale, aveva lasciato il cuore nella terra delle sue tradizioni.

I sogni però, qualche volta, si avverano in modo diverso da come si annunciano. Perciò, l’ “Omaggio al Friuli” di tanti ingegni artistici o l’esistenza stessa di un museo della medaglia a Buja sono forse il compimento reale di quel ritorno alla terra dei padri che Monassi aveva concretamente immaginato anche con l’istituzione della Fondazione a lui intitolata, in cui avrebbe voluto dare un futuro alle nuove generazioni di talenti dell’arte medaglistica alla quale aveva dedicato il meglio di sé.

Se poi, in quest’anno di commemorazioni, l’esposizione di “Il terremoto nella medaglia - Omaggio al Friuli” porterà il suo messaggio in diverse città d’Italia con patrocini di altissimo livello e sotto la prestigiosa guida del prof. Alteri e della Biblioteca Apostolica Vaticana, lasciando traccia del suo passaggio in un catalogo splendidamente illustrato, a maggior ragione conforta credere che l’Orcolat, raccontando medaglia per medaglia diversi momenti di un evento di distruzione e di rinascita, abbia dimostrato che tutto può risorgere dalle macerie se è sostenuto dalla volontà, dalla fiducia, dalla solidarietà. La storia lo  insegna, la medaglia gli dà forma di bellezza, ma soprattutto lo scrive per sempre nella memoria di chi vuole ancora credere nel futuro degli uomini.

 

NOTE

[1] Cfr: Introduzione a “La storia di Venezia attraverso le medaglie” di P. Voltolina in “Le stagioni della medaglia Italiana- Atti del sesto convegno internazionale di studio sulla storia della medaglia- 17-19 dicembre 1998” a cura di Giovanni Gorini, Editoriale Programma, 2001

[2] L’incontro si è svolto durante l’estate 2005 a conclusione del periodo di esposizione, nella cripta della Pieve di San Lorenzo, delle opere della “Donazione Giampaoli” al Comune di Buja.

[3]La medaglia in Friuli dal ’400 al ’900 e i maestri incisori Bujesi: attualità e tradizione è anche il catalogo della mostra a cura di Vittoria Masutti ed Ezio Terenzani, Fogolâr Furlan e Comune di Milano, 1986.

Vedi anche Maestri Incisori Bujesi a Milano di M. Comino in “Buje Pôre Nuje” n.6, 1987 pp. 50 – 53.

[4] Vedi Buja Patria d’arte di Gian Carlo Menis in “La medaglia in Friuli dal ’400 al ’900 e i maestri incisori Bujesi: attualità e tradizione” cit., pag. 30