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“E il cinema parlò in friulano”

Incontro con Lauro Pittini

 

intervista a cura della redazione

 

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Il comitato di redazione intervista Lauro Pittini, cineasta, “pioniere” del cinema in lingua friulana; di quella cinematografia che, nata quasi trent’anni fa, conta oggi numerosi rappresentanti. Regista, e sceneggiatore, lui preferisce definirsi filmaker, ovvero autore in senso completo delle opere che realizza. Gemonese, nato nel 1961, ma conosciuto dai bujesi per aver reso protagonista in alcune sue opere la nostra comunità e la nostra storia. Basta citare due titoli: “Pieri Menis, ricuarts di frut” e “Prime di Sere”. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua esperienza, un percorso indietro nel tempo per capire come sia iniziata la sua passione per il cinema.

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D: Sei stato uno dei primi autori di cinema friulano. Il tuo primo lavoro completamente in “marilenghe” è datato 1981, stesso anno in cui la RAI regionale girò “Maria Zef”. Cosa spinge un giovane, allora avevi vent’anni, a realizzare un film in friulano?

R: Maria Zef è stato il primo film in friulano, con una produzione pubblica alle spalle che ha reso possibile la realizzazione di un lavoro di grande qualità, tecnica ed artistica. Ricordo che allora fece scalpore l’argomento trattato, il pubblico non proprio entusiasta nel veder rappresentata in quel modo l’immagine della Carnia e del Friuli. Ma una via nuova era aperta: quella del cinema che si esprimeva in friulano.

Ed io, proprio in quel lontano autunno, ignaro di quanto la RAI stesse facendo, con la mia piccola cinepresa super8 avevo iniziato la lavorazione del mio primo mediometraggio in lingua friulana. Solo il titolo era rimasto in italiano: “Avrei voluto vivere”, semplicemente perché temevo di scriverlo non correttamente. Girato a Stavoli di Moggio con un budget praticamente inesistente e con la collaborazione di parenti e amici il film è nato d’impulso, dalla rabbia, dalla voglia di trasmettere agli altri attraverso le immagini della mia terra e nella mia lingua ciò che allora sentivo dentro. Era un momento particolarmente doloroso della mia vita. Il film lo dedicai a mia madre, malata di cancro, che morirà lo stesso anno.

Ritenni che solo un film realizzato in friulano avrebbe potuto avere l’intensità e la carica emotiva necessari per farsi vedere e ascoltare anche se con estrema povertà di mezzi e linguaggio. Devo dire che ebbi ragione; il film venne presentato in diversi comuni, scuole medie e circoli del Canal del Ferro dove la storia era stata ambientata. Poi, essendo la pellicola super8 copia unica e, a seguito delle numerose proiezioni, sulla via di un inesorabile deterioramento, decisi di smettere, rifiutando a malincuore gli inviti di quanti avrebbero voluto presentarla in altre occasioni e la riposi in un cassetto, ringraziandola per il “riscatto” che in qualche modo era riuscita a darmi.

Passarono dieci anni e nel frattempo a Udine il Centro Espressioni Cinematografiche aveva creato la Mostre dal Cine Furlan; una rassegna per stimolare proprio la produzione di lavori in lingua friulana. Recuperai dal cassetto la pellicola, ne feci un riversamento in formato video U-Matic restaurandolo un po’ e nel 1991 lo presentai alla seconda edizione della Mostra, vincendo il primo premio.

Da lì venne lo stimolo a continuare in quella direzione, raccontare il Friuli e l’animo della sua gente con essenzialità e rifiuto di qualsiasi forma retorica; strada che mi portò due anni dopo alla realizzazione di “Prime di Sere”, tratto dal romanzo di Carlo Sgorlon.

 

D: Il tuo “Prime di Sere”, al quale ha collaborato la “Compagnie dal Teatri Sperimentâl di Vile di Buje” rimane ancora un piccolo gioiello nel panorama delle produzioni del cinema friulano. Dopo 15 anni il film viene ancora visto e rivisto e c’è ancora chi, vedendolo oggi per la prima volta, si stupisce che il cinema friulano abbia prodotto opere come questa. Come mai hai deciso la trasposizione cinematografica di questo libro di Sgorlon?

R: Esistono dei momenti, delle emozioni, che provate quando sei bambino o ragazzino ti rimangono impresse in modo indelebile, non solo nella mente, probabilmente anche nell’anima;  situazioni che ti segnano e ti accompagnano per tutta la vita. E’ come se in qualche modo queste entrassero a far parte del patrimonio genetico e non ti abbandonassero più. Per trovare la motivazione al Prime di Sere dobbiamo proprio andare indietro nel tempo, a inizio anni ’70. Il libro Prime di Sere, edito dalla Società Filologica Friulana altro non è che la versione friulana de “Il vento nel vigneto”, adottato come testo di letteratura presso la scuola media che allora frequentavo. A tredici anni si leggeva Verne, Stevenson, Dumas, Salgari, e tutto quanto facesse volare la fantasia. Ricordo però allora il mio stupore davanti all’incredibile fascino che il racconto di Sgorlon emanava parlando invece, semplicemente, di luoghi che conoscevo di persona e che davano alla storia un grande sapore di vero, di autentico. Non avventure di eroi o guerrieri, solo un dramma, la toccante vicenda di un ex galeotto costretto a riguadagnarsi il suo posto in società.

Quando nel 1992 decisi di rimettemi dietro alla macchina da presa fu proprio pensando a quelle emozioni e soprattutto volli fare una scommessa con me stesso. Capire se ero in grado di fare una trasposizione filmica rimanendo il più fedele possibile al racconto, cercando di trasmettere al pubblico le stesse identiche emozioni provate leggendo il libro. Un’operazione nel completo rispetto per l’opera originale; non quindi un libero adattamento, bensì una ricostruzione fedele di storia, ambiente, ritmi, atmosfere e personaggi; da cui anche la decisione di mantenere il titolo del libro nel film. Chiaramente un certo trattamento in fase di sceneggiatura c’è stato; dettato però esclusivamente da esigenze di budget piuttosto che voluto.

La lavorazione è durata più di un anno; si preparava il set il sabato e si girava quasi ogni domenica. Bisognava comunque attendere il trascorrere delle quattro stagioni durante le quali la storia è ambientata. Abbiamo girato prima la parte finale del film e successivamente con l’arrivo dell’inverno le sequenze relative alla prima parte. Difficoltà ed imprevisti ne abbiamo avuti – ci siamo trovati a girare dei notturni estivi in camicetta con maniche corte il 13 dicembre a 6 gradi sotto zero, con la protagonista costretta ad indossare il cappotto  tra un ciak e l’altro; la vecchia casa dov’era ambientata l’abitazione dei protagonisti è stata venduta a metà lavorazione – ma tutto è giunto pian piano, quasi inesorabilmente a compimento.

 

D: Il film ha poi vinto alla terza Mostra del Cinema Friulano. I bujesi sono però particolarmente legati al tuo “Pieri Menis Ricuarts di Frut”…[Buje Pore Nuje, n° 2000 – Ndr].

R: E’ un film che piace ai grandi quanto ai bambini, e il merito va anche a chi ha ideato e sostenuto quel progetto. Sono venuto a conoscenza di diversi casi in cui bambini non friulani (veneti e lombardi) dopo aver visto il film hanno chiesto di rivederlo più volte, imparando a memoria e ripetendo poi i dialoghi in friulano. Probabilmente rimangono impressionati dall’incredibile vicenda che vede protagonisti loro coetanei.

 

D: Oltre alle sceneggiature per i lavori da te realizzati ne hai anche scritte 3 per lungometraggio, che hanno ottenuto premi e riconoscimenti in altrettanti concorsi. Come si scrive una sceneggiatura?

R: Se il soggetto è semplicemente la narrazione degli eventi che si susseguono nel film, la sceneggiatura ne è il progetto esecutivo, ove tutto viene previsto e definito. Il soggetto viene sviluppato e descritto minuziosamente. Ogni singola scena numerata e classificata in base alla sua collocazione in luogo e tempo (es: 1 – Casa di Celso, pomeriggio, interno giorno).

Esistono vari tipi di sceneggiatura che prevedono stesure più o meno dettagliate. In particolare quella detta “all’italiana” comprende perfino le descrizioni di campi e piani di ripresa con movimenti di macchina etc., oltre alla normale descrizione di azioni e dialoghi dei personaggi. Oggi si preferisce la stesura “all’americana”, meno vincolante e con più facilità di adattamento in fase di ripresa. Il problema della sceneggiatura però non è il come si scrive, bensì il cosa si scrive. Essendo sempre una scrittura creativa, se non c’è sostanza e carica emotiva il palco crolla. Da una buona sceneggiatura esce quasi sempre un buon film, ma da una pessima sceneggiatura ricavare un buon film diventa difficile, a volte “acrobatico”. La scrittura filmica adoperata in sceneggiatura segue comunque le regole generali di quella letteraria. Fondamentale è stare attenti a non cadere nello scontato, nel banale, nel prevedibile, nei cali; e collocare al momento giusto i colpi di scena e le svolte del racconto. Mantenere la curiosità e l’interesse vivo fino alla fine è una cosa indispensabile e non semplice; e questo avviene se sappiamo dare costantemente allo spettatore, anche se in minime dosi, elementi di novità, quesiti, indizi e quant’altro in un crescendo emotivo che non deve avere soluzione di continuità.

In un racconto, ci possiamo dilungare e perdere in descrizioni su psicologia e pensieri dei personaggi, con riferimenti o rimandi alla loro vita passata o futura. Nella scrittura filmica questi concetti devono essere tradotti in sole immagini, suoni, dialoghi o musica. Tutto viene raccontato al presente. Si descrive ciò che lo spettatore sta vedendo sullo schermo. Nulla di ciò che non si vede o si sente deve interessare la sceneggiatura. Mentre si scrive bisogna pensare ad un film che ti scorre davanti agli occhi. Come per la regia e la fotografia va tutto pensato attraverso l’occhio della macchina da presa.

 

D: E tu come hai imparato a sceneggiare e “pensare attraverso l’occhio della macchina da presa”?

R: La mia preparazione è sostanzialmente da autodidatta. Non ho frequentato scuole di cinema, però ho iniziato presto ad interessarmi e a “giocare” con la macchina da presa. La passione poi ti aiuta a fare il resto. Ricordo il primo tentativo di sceneggiatura… era il 1974, avevo 13 anni.

 

D: 13 anni? Ma allora la tua passione per il cinema parte veramente da lontano…

R: A quell’età tutto è un bel gioco. Avevo raccolto su alcune enciclopedie tutte le informazioni possibili relative alle tecniche cinematografiche e alle sceneggiature, e con alcuni compagni di classe lanciai l’idea o meglio il progetto per fare un cortometraggio. Allora non avevamo alcuna cinepresa (e le telecamere amatoriali ancora non esistevano), però mi sentivo forte dalla promessa di un mio amico, che l’avrebbe recuperata da suo padre una volta rientrato dall’Africa, dove lavorava. Così partii entusiasta con la scrittura del film, a mano, con penna biro su quaderno a quadretti, a volte anche di nascosto durante le lezioni.

Arrivai fino alla definizione di quelle che oggi si chiamano locations (luoghi di ripresa) e scelta dei protagonisti ma tutto poi si fermò: la protagonista femminile che avevo scelto, sempre mia amica e compagna di classe, non aveva avuto il consenso da sua madre, liquidando con un “no son robis di fâ a ches etâts”. Ma la cosa peggiore fu la non disponibilità della cinepresa super8 del padre del mio amico, della serie “No si zue cun cheste robe”. Così a orecchie basse e con gran dispiacere dovetti metterci una pietra sopra.

Non per molto però. Nell’estate del 1975 riuscii a procurarmi una cinepresa super8 e girammo il primo cortometraggio a soggetto di 7 minuti; stavolta però, forse per scaramanzia, senza sceneggiatura, tutto nella mente e improvvisando all’occorrenza.

Ricordo ancora la serata di presentazione del filmino, nell’ampio garage del vicino di casa, la gioia e soddisfazione di noi ragazzini che per quell’occasione eravamo riusciti a radunare quasi tutta la piccola borgata; perfino gente che, per loro beghe personali, non si parlava da anni. Per noi fu una conquista.

Quello fu l’inizio, poi ogni anno la cosa si ripetè, fino al 1981. Andammo avanti ogni anno ideando e scrivendo brevi sceneggiature, facendo colletta tra amici per comprare i rullini di pellicola e ogni estate si davano i ciak, per poi ritrovarsi tutti assieme ogni autunno nel garage del vicino; 50-60 persone, stipate come sardine per assistere alla “Prima”; era il nostro Nuovo Cinema Paradiso. A Gemona qualcuno ancora ne parla.

 

D: Quelli però erano anche gli anni del terremoto e della ricostruzione. Nella tua filmografia leggo un titolo del ’76……

R: E’ un documentario; o meglio una semplice raccolta di immagini senza montaggio, solo qualche taglio, su Gemona nei giorni seguenti al sisma del mese di maggio. Abitavo in periferia e passata la grande paura dei primi giorni mi ero fatto procurare alcuni rulli di pellicola. Sono partito a piedi da solo, verso il centro, scoprendo e filmando man mano con gli occhi di un quindicenne quell’immane tragedia; evitando però, per paura o rispetto, ogni immagine che riguardasse il recupero di vittime dalle macerie. Alcuni anni più tardi, dopo una proiezione del filmato mi dissero che pur documentando una tragedia, non trasmetteva assolutamente drammaticità; piuttosto malinconia e nostalgia. In effetti era ciò che sentivo. La tragedia allora la stavo vivendo, ma pensando al dopo era ancor più forte quel senso di tristezza e malinconia per le cose perdute per sempre; per quelle persone e affetti che non sarebbero tornati mai più.

 

D: Ti ricordi da cosa sia nata questa tua passione? Cosa ti ha spinto ad interessarti di cinema praticamente fin da bambino?

R: Si, è stato merito di mio padre, ma in un modo molto singolare. Il fatto risale al ’71, quinta elementare. Lui era capocantiere in una ditta edile udinese che in quell’anno aveva ricevuto l’incarico per la ricostruzione di alcune trincee sul Carso. Era un set, che la RAI avrebbe utilizzato per ambientare alcune sequenze di fiction per un documentario sulla Grande Guerra.

Erano previsti quattro giorni di riprese e mio padre, che doveva dare assistenza edile sul set assieme ad altri due operai, probabilmente colpito da quell’insolito e interessante spettacolo, la sera del secondo giorno, al rientro, ne parlò con mia madre. Breve consiglio familiare: lui riteneva che assistere a una giornata di lavorazione sul set sarebbe stata per me un’esperienza molto interessante. Il problema era, se era il caso o meno che perdessi un giorno di scuola. Grazie a Dio decisero di si.

Così, avuto l’ok dalla ditta e dalle maestranze della RAI, l’ultimo giorno mi portò con se.

Fu un’esperienza memorabile. Rimasi colpito dall’eccezionale ricostruzione storica del set; dai costumi, le finte armi, il trucco, dalle attrezzature di ripresa e illuminazione che mi parevano enormi. E di come tutta l’ambientazione sembrasse straordinariamente reale. Poi le azioni, i ciak, le battute ripetute più volte tra le arrabbiature dell’anziano regista che agitava in aria il bastone e non toglieva mai gli occhiali neri dal viso. Mi ricordava John Ford, che avevo già visto in tv. Per un giorno intero ebbi modo di seguire da vicino il lavoro della troupe; ricordo perfino di aver aiutato un tecnico a mettere manciate di segatura nelle piccole buche utilizzate come sede per le cariche che al momento opportuno venivano fatte esplodere creando l’effetto bombardamento. La giornata passò tra la gioia e lo stupore continui; e tutto sarebbe forse finito lì se poi, due mesi dopo, non avessi visto in televisione il lavoro finito. Le immagini, in bianco e nero, erano state “invecchiate”  e parevano quelle storiche, realizzate dagli inviati di guerra al fronte. Ho subito fatto un confronto fra ciò che avevo visto girare sul set e le immagini viste sullo schermo, ed è probabilmente da lì che è iniziato il mio interesse, poi diventata passione, per il cinema. Avevo capito che quel mezzo espressivo nascondeva qualcosa di grande, che poteva essere affascinante raccontare e far sembrare “autentica” qualsiasi vicenda, racconto, emozione, ambientata in qualsiasi luogo e tempo. Carpire l’attenzione di chi guarda attraverso una sapiente e quasi magica miscela di colori, suoni, musica e movimento. Il binomio immagine in movimento-suono divenne allora qualcosa che dovevo conoscere, approfondire, provare. Il mio piccolo sogno che poi, pian piano, almeno in parte concretizzai.

 D: Oggi fare cinema è diventato in un certo senso facile, quasi alla portata di tutti, grazie alla tecnologia digitale. Quando guardi indietro e ti rivedi con la super8 in mano, cosa pensi?

R: Che forse potevo nascere 30 anni dopo. Per studiare cinema non c’era altra strada se non quella per Roma, oggi invece bastano pochi chilometri. I giovani hanno a disposizione mezzi e possibilità che allora per me erano “lunari”. La tecnologia e il computer permettono di realizzare con poca spesa prodotti amatoriali che poco hanno da invidiare a quelli professionali, se non per il budget. Mi è capitato di pensare a come sarebbe stato il mio “Avrei voluto vivere” se l’avessi realizzato con i mezzi che oggi i giovani hanno a disposizione; ma un’opera vale per quello che è, nel momento in cui è stata realizzata e per ciò che allora è riuscita a trasmettere. Tecnologia digitale, multimedialità, sono cose meravigliose al servizio della creatività, ma come le medaglie hanno un rovescio, un lato nascosto: in quest’epoca di esasperato consumismo e culto dell’esteriorità rischiano di accecare e far perdere di vista l’essenza, il cuore che batte nel nostro raccontare, e che fa battere quello di chi ci ascolta.

 

 

LAURO PITTINI – Filmografia essenziale

 

1976C’era una volta Gemona, Gemona nei giorni seguenti al sisma del 6 maggio ’76.

1981 ­– I varés volût vivi, 1° premio alla 2ª edizione della Mostra del Cinema Friulano, (CEC - Udine, 1991).

1988Pinsîrs par dos estâts, 1° premio sezione pellicola alla 1ª edizione della Mostra del Cinema Friulano (CEC - Udine, 1988).

1992Prime di Sere, dal romanzo omonimo di Carlo Sgorlon. 1° premio alla 3ª edizione della Mostra del Cinema friulano (CEC - Udine, 1993).

1996 – Co-regia con Fabiano Rosso e montaggio presso Cinecittà del film in 16 mm L’ereditât.

1999Pieri Menis, ricuarts di frut, prodotto dal Comune di Buja. Menzione speciale della giuria alla 6ª mostra del Cinema Friulano e 1° Premio sezione fiction all’11° Festival Internazionale di Cinema Etnico di Cadca (Bratislava-Repubblica Slovacca).

2001Un Padre, (Prod. RAI, sede Regionale del FVG e RAI SAT di Torino) regia dello sceneggiato ispirato alla figura di S. Luigi Scrosoppi, su sceneggiatura di Paolo Patui con la collaborazione di Elio Bartolini.

2001 I fuochi che non si spengono. (Prod. RAI regionale) regia dello speciale televisivo curato da Paolo Patui, dedicato all’opera di Luigi Candoni.

2006Sul troi par Lucau, prodotto dal Comune di Forni Avoltri, premiato al Concorso Renato Appi 4a edizione. Selezionato in concorso al 14º Festival Internazionale di Cinema Etnico di Cadca (Bratislava-Repubblica Slovacca). Nel giugno 2007 il documentario è stato trasmesso dalla RAI regionale.

 

Sceneggiature

1996Ricuart d’otubar. 1° premio al Concorso per sceneggiature cinematografiche in lingua friulana (Udine, CEC). Ambientata nelle trincee del Friuli durante la prima guerra mondiale.

1999Gnot a Patoc. 1° premio al Concorso per sceneggiature cinematografiche in lingua friulana (Udine, CEC). Ambientata in Val Raccolana.

2004 Tiere di ducj, tiere di nissun. Segnalazione speciale della giuria al Concorso per sceneggiature cinematografiche in lingua friulana (Udine, CEC). Ambientata durante l’occupazione cosacca in Friuli.

 

Firma inoltre la fotografia e il montaggio di numerosi documentari a carattere culturale e industriale.

 

Per approfondimenti sull’autore:

IL FRIULI E IL CINEMA, di L. Jacob e C. Gaberscek – 1996, Ed. La Cineteca del Friuli.

FRIULANO LINGUA VIVA, di W. Cisilino – 2006, Provincia di Udine.

SEGNAI DI LûS: 2002, 2005, 2006 – Ed. CEC, Udine.

CATALOGHI della MOSTRA DEL CINEMA FRIULANO: edizioni 1991, 1993, 1999, 2007 – Ed. CEC. Udine.

BUJE PORE NUJE: 1994, 2000.                                                                                                       

Per contatti: lauropit@libero.it