Marcello D'Olivo, di Paolo Nicoloso | |
Raccontava Leonardo Sinisgalli di una fredda notte di maggio, il corpo imbottito dai giornali, il viaggio su un treno semivuoto da Milano a Latisana. Una grande curiosità lo attirava a visitare la nuova città che l'amico Marcello D'Olivo aveva tracciato nella pineta di Lignano. Era il 1954 e l'amicizia fra i due risaliva almeno a due anni prima, quando Sinisgalli era stato sul cantiere del Villaggio del fanciullo di Villa Opicina, mentre era in costruzione la mensa. In quell'occasione aveva potuto apprezzare la bravura di D'Olivo e aveva espresso un giudizio entusiasta: si trattava, a suo avviso, della "più geniale architettura del dopoguerra". Alla sera D'Olivo aveva accompagnato Sinisgalli a Buja, dove l'architetto aveva numerosi amici e dove aveva sede l'impresa Ursella, a cui era affidata la realizzazione di entrambi i progetti. Nel cortile dell'impresa si erano soffermati davanti a una struttura in cemento precompresso, voluta da D'Olivo per sperimentare quei grandi "alberi matematici" - così li definiva Sinisgalli - che avrebbero costituito la struttura a fungo della tipografia di Villa Opicina. Era singolare e fecondo l'incontro tra D'Olivo e Sinisgalli. Il primo era un giovane architetto, nato a Udine nel 1921, laureatosi a Venezia nel 1946, ancora sconosciuto alla maggioranza della critica. Proprio con la costruzione del Villaggio del fanciullo D'Olivo s'imponeva all'attenzione della cultura architettonica. Il secondo, più anziano di una generazione, era una figura complessa di intellettuale, di affermato poeta e critico. Sinisgalli era lucano, di Montemurro. Proveniva da quel profondo e dimenticato sud che Carlo Levi aveva fatto "scoprire" in Cristo si è fermato e Eboli. Negli anni Trenta si era trasferito a Milano, dove aveva stretto amicizia con Edoardo Persico. Qui aveva lavorato come pubblicitario nella Olivetti, nella Pirelli e nell'Alfa Romeo. Era sua l'idea della rosa nel calamaio che accompagnava la pubblicità delle macchine da scrivere. Perché Sinisgalli era affascinato dall'architettura di D'Olivo? Erano anni in cui il ricordo della tragedia della guerra era ancora vivo. La ricostruzione, il "ricominciare da capo", affidavano un ruolo positivo all'architettura: la disciplina pareva possedere gli strumenti per delineare nuovi orizzonti figurativi e sociali. D'Olivo era il perfetto interprete di questo clima. A Villa Opicina e nella pineta di Lignano si stava realizzando qualcosa di nuovo, su cui si soffermava l'attenzione della critica. Non si apprezzava tanto il risultato formale, quanto la vitalità dell'inventiva, la capacità di prendere le cose alla radice. Nelle architetture sul Carso D'Olivo offriva soluzioni formali e costruttive inedite a problemi funzionali ordinari. Le potenzialità della tecnica, intese soprattutto nelle caratteristiche plastiche e statiche del cemento armato, erano sfruttate completamente. A Lignano Pineta, nel tracciato a spirale, nella forma delle costruzioni, si coglieva una chiara frattura rispetto alla città tradizionale. "Non sembra una città terrena, sembra piuttosto una città sulla luna" gli aveva confidato Sinisgalli. La figura dell'architetto interpretata da D'Olivo univa al ruolo di tecnico, che opera interamente all'interno di una cultura tecnologica, una spiccata capacità innovativa e creativa, propria di chi ha interiorizzato quel sapere tecnologico. Erano queste qualità "di dar vita ai numeri e ai segni" che suscitavano l'interesse di Sinisgalli, impegnato a sua volta nel progetto di un'estetica della "civiltà delle macchine". Qualcos'altro univa D'Olivo e Sinisgalli: a entrambi apparteneva un comune "furor matematicus". D'Olivo aveva una vera e propria passione per la matematica a cui dedicava i ritagli di tempo. Sinisgalli si era iscritto alla facoltà di matematica a Roma, era stato ottimo allievo di Guido Castelnuovo, di Tullio Levi-Civita, di Enrico Fermi e si era infine laureato in ingegneria elettronica. La matematica per entrambi sembrava poter ricomporre quel dissidio ormai secolare tra la scienza e l'arte, tra il numero e la poesia. Fino a che punto Sinisgalli, il "poeta ingegnere" di Montemurro, che alla geometria euclidea preferiva tutto ciò che non era rettilineo, l'ovale, la chiocciola, la spirale, aveva influenzato D'Olivo nel piano di Lignano Pineta? Sinisgalli ricordava l'incontro a Buja con il "vecchio Ursella", con i suoi figli, con gli "inarrivabili operai". L'entusiasmo di D'Olivo coinvolgeva pure loro e lo spirito pioneristico, proprio dell'architetto, era condiviso anche da chi operava al suo fianco. A Villa Opicina, la costruzione dei casseri per realizzare la complessa struttura angolare a travi incrociati aveva richiesto tutta l'abilità dei carpentieri e si era rivelata ben più onerosa del previsto: senza la perizia degli operai, senza la disponibilità e la pazienza dell'impresa ad accettare le diseconomie che la sperimentazione richiedeva, certamente, ammetteva D'Olivo, non si sarebbero raggiunti quei risultati. A Buja, negli anni 1950-51, D'Olivo aveva realizzato con l'impresa Ursella le "case Fanfani", la prima opera ad essere pubblicata su una rivista. Sette abitazioni, ognuna con due alloggi distribuiti su due piani, erano concepite come elementi di un'unica schiera. Ma significativamente D'Olivo le distanziava per ottenere un segno più deciso sul territorio e imponeva assi di rotazione, individuati rispetto alle curve di livello del terreno. Le "case Fanfani" sembrano un frammento di qualcosa che avrebbe potuto continuare e snodarsi secondo una logica che ci appare interrotta. Forse non è improprio leggere in questa architettura tracce di poetiche più complesse. Certo, siamo lontani dagli anni in cui D'Olivo teorizzerà nel suo Discorso per una nuova architettura la creazione di nuove città, di forma anulare, disposte attorno a un nucleo centrale di verde del diametro di 6 o 7 chilometri. La scelta dell'alta densità abitativa era compensata dai vantaggi derivati dall'essere a contatto con vaste zone di verde naturale. Trovava forma, a scala territoriale, la ricerca di un rapporto ottimale tra architettura e natura. D'Olivo inseguiva il mito antico di un equilibrio tra architettura e natura. Lo riteneva realizzabile con l'ausilio della scienza, di cui la matematica è lo strumento essenziale. Negli anni Sessanta si farà sempre più pronunciato il convincimento che, attraverso l'applicazione di alcuni principi della cibernetica - quelli dell'autoregolamentazione, - sarà possibile armonizzare l'impatto delle costruzioni architettoniche sull'ambiente. Dal progetto per Lignano Pineta, a Manacore in Puglia, a Libreville nel Gabon si può cogliere la riproposizione di uno stesso tema: la ricerca di una struttura architettonica in grado di inserirsi in perfetta armonia nel paesaggio naturale. Ma le proposte di D'Olivo escludono facili mimesh naturalistiche. L'immagine, più volte ripetuta e inseguita, è che "struttura architettonica e albero della foresta siano retti dalla stessa armonia". A quell'armonia pensavano D'Olivo e Sinisgalli, una sera di maggio, mentre osservavano la nervatura dell'"albero matematico" collocato nel cortile dell'impresa Ursella. |