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Una piccola Impresa

di Giovanni Ragagnin

 

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Ora lo si sa. D’Olivo possiede dell’architettura una versione nuova; si sono viste le sue case crescere a giocare d’innesto con lo spazio; così a Lignano Pineta, dove, nell’equilibrio di un labirinto auricolare, ha creato una città  per uomini civili. O per bimbi civili come invece fece sull’altipiano che corre ad est di Trieste dove sorge appunto il Villaggio del Fanciullo di don Scirza. Nessun architetto, anche grande, è mai riuscito a 34 anni a imporre il segno di se stesso e per questo, trovandoci a Lignano, desiderammo conoscere chi in lui aveva avuto fiducia. Diciamo gli imprenditori che si erano resi conto di ciò che ci sarebbe voluto per alzare contro il cielo decine di tonnellate di cemento e sempre in una maniera nuova: in superfici oblique, rientranti, volte a pagoda.

Gli imprenditori, pensavamo, ma invece ci accorgemmo che di costruttori D’Olivo non ne aveva avuti che uno: Gildo Ursella, capomastri friulano, desso Seto. Incontrato da D’Olivo per caso una sera, nel fondo dell’anfiteatro morenico, sotto l’arco delle prealpi carniche che si ergono d’attorno come una diga. Nel basso di questa conca del medio Friuli, dove appena è sera si alza una nebbia leggera perché il fondo è di palude e argilla, doveva nascere una fornace. D’Olivo aveva steso il disegno sull’erba dura del palude e sopra, carponi, spiegava.

Qui la fornace, lì il camino in disparte, che esce dal prato come un monolite. «Il campanile e la chiesa» si diceva Seto «mai vista una cosa simile per una fornace». Qui gli appoggi di volta, della grande volta, ma leggera a mo’ di coperchio. Seto socchiudeva gli occhi. Una fornace? Li socchiudeva come al caffè quando dal suo angolo, che è sempre appartato, intravvede qualcosa di nuovo tra le pagine dei rotocalchi che sfoglia. Allora infila gli occhiali e studia la cosa, sia essa una costruzione, una macchina o un quadro. Finisce sovente per stracciare furtivo la pagina e infilarsela ben piegata nel tascone della giacca. E’ un uomo piccolo, con le mani in tasca e una sciarpa attorno al collo per buona parte dell’anno. Non parla. In paese nessuno aveva mai saputo come la pensasse sulle cose che lì succedevano, nè molto di lui. Sapevano solo che si era comprata, zolla su zolla, un po’ di terra in quarant’anni di lavoro, aggiustando le case povere degli emigranti, facendone qualcuna di nuova quando gli riusciva. Intuivano tuttavia il segreto che custodiva ed era per questo che ogni volta avevano cercato d’aiutarlo.

Perché intuivano la malinconia di quest’uomo a cui mai era riuscito di vedere realizzato uno solo dei suoi progetti. Quando nelle sere d’inverno erano ritornati chi dalle miniere del Lussemburgo, chi dalle fornaci della Foresta Nera e all’osteria discutevano sulle case nuove e grandi che avevano viste, si dava sovente il caso che Seto avanzasse dal suo angolo un poco impacciato per spiegare sul tavolo un disegno. Dove c’era appunto una casa grande che sarebbe stato utile costruire in paese. La casa di ricovero per i vecchi, il mercato rionale; tutti bei progetti, tirati con cura in inchiostro di china, che venivano discussi sotto l’indice dei fornaciai adesso, modificati magari nel fervore che cresceva.

Seto ogni volta si era commosso per il loro appoggio e aveva sperato. Ma uno a uno, invece, i bei progetti, colorati all’acquarello, avevano finito per ingiallire perché gli emigranti erano ritornati alle miniere e ai forni di mattone sotto i cinquanta gradi di calore e al Comune, veniva risposto, mancavano i mezzi. A lui non rimaneva che continuare a rammendare le loro case.

Perciò passata che fu la guerra si sentì stanco; per sostenere la sua piccola impresa si sarebbero resi necessari a un tratto ben altri fondi. Allora pensò di scioglierla; mandò i suoi quattro figli chi con altri costruttori, uno al Venezuela e all’ultimo, che studiando solo s’era diplomato geometra, aprì uno studio professionale in paese. Egli per conto suo era stanco, forse s’era sentito vecchio.

Quella sera nella palude aveva incontrato un giovane alto con negli occhi un punto; che era una retta se volgeva lo sguardo d’attorno: una retta sulle cose.

Carponi sull’erba, spiegava dell’aerazione, della comunicabilità, di come l’edificio stesso fosse solo una parte integrante della vita che doveva svolgersi dentro. Cose mai sentite per una fornace. Socchiudeva gli occhi il vecchio Seto, poi cominciò ad annuire e quando la nebbia crebbe dalla palude, egli si avviò solo, senza quasi salutare.

Con lo stesso silenzio, qualche giorno dopo si presentò all’uscio; accese il sigaro e cominciò ad aggirarsi contro le pareti come un gatto allorché rasenta il muro per sentirsi accarezzare. Si fermò dinanzi al progetto per un tempio a Cuba, un parallelopipedo di cemento che era già tornato roccia; osservò quindi la necropoli per i morti di Normandia. Senza alcun moto d’animo continuò a guardare tutte le sezioni di case, di ponti dove il cemento era dominato, reso malleabile da una conoscenza nuova.

Quando D’Olivo rientrò al suo piccolo studio, che era allora sui tetti di Udine, gli dissero che vi era stato un omino, che aveva frugato un po’ dappertutto, considerata ogni cosa, ma che non aveva lasciato detto niente. E fu così che senza ancora saperlo l’impresa edile adatta per lui era già nata. Perché il vecchio aveva riflettuto solo dapprima, forse aveva cercato di dirsi che sarebbe stata un’avventura troppo bella non permettere che quei progetti ingiallisero, come era successo per i suoi. Che perciò sarebbe stato saggio non insistere. Poi invece riunì la famiglia e spiegò il da farsi. Mancavano i mezzi? Si sarebbe impegnata casa e campi. Anche i beni del figlio Gino che al Venezuela in pochi anni, assieme ad un’alta reputazione di costruttore, si era fatta una mezza fortuna. Anche il suo e in quanto a farlo tornare avrebbe pensato lui a convincerlo. (La lettera, che è un saggio di venerabilità paterna, concludeva in questo modo: «...siccome io sono tuo padre e vecchio, non posso sbagliare»).

A Silvino, il geometra, venne data l’amministrazione, a Mario l’organizzazione di cantiere e a Giuseppe, profondo conoscitore del cemento, il compito di erigere. Gli scheletri audaci di cemento cominciarono a sorgere dapprima sui colli del medio Friuli; sulle creste moreniche al tramonto, queste colossali astrazioni scultoriche, erano nella loro luce e richiamavano l’attenzione da lontano. Lasciava perplessi come portassero il segno di una rivolta, come gli omini tutt’attorno si prodigassero giorno e notte a dare loro una vita incomprensibile. Perché erano creature sensibili che non si potevano abbandonare alla mercè degli elementi finché non fossero davvero nate. E nelle notti si vedeva lo splendore dei riflettori tenerle sveglie da ogni punto, si udiva il gracidare delle betoniere e gli echi delle alte grida contro le colline. Perché la creatura doveva nascere prima del calare di luna, come i fiori più delicati, prima che dalla bassa soffiasse lo scirocco e portasse lo scompiglio nella sua anima d’acciaio e la pioggia incrinasse le foglie di cemento appena gettate.

I quattro figli di Seto si accanirono per molte notti, in testa ai loro magnifici operai; e questo, ci spiegarono, fu loro di aiuto per sottrarsi alla paura. Perché in principio ebbero paura: paura della spina esile di precompresso di cui nessuno era in grado di dire come facesse a reggere sotto un carico di decine di tonnellate se non la fiducia nel giovane architetto. Paura d’aver peccato d’ambizione nell’essersi messi in questa partita che poteva rivelarsi più grande di loro giacché il giro economico, che è sempre impietoso, non poteva ascoltare la loro ragione più fonda.

Paure, tuttavia, che nell’autunno del ’51 finirono per dissolversi quando le casseformi del refettorio al Villaggio del Fanciullo vennero tolte ed apparve una delle prove di cemento più fiere che abbia dato fino ad oggi l’architettura nuova. A quel tempo i quattro uomini, che al padre rassomigliavano per un comune tratto cogitabondo, senza dirselo forse, costituirono un’unione completa, consci come erano di quale senso fosse pieno il loro operare; prima ancora che gli inviati delle riviste specializzate, e non solo italiane, venissero a fotografare il loro ultimo nato. Quell’inverno, molti dei muratori rientrati dai vari paesi d’Europa, dove come sempre i friulani emigrano, vennero da loro ingaggiati con i medesimi contratti vantaggiosi dei paesi del Nord. Si recarono da Liebeheer, a Berlino, dove acquistarono le gru alte 30 metri, su binario espansivo, disegnarono solo i vibratori per i prefabbricati adatti a vestire gli scheletri ideati da D’Olivo. Poiché già si parlava della città balneare che doveva nascere a Lignano ed essi, muratori, avevano capito ciò che lo stesso architetto forse non poteva individuare nella sintesi della creazione. L’importanza del prefabbricato nelle sue costruzioni. Venne studiata una gamma varia per dimensione e spessore di pannelli in ghiaietto lavato adatti alla chiusura di parete, impastati con vermiculite ed altri preparati protettivi. Un’altra gamma di travetti di volta, di elementi di copertura, di tubatura.

Appena i vibratori, appositamente studiati, furono ultimati, venne istituita una vera e propria scuola tra le maestranze più giovani affinché imparassero a costruire il prefabbricato, rispettando la dignità che è propria del materiale grezzo, che non ha allora più alcuna necessità dell’intonaco. Dopo mesi di preparazione si videro così nascere le costruzioni leggere di Lignano Pineta, montate come motori perfetti con duecento e più gamme di elementi prefabbricati.

Noi che questa famiglia vedemmo una sera al cantiere di Lignano, riunita a consumare la cena in silenzio, capimmo anche come l’avventura del vecchio Seto non avesse potuto raggiungere che quest’esito. Evidente ci parve da come si muovesse su di loro la sorella Maria, l’unica figlia, che li accudiva con un’attenzione di madre. Osservando il cesto di verdure che venne scaricato da un camion in arrivo da casa. La verdura fresca dell’orto che la madre, appena può, invia. «E’ per farci risparmiare» scherzò Silvino, ma è certo che lui, amministratore della società, ha sottoposto i fratelli (ed ognuno ha moglie e figli) ad uno stipendio quasi di un terzo inferiore a quello dei loro capi operai e degli stessi operai specializzati. Perciò ci giunse spontaneo di commentare che potevano sentirsi fieri della loro unione, della meta che con la loro unione avevano raggiunta. Egli rise a queste nostre parole come chi si sottrae all’ironia di cui vien fatto bersaglio. Allora in quella luce gialla, per il sole al tramonto, dicemmo all’improvviso: «Un nome ve lo siete fatto e appena lo vorreste potreste guadagnare di più, mettendovi naturalmente su di un’altra linea di produzione, più tranquilla». Egli ci osservò incerto e la figlia Maria arrestò il suo mestolo per meglio seguirci. «Diciamo che ormai nè D’Olivo ha più bisogno di voi, nè voi di D’Olivo». Silvino si passò una mano sulla fronte, scosse il capo quasi come avesse capito, ma Maria intervenne per prima: «Oh, no» spiegò dolcemente, «D’Olivo è come di famiglia ormai».

Vedemmo così che nessuno là dentro, o per il timore d’apparire retorico o perché la verità, già fin troppo connaturata, a loro stessi sfuggiva, nessuno avrebbe saputo dirci che essi stavano operando nel vivo e che per nessuna ragione al mondo chi è fatto come loro, riesce a sottrarvisi.

 

Nota:

Articolo pubblicato sulla rivista “Civiltà delle Macchine” sett.-ott. 1955.