Questa volta parlo io

di Celso Gallina

 

 

Premessa.

Quante volte abbiamo detto “Ah… se quell’oggetto potesse parlare… chissà quante ne avrà viste!”. Ecco, questa volta, ho voluto provare a far “raccontare” la sua storia ad un vecchio libro:

“Manuale del Parrocchiano di Buia”.

È un volumetto che, passando di mano in mano, è arrivato fino a me, ma ha avuto la fortuna di nascondere tra le sue pagine alcune note che hanno destato curiosità e che mi hanno fatto conoscere una storia affascinante e avventurosa che riguarda sì una persona di Buja, ma si allarga fino a comprendere un pezzo della “Grande Storia”.

 

 1) La nascita

Incomincio col presentarmi: mi chiamo “Manuale del Parrocchiano di Buja”, e ho visto la luce nel 1876, esattamente 134 anni fa (i miei anni li dimostro tutti), nella tipografia dell’Oratorio di San Francesco di Sales a Torino. I miei fratelli di stampa, sparsi in giro per Buja, penso siano ormai pochissimi.

A scrivermi è stato proprio il Pievano di Buja monsignor Pietro Venier, nato a Gradisca di Sedegliano il 10 maggio 1830. Nel 1858 don Venier giunse a Buja come Cooperatore del pievano Tommaso Bonetti, in seguito fu trasferito ad Udine per poi, nel 1864, essere richiamato a succedergli.

Resse la Pieve fino al 7 giugno 1902, giorno della sua morte. Io sono solo una delle piccole cose da lui realizzate. Per darvi un’ idea dell’uomo, vi racconto due episodi.

Il primo riguarda un ultimo giorno di carnevale di oltre un secolo fa, quando, nonostante i divieti e le raccomandazioni del mio autore, i bujesi festeggiarono ballando sui breârs (tavolacci) per tutta la notte.

Il giorno dopo, alla Messa del mercoledì delle Ceneri, mons. Venier, che da sempre era contrarissimo ai balli, salì sul pulpito e, dopo essersi soffiato il naso come solitamente faceva, incominciò dall’alto a fulminare con lo sguardo i fedeli presenti girando con la massima calma la testa da destra a sinistra e dando ad ognuno dei fedeli l’impressione di essere stato scorto.

Quindi cominciò una predica, rimasta memorabile, composta di sole sette parole:

«Mi vergogni di jessi el vuestri Plevàn» (mi vergogno di essere il vostro Pievano.)

e ritornò all’altare a proseguire la funzione religiosa. Questa predica rimane, fino a prova contraria, la più chiara e concisa che si ricordi dalla notte dei tempi.

Ecco, invece, quanto successe il giorno del suo insediamento.

«Presso l’attuale Tabeacco, sul rio Corgnul, privo di ponte, per i pedoni era gettato un legno fra le due sponde mentre i carriaggi passavano al guado: arrivato al ponticiattolo, il Venier, lo trovò occupato da due sacerdoti, i quali fronteggiandosi e apparentemente interessati ad una discussione impegnativa, fingevano di ignorare la sua presenza: il Pievano attende che gli diano il passo, il suo accompagnatore manda qualche colpo di tosse, ma inutilmente; ed allora, egli deciso entra nell’acqua e passa…». (1)

Io, naturalmente, ho potuto venire alla luce solo dopo aver ottenuto l’approvazione alla stampa l’11 settembre 1875 dall’Arcivescovo di Udine. Sono stato rilegato molto bene, con cuciture fatte a regola d’arte e copertina in cartone di buono spessore, non appartengo certo alla categoria dei libri incollati di oggi a cui, se li aprite troppo, si staccano le pagine.

Lo spirito con cui sono stato scritto era quello di divulgare a tutti ciò che era importante e utile sapere ad ogni buon cattolico, come sosteneva mons. Venier: bisognava che io fossi tenuto sempre fra le mani per promuovere il bene e insegnare ad assistere con attenzione e profitto alle sacre funzioni.

Qualcuno si chiederà: come mai al Monsignore venne in mente di scrivere un libro per il popolo che non sapeva nè leggere nè scrivere? Solo l’anno dopo, infatti, nel 1877 l’Italia rese la scuola elementare obbligatoria!

In realtà dovete sapere che in Friuli l’analfabetismo era molto meno diffuso che nel resto dell’Italia; la scuola obbligatoria l’aveva imposta Maria Teresa d’Austria cento anni prima, nel 1776 e l’insegnamento veniva impartito nelle lingue locali.

Ricordo ancora bene gli anni che seguirono l’Unità d’Italia: allora, il bujese Andrea Casasola era Arcivescovo di Udine dal 1854 e, se non si può dire che fosse un “filoaustriaco”, di certo non era pro-Savoia e all’arrivo degli italiani ebbe i suoi problemi.

Chissà, forse pensava fosse meglio cantare un Miserere piuttosto che un Tedeum!… .

Fatto sta che il Palazzo Arcivescovile fu assaltato ed il Vescovo, benchè sbeffeggiato, non abbandonò il suo posto e rimase per un anno intero rinchiuso in volontario esilio.

Il “Cittadino Italiano”, quotidiano cattolico che si stampava a Udine non mancò di ricordare con parole di fuoco, qualche anno dopo, alla classe dirigente del tempo la «...rara bravura di scorticarci vivi con mille maniere di tasse e accrescere in pari tempo sempre più il deficit … L’Italia divisa pagava meno di quel che paga l’Italia una ed indivisibile: oggi l’Italia paga il doppio ed ha dieci miliardi di debiti. Dove ricercare l’origine delle cause?…....» (2)

Nelle mie prime pagine riporto uno dei primi, se non il primo organico Cenno Storico che riguarda Buja, le pagine seguenti continuano con le Chiese di Buja, la serie cronologica dei Pievani e Vicari, la tabella temporaria delle feste e delle Pasque dall’anno 1876 al 2300; non solo, ma spiego anche come trovare la data della stessa in perpetuo, tutte notizie e fatti cui hanno poi attinto tanti bujesi.

Solo a pagina 71 inizio con le Orazioni per il mattino e per la sera.

Sono stato acquistato da Vincenzo Giordani (1820-1892) più conosciuto a Buja come el Mago Bide (il Mago Bide). Ricordo ancora, sebbene fossi ancora giovanissimo, quel viso con una barbetta a corona che lo faceva assomigliare a San Samuele - così almeno scrisse Maria Forte; quegli occhi furbi che mi guardavano con curiosità e rispetto e cercavano spesso, dopo le orazioni, nelle mie ultime pagine, tra le Raccomandazioni del buon comportamento dei cristiani, la sicurezza, visto che era un Mago, di stare sempre e comunque dentro il “seminato”.

Erano anni duri quelli: incominciava a nascere il fiume dell’emigrazione definitiva verso le Americhe, mentre quella stagionale, verso l’Austria e la Germania, era già un mare composto anche da donne e bambini.

Il mio padrone aveva iniziato per caso quel mestiere di guaritore-erborista che lo aveva fatto conoscere ben oltre i confini comunali, dava consigli soprattutto su come curare certe ferite usando prodotti naturali.

La sua intelligenza e la curiosità di approfondire le conoscenze riguardo le proprietà delle erbe erano state poi rafforzate dalla lettura di testi messi a sua disposizione dai Pievani Bonetti e Venier e da quello di Vendoglio.

Alcuni casi risolti brillantemente avevano sparso la voce che ci fosse un guaritore eccezionale a Buja, infatti non passava giorno senza che nuovi pazienti venissero a bussare alla porta della sua casa te Androne di Miòt , così infatti, era chiamato il vicolo chiuso dove sorgeva, a Ursinins Piccolo, la sua abitazione che da lui era stata esternamente affrescata con motivi religiosi.

Una piccola stanza fungeva da sala d’aspetto dove la moglie andava ad accogliere i clienti dicendo loro che avrebbero dovuto attendere in quanto il Mago era impegnatissimo. Il suo compito era farli parlare a lungo dei loro malanni e dei loro problemi, mentre “qualcuno nascosto dietro una pesante tenda ascoltava....

Dopo aver fatto un ulteriore anticamera, venivano fatti entrare in una stanza attigua, dove il Mago dava loro la certezza di conoscere a fondo i loro problemi e soprattutto come dovevano essere risolti.

In questi casi io venivo lasciato da parte, sullo scaffale. Il mio padrone preferiva prendere fra le mani libri voluminosi, che facessero colpo sui clienti, dai quali dopo qualche attimo in cui sembrava che si concentrasse nella lettura, incominciava a leggere con voce lenta e suadente, sillabando bene le parole: «Mâl malin, mâl mazuc, mâl madron.... mâl gnervin..... mâl dal butaz... mâl dal sucar... mâl de piere... mâl de scimìe... mâl de lupe... mâl dal zâl... mâl de urtìe... mâl dal scurubus... mâl di San Valantin ... fuc di Sant Antoni...» (3)

Il mio primo proprietario è anche autore di un diario che raccoglie informazioni di ogni tipo: ricette con le erbe, notizie mediche, preghiere, invocazioni e, cosa importantissima, ben oltre 100 sogni, scritti di sua mano con cura e precisione, che coprono un arco di circa 40 anni (1840-1882), tanto da diventare, un secolo dopo, anche oggetto di studi universitari.

Gli amministratori del tempo invece non avevano per nulla una buona opinione di Vincenzo Giordani, anzi!

Da pochi mesi Buja ed il Friuli erano diventati “Italiani”, quando al Prefetto giunse una missiva a firma del Sindaco di Buja (Barnaba Pietro) che riguardava il mio proprietario, c’era scritto “sa  leggere e poco scrivere”, e veniva accusato di esercitare abusivamente la professione medica circuendo ... gli idioti o sciocchi che ricorrono a lui ordinariamente con indicazioni poco più precise di una bottiglia di urina...”,

Veniva sospettato anche di essere complice della banda di falsari che in quei tempi a Buja era molto attiva, ma io so in realtà cos’era a dare gran fastidio ai “sorestans”! (autorità)

Il mio padrone non nascondeva affatto le sue simpatie filo-austriache, era sempre stato in prima fila alle funzioni religiose che festeggiavano l’onomastico dell’imperatore asburgico ma  “non credette suo decoro intervenire alle funzioni né del plebiscito, nè del 14 marzo….. (onomastico di Vittorio Emanuele II) e “sparlando senza alcun riguardo… nelle osterie ed esercizi contro il Governo Italiano e contro il Partito Liberale… si era associato ai reazionari più spigliati ed al partito Clericale”.

Senza un briciolo di prove il Sindaco, (colui che accusava gli altri di essere “reazionari”) insinuò anche che era sicuramente il mio padrone l’autore di un cartello denigratorio fatto trovare in un cortile, arrivando al punto di consigliare al Prefetto che ...sarebbe buona cosa di troncare una volta le gambe a sifatto provocatore iniquo e dannoso quand’anche si dovesse ricorrere a mezzi eccezionali… si teme il sinistro effetto che produce nel pubblico una tale condotta se tollerata ...”.

Da parte mia posso solo dire che sapeva leggere e scrivere meglio del suo detrattore e, se era così anti-italiano, sicuramente aveva le sue sacrosante ragioni.

Era sì o nò un “Mago....  e quindi aveva senz’altro previsto l’aumento delle tasse che i nuovi padroni avrebbero portato…  e che negli efficienti servizi pubblici austroungarici avrebbe di lì a poco messo salde ed eterne radici il famigerato U.C.A.S. (Ufficio Complicazioni Affari Semplici).

E in quanto ai suoi metodi di guaritore, bè… non è oggi prassi medica comune, partire dagli esami clinici e quindi dal controllo delle urine???? (4)

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2) Luigi Giordani

Vi voglio presentare ora il mio secondo proprietario, Luigi Giordani, che ad essere sincero, in circa vent’anni me ne ha fatte vedere di cotte e di crude, tanto da farmi passare alla storia.

Luigi era figlio del Mago, era nato il 22 Agosto 1857, di martedì alle ore 7 pomeridiane, come annota suo padre.

Quando Luigi aveva circa due anni, la madre Maria Crapiz morì e il Mago, vista la giovane età dei figli, decise di risposarsi subito con Lucia Picillini, una ventisettenne di Cavazzo.

Un giorno che mi avevano dimenticato sul davanzale con le finestre aperte, potei ascoltare le chiacchiere dei borghigiani di Ursinins riguardo la morte della prima moglie del Mago, Maria, seguita dal matrimonio con Lucia, avvenuto solo due mesi dopo.

«E cor vôs che la femine e sedi colade pes scjales cause i tancj spavents che i veve fats cjapâ.» (corre voce che la donna sia caduta dalle scale a causa dei tanti spaventi che gli aveva fatto prendere) diceva uno, «No, noo, e je colade parcè che no j plasevin i foncs!…» (No, noo è caduta perchè non le piacevano i funghi!...), commentava una seconda linguaccia.

Ma torniamo a Luigi che a 24 anni, il 22 giugno 1881, sposò Vincenza Aita (Piç 1859-1937) di Ursinins Piccolo.

Negli anni che vanno dal 1882 al 1898 la coppia ebbe ben 13 figli. Gli unici che sopravvissero furono: Lucia Antonia (Ninute di Vissense 1884-1971), Giuseppe (Zef di Vissense 1889-1979) e Francesco (Checo di Vissense 1893-1957), i restanti rimasero vittime della spaventosa mortalità infantile di quei tempi. (12)

Erano anni di miseria quelli, Venier scriveva:

«Sono circa cinquant’anni che gli uomini di Buja hanno cominciato a girare le Germanie onde procurarsi il vitto essendo che il territorio non dà da mangiare neppure per la metà di un anno. (…) Da due o tre anni hanno incominciato a migrare anche le giovinette. In quest’anno, 1873, da venti a ventidue sono andate in Baviera in una fabbrica di fulminanti. (…) Nella stagione estiva da 4 a 5 cento giovani sono fuori Parrocchia in maggior parte a tirar seta.» (13)

Il periodo di partire per il mondo a cercar fortuna, iniziato qualche decennio prima, proseguiva alla grande. Nel 1894 arrivò ad Osoppo la prima richiesta di lavoratori per la costruzione della Transiberiana. Sotto la direzione di un certo Perini di Artegna erano già stati costruiti i tredici pilastri del ponte Sirzan sul Volga, lungo 1435 metri, ora occorrevano operai specializzati, soprattutto scalpellini, per la costruzione della ferrovia sulla grande curva del lago Bajkal (1899-1904).

Fu così che il mio proprietario, dopo la morte nel 1898 della sua ultimogenita Angelica, spinto dalla miseria e dal desiderio di cercar fortuna, decise di mettere a frutto le sue qualità e di partire per quelle lontanissime e sconosciute terre, insieme a tanti altri friulani. Lasciò così la moglie e i tre figli e nell’anno, non ricordo bene se il 1898 o 1899, partì per quell’avventura portandomi con sé.

La realizzazione della ferrovia Transiberiana era iniziata nel marzo del 1891, fu suddivisa in spezzoni ed iniziò contemporaneamente dalle due opposte estremità: Mosca e Vladivostock.

Nei cantieri furono impiegati operai russi, coreani, cinesi ed i condannati ai lavori forzati: decine di migliaia di uomini.

Nella Siberia centrale i problemi derivavano dalla conformazione montuosa del territorio, da laghi, fiumi, foreste, torrenti; inoltre d’inverno il gelo, la neve il fango rendevano particolarmente faticosi i lavori. Per invogliare gli operai a spostarsi inqueste zone, i costruttori offrivano salari più alti che altrove.

La posa delle rotaie era terminata nel 1901, ma c’era un problema di continuità: i treni dovevano attraversare il lago Bajkal su un traghetto speciale.

Nel 1901 iniziarono i lavori per la costruzione della Transbajkalika: era questa un’ansa lunga 250 km in cui si dovettero scolpire le pareti rocciose e realizzare una imponente opera di muratura sulla riva sud del lago Bajkal, lago Siberiano che gli indigeni chiamano Mare viste le sue enormi dimensioni (come Lombardia e Friuli messi assieme).

Vennero scavati 33 tunnel e costruiti decine di viadotti. Era qui che erano diretti i friulani, poiché erano esperti nel lavorare la pietra. La fine dei lavori porta la data del 29 ottobre 1905. In seguito 2080 km di Transiberiana vennero costruiti, per lo stesso motivo, lungo il fiume Amur dal 1907 al 18 ottobre 1916.

La ferrovia che lo Zar aveva voluto per collegare Mosca con Vladivostock, sul Pacifico, era lunga 9434 chilometri. Fu un lavoro ciclopico che durò oltre un ventennio (1894-1916) - certo non quanto la Salerno-Reggio Calabria, 443 Km, iniziata nel lontano 1962 dallo Zar Amintore Fanfani e ancora non terminata, ma questa è un’altra storia...

Partì dalla stazione di Gemona il mio lunghissimo viaggio verso quei paesi lontani. Luigi era arrivato fin lì a piedi, portandosi dietro un bauletto contenente gli attrezzi da lavoro ed un sacco a tracolla dove aveva messo, oltre al sottoscritto, un po’ di cibo che sarebbe bastato solo per i primi giorni. Il datore di lavoro aveva inoltre dato a tutti un anticipo in denaro per le spese necessarie durante il lungo viaggio.

Passata Vienna, arrivammo al confine dove, dopo il controllo dei documenti, trasbordammo su un treno delle Ferrovie Russe. I vagoni erano divisi in scompartimenti ognuno dei quali aveva ai suoi lati tre comode cuccette poste una sopra l’altra.

Passata la Polonia Russa arrivammo a Brest-Litowsk dove sostammo per poi proseguire per Minsk, Viazma, Tula, Samara, dove scese gran parte dei passeggeri lasciando il posto a molti soldati.

Avevo notato che poco dopo entrati in territorio russo, Luigi e i suoi compagni di viaggio avevano incominciato a grattarsi sempre con maggior insistenza. Avevano avuto il loro primo approccio con i pidocchi russi, che sarebbero diventati loro coinquilini per tutta la durata della loro permanenza in quelle terre.

I pidocchi allora tutti sapevano cosa fossero, periodicamente anche da noi facevano la loro comparsa, ma quando ciò succedeva venivano presi drastici provvedimenti, di lavaggio e bollitura degli indumenti fino alla loro scomparsa. Pochissimi russi facevano altrettanto, sembrava quasi che loro non ci facessero caso e si fossero abituati a quella pruriginosa convivenza che, se poco percepibile quando ci si muoveva, diventava intollerabile stando fermi, per non parlare della notte!

Per arrivare a destinazione ci vollero circa quaranta giorni. Il convoglio viaggiava giorno e notte verso est, fra sobbalzi e lunghe fermate. Arrivò, infine, in una steppa immensa, sempre uguale, una terra piatta e desolata, di esilio e deportazione. Raramente si scorgeva all’orizzonte la sagoma di qualche foresta: immaginate cosa doveva provare Luigi abituato al paesaggio di Buja, circondata da dolci colline e dalla corona dei nostri monti.

I giorni di viaggio passavano, lunghi e sonnacchiosi, la monotonia del viaggio era interrotta ogni tanto dalla fermata in qualche stazione situata in mezzo a sterminate distese pianeggianti che si allungavano fino all’orizzonte. Quando il treno si fermava, alcune contadine con il capo coperto da un grande fazzoletto, si portavano a ridosso dei finestrini, gesticolando. Allora, armato di santa pazienza, Luigi riusciva a farsi dare da bere da un bicchiere bisunto un po’ di the caldo, o acquistava del pane, delle patate cotte, qualche cavolo per mangiare.

Le facciate delle stazioni sperdute nella taiga in cui ci fermavamo, riportavano i nomi dei paesini posti nelle vicinanze. Formati da poche isbe dalle pareti di fango e tetti di paglia che fumavano intensamente, questi villaggi, ora in alcuni casi diventati città, stavano nascendo dal nulla, insieme alla ferrovia che faceva loro da balia.

Infine, con altri mezzi superammo centinaia di villaggi composti da baracche, dispersi nella taiga, che facevano riferimento ad altrettanti cantieri, che fornivano alloggio a tutte le anime impegnate in quella strana guerra contro la natura dei luoghi.

 

3) In Siberia

Appena arrivato, Luigi terminò i soldi avuti alla partenza come anticipo acquistando immediatamente un paio di valenki di feltro, stivali adatti a quei climi, un colbacco e una pelliccia; a me pareva di essere arrivato nel luogo più freddo del mondo!

Assieme ad altri tredici friulani, il mio proprietario ed io andammo ad occupare una baracca dormitorio; tutto era fatto in tronchi di legno e l’ambiente era molto scuro. Al centro stazionava una stufa sempre accesa con sopra un samovar pieno di the caldo che aiutava a rimuovere dalla gola la polvere prodotta dagli scalpelli durante le lunghe giornate di lavoro. Ognuno aveva a disposizione un pagliericcio, pieno di chiazze di ogni forma, colore e origine. Io trovai posto fra le sue poche cose vicino ad una specie di cuscino. Fuori da ogni baracca c’era una grande catasta di legna che d’inverno aveva la parte superiore coperta di neve.

I lavori della ferrovia andavano avanti lentamente in luoghi spesso acquitrinosi, disabitati e selvaggi, dove non esistevano strade o sentieri, tutto doveva essere portato e costruito di sana pianta, dal nulla e questo ovviamente richiedeva doti di adattabilità e ingegno incredibili. Ad ogni squadra di operai specializzati veniva affiancata una quarantina di deportati che, con le catene ai piedi, svolgevano il lavoro di bassa manovalanza per pochi copechi giornalieri.

Erano i cosacchi a fare la guardia ai forzati, che in tanti casi erano stati seguiti dalle loro famiglie fino al luogo di confino e dove, quasi sempre, poi si stabilivano al termine della detenzione.

In certi paesini, quando capitava, la domenica Luigi andava alla Messa Ortodossa; era un continuo farsi il segno della croce e passarsi di mano in mano le candele, i riti erano tenuti in una lingua che lui ancora non capiva, ma li seguiva ugualmente poichè sentiva in quei riti una profonda religiosità.

Le prime volte la presi male, mi sentivo tradito, messo da parte. Capii col tempo che Luigi aveva bisogno di entrare in Chiesa, di ritrovare quel Dio che a poco a poco stava perdendo. In quel momento era come trovarsi a Buja, fedele tra i fedeli, come da bambino, domenica dopo domenica.

Durante le funzioni i fedeli intonavano cori dalle sonorità gravi e profonde che lo riempivano di nostalgia. Capimmo entrambi ben presto che quel Dio era sempre lo stesso, quel Dio che non si trova nelle parole degli uomini, ma nel voler bene. Spesso mi venivano dei dubbi: mi chiedevo se fosse stato Dio ad aver creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, o se fosse il contrario. Forse ognuno di noi risponde al disegno che Dio ha fatto per lui.

Il primo gennaio dell’anno 1900 alla fine di una giornata di duro lavoro, presa in mano la matita, scrisse sulla mia ultima pagina, queste poche parole che, scoperte tanti anni dopo, mi avrebbero dato la notorietà, permettendomi di apparire su libri, riviste e giornali italiani e russi.

 

«Oggi 1mo dell’anno 1900 sfida i rigori più tensi del freddo in una lugubre e lorda baracca Giordani Luigi in conpagnia di altri 13 Friulani stando sempre allegri in aspettativa di un avenire prospero e lucroso. Stà quindi à Dio il affretarcelo quale noi tutti gli rendiamo unito i ringraziamenti, anche il quore. Massavoja – Siberia».

 

Sono poche parole ma dicono tantissimo, permettono di comprendere quali fossero le effettive condizioni di vita di quelle persone, lontanissime da casa, senza affetti e senza notizie, in condizioni di vita veramente al limite della sopravvivenza.

Laggiù, d’inverno la vita era resa difficilissima dalle temperature polari, anche oltre i quaranta gradi sotto zero: in quei casi il lavoro doveva essere sospeso. Nevicava per giorni senza mai smettere obbligando tutti a rimanere rinchiusi nelle baracche, mentre spesso la notte i lupi ululavano all’esterno.

A volte i fiocchi di neve erano cosi grandi da ridurre la visibilità a solo qualche passo. Se in quei giorni gli operai per qualche esigenza corporale dovevano uscire, per evitare di perdersi nel bianco, avevano preso l’abitudine di legare uno spago ad una trave della baracca per poi srotolarlo man mano che si allontanavano.

Faceva così freddo che respirando all’aperto, l’alito si solidificava in perline di ghiaccio che andavano a depositarsi su barba e baffi. Granelli di ghiaccio si formavano nel naso, le palpebre facevano fatica a svolgere la loro funzione, l’urina nel momento in cui toccava terra era già passata allo stato solido. Le orecchie se non coperte adeguatamente gelavano e si staccavano come pezzi di ghiaccio. Gli indumenti incominciavano a fare uno strano scricchiolio e toccare dei metalli era pericolosissimo: c’era il rischio di rimanere incollati.

Terribili erano, poi, i giorni nei quali soffiava il Sarma, freddissimo vento del nord. Insomma erano condizioni davvero proibitive, tanto che tra i siberiani si tramandava questa leggenda:

«Dio, dopo aver creato la Siberia ed averle donato inestimabili ricchezze, per impedire che gli uomini ne approfittassero, decise di ricoprire tutto con uno strato di ghiaccio».

Spesso qualche baracca isolata veniva ripulita di ogni suo avere dai briganti che poi si dileguavano nelle boscaglie da dove erano usciti.

Il lunghissimo inverno terminava finalmente a maggio, ma d’estate erano le zanzare a rendere problematica la vita!

Quando non riusciva a prendere sonno, Luigi lasciava la baracca per andare a distendersi sulla nuda terra di una pianura sterminata che non frapponeva ostacolo alla volta celeste.

Lo vedevo guardare il cielo, un cielo spettacolare, inimmaginabile in Friuli. Osservava prima le poche costellazioni che conosceva, l’Orsa Maggiore, l’Orsa Minore con la sua Stella Polare; poi cercava Venere, l’astro più brillante, alzava le mani al cielo quasi a voler toccare con la punta delle dita quel puntino così luminoso, che sembrava lì, a pochi metri di distanza.

La puntura di decine e decine di grosse zanzare lo facevano, però, subito ritornare alla realtà. Non c’è bellezza che non abbia il suo prezzo.

Zanzare, tafani mosche e topi sono una delle caratteristiche più negative della Siberia oltre ai già citati coinquilini... Nei mesi estivi entrare nelle foreste era impossibile se non adeguatamente protetti da veli. A fare da guardia a questi luoghi ci sono infatti migliaia di questi insetti a cui vanno aggiunti ragni, zecche e formiche rosse giganti che con il sopraggiungere della stagione calda aumentano di numero in una maniera inverosimile.

Non a caso una delle punizioni che veniva inflitta ai deportati era quella di denudarli, legare loro le mani dietro la schiena e lasciarli per un’ intera notte all’aperto, magari vicino ad un acquitrino. Al mattino trovavano il prigioniero che si rotolavaper terra tumefatto, non era cosa rara che di lì a poco sopraggiungesse la pazzia.

Non vanno inoltre dimenticati i lupi, pericolosi in inverno e gli orsi che in primavera, dopo il risveglio dal letargo, erano particolarmente affamati.

A queste latitudini, polenta e formaggio erano sostituiti dall’Omul, il pesce tipico del Bajkal che, salato ed affumicato, è buonissimo, basta stare attenti alle lische.

Forse non ci crederete, ma nel lago Bajkal, che non supera mai la temperatura di 18 gradi, si trovano anche le foche. Quale evento misterioso le abbia portate o lasciate prigioniere a in questi luoghi, nessuno è in grado di spiegarlo con certezza.

Luigi con il suo lavoro aveva contribuito alla costruzione della Transbajkalika, ma nei venti anni trascorsi in Siberia aveva cambiato mestiere ogni volta che era stato necessario. Le peripezie della vita lo avevano messo di fronte a prove che aveva dovuto accettare volente o nolente, forse perché i friulani, figli di un popolo disperso per il mondo, per tutta la vita sono stati abituati a ricevere ordini dal padrone di turno e ad obbedire e servire troppo spesso senza fiatare pur di assicurarsi la polenta, cercando di disturbare il meno possibile.

Strana gente voi friulani, dalla grande volontà e capacità, ma incapaci di valorizzare quello che fate, sempre pronti a dar retta ai parolai di altre parrocchie... a coloro che, salvo eccezioni, fanno per uno, ma sanno vendervelo per dieci.

Avevo invano cercato fra le mie pagine, dove c’era scritto che un buon cristiano deve aiutare il prossimo, i diseredati, gli ammalati, i bisognosi, ma fra tutti questi, non ero riuscito a trovare una sola parola in favore dei furbi.

Facendo lo scalpellino, la paga giornaliera si aggirava intorno ai 6-7 rubli, che non erano pochi, ma quel lavoro aveva il rovescio della medaglia: in molti si ammalavano di tisi o silicosi perché all’aria si aggiungeva il pulviscolo delle rocce.

Nelle miniere poi, la roccia era dura come granito e si incontravano difficoltà di ogni tipo, si lavorava spesso a torso nudo. Dopo lo scoppio delle cariche di dinamite seguiva il lavoro fatto con picconi, martelli, scalpelli, con l’acqua che gocciolava dalle pareti: era un inferno dantesco che divorava uomini e capitali enormi per la sua realizzazione.

I ricordi della famiglia lasciata in Friuli riemergevano soprattutto la sera, gli stavano accanto, dovunque si trovasse, anche se con il passare degli anni sbiadivano sempre più.

Io comunque ero sempre lì, presente a ricordargli la storia e i valori appresi da bambino, il paese che aveva lasciato dove erano sepolte le sue radici, i suoi genitori.

A ricordare il padre poi, c’erano i racconti degli indigeni riguardo gli Sciamani, i quali assicuravano che con la sola imposizione delle mani o con qualche intruglio di erbe, riuscivano a guarire quello che i medici avevano dato per incurabile. In certe località, appese sui rami degli alberi, si potevano notare centinaia di striscioline di stoffa colorata che rappresentano le preghiere delle persone di passaggio.

Alla fine del 1905, terminati i lavori sulla curva meridionale del lago Bajkal, ci fu il rientro in patria, ma non per tutti. Il mio padrone, che aveva cominciato a masticare un poco la lingua locale, decise di rimanere. Cosa lo portò a prendere la decisione di rimanere in quei luoghi sperduti, anziché tornare dalla sua famiglia che aveva lasciato tanti anni prima?

Questo purtroppo è un tasto delicato e preferirei non parlarne. Sono fatti legati al privato e ai sentimenti di una persona a cui ero molto legato.

Successe a tanti italiani che, a prezzo di grandi sofferenze e sensi di colpa, decisero di rimanere e là ricominciare una nuova vita.

Dirò solo che, come è facile immaginare, nessuno, uomo o donna che sia, può vivere tanto tempo in luoghi sconosciuti ed ostili senza cercare di stabilire qualche rapporto che possa consolare, dare un po’ di serenità e far sentire il calore degli affetti senza i quali non è possibile sopravvivere. Per quanto riguarda Luigi, lascio così alla vostra intuizione immaginare ciò che può essere successo.

Molti cantieri erano nati al seguito della costruzione della ferrovia; vennero persino alla luce depositi di carbone a cielo aperto. Questi cantieri necessitavano di operai esperti, muratori, carpentieri, pittori, fornaciai, boscaioli, fabbri.

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4) La Rivoluzione Russa

La Siberia era proprio una miniera a cielo aperto, bastava aver voglia di lavorare e di affrontare tutte le difficoltà dei luoghi. Il Governo Russo, inoltre, per favorire gli insediamenti nella regione, regalava nella Siberia meridionale, a chi ne avesse fatto richiesta, mille ettari di terra da coltivare.

Nel periodo che va dal 1900 al 1920 vedemmo passare sulle nostre teste ben due guerre. La prima, contro il Giappone, scoppiata nel 1904, vide la Russia sconfitta e costretta a cedere al Giappone parte della Manciuria. I vincitori concessero in compenso alla Russia di poter continuare ad utilizzare il tratto di ferrovia appena realizzato che attraversava quei territori, anche se ben presto per questioni militari iniziarono i lavori più a nord, in prossimità del fiume Amur. Ebbero inizio, inoltre, i lavori per il secondo binario e il rifacimento in pietra di molti ponti precedentemente costruiti in legno.

La seconda guerra, contro Germania e Austria-Ungheria, scoppiò nel 1914 e sfociò poi nel 1917 nella Rivoluzione. Di fatto dal 1914 noi stranieri rimanemmo bloccati ed era impossibile pensare ad un rientro in patria.

Cominciarono a scarseggiare i prodotti alimentari e nel contempo dilagò la rivolta incontrollata della massa dei diseredati che sfociò in assalti alle proprietà dei ricchi.

Le classi sociali più povere dovevano fornire inoltre la gran parte delle truppe per una guerra che si stava mostrando col suo vero volto, una carneficina.

A seguito di tutto ciò scoppiò la Rivoluzione e con questa venne a mancare anche quella minima parvenza di ordine e legalità che regnava in quelle terre. In città come Irkutsk ogni sera c’era oltre una decina di morti ammazzati ad opera di alcolizzati che cercavano denaro per andare poi a berselo. Inoltre, periodicamente, orde di predoni assalivano cantieri, villaggi e treni facendo saltare i binari e questo andava avanti finchè qualche reparto dell’esercito non riusciva a scovarli e sterminarli.

Conosco bene l’obiezione di alcuni di voi riguardo alle poche cose che riferirò riguardo la Rivoluzione russa: «Con quale credibilità, tu, libro di chiesa scritto da un prete, vorresti venire a raccontarci dell’avvento del Comunismo in Russia? Tu, che persopravvivere sei stato sicuramente nascosto da Luigi sapendo bene che se i “compagni” ti avessero scoperto, prima ti avrebbero costretto a cantare “Bandiera Rossa” e poi saresti finito in cenere».

La sorte ha voluto che quello del mio padrone non sia stato l’unico tentativo di rientro in Italia in quei mesi. Uno dei tanti fu quello della contessa Rina di Brazzà Cergneu, di 74 anni, che nonostante avesse lasciato in Siberia i figli, scrisse al suo rientro un coraggioso libro-diario, ormai introvabile, dal titolo Autocrazia, Libertà e Bolscevismo pubblicato nel giugno 1920, dove sono raccontati dettagliatamente i fatti accaduti dopo la presa del potere  dei Bolscevichi ad Irkutsk e la sua decisione dipartire per un incredibile viaggio a piedi che sarebbe durato quasi sei mesi, con destinazione Vladivostock.

Inizierò col dirvi che il caos che seguì questi avvenimenti nel febbraio 1917, arrivò dalle nostre parti in puntuale ritardo, tanto che ebbe tempo di insediarsi a Tomsk il primo Governo e Parlamento Siberiano (28 Gennaio 1918).

Nell’anno 1918 circa 45000 soldati cechi, disertori dell’esercito Austro-Ungarico, si unirono ai bianchi di Koltchak che il 1° novembre del ’18 instaurò la dittatura, ma alla fine dell’anno i compagni avevano già ripreso il controllo della situazione.

Ammesso che il regime dello Zar fosse composto da polizia corrotta e quant’altro, chi pensate siano diventati, nei villaggi e paesini sperduti nella sterminata steppa russa, i caporioni di queste cellule che volevano cambiare il mondo? I pochi astemi con un po’ di sale in zucca o i più prepotenti, ignoranti e violenti che di comunismo parlavano per sentito dire? A voi la risposta!

Per farvi capire, in due parole, in che caos ci trovammo, tra i vari sanguinosissimi passaggi di potere fra bianchi e rossi, vi riporto due brani scritti dalla Brazzà:

«...Vi fu chi ebbe il coraggio che dà la disperazione, di denunziare a lui gli stupri violenti e gli atti arbitrari d’ogni sorta che si permettevano i soldati e gli altri bolsceviki in carica (ad Irkutsk). Se il «governatore» Ianson aveva una buona giornata, sorridendo ed in tono canzonatorio rispondeva:

Ma che, Cittadino, non siamo tutti fratelli, non siete bolscevicki? Se lo siete, dovete ben sapere che ognuno di noi abbiamo i diritti eguali, che la nostra legge tutto nazionalizza, che tutto è di tutti e che per conseguenza la donna, che è il più ghiotto boccone del patrimonio nazionale, deve subire la stessa sorte d’ogni altro bene di cui si ha da godere!... Anche i figli, vedete, sono nostri, poichè tutti siamo una sola famiglia; dunque ogni nato è proprietà nostra. Si faranno grandi Asili capaci di contenere tutti i nascituri della popolazione. Ogni madre, pena la fucilazione immediata, dovrà denunciarne la nascita e la nazione li farà allevare ed istruire con criteri moderni, in modo che, la generazione nuova, nascerà e crescerà bolscevik e non ci sarà più bisogno di propaganda per far capire al mondo che nel solo bolscevismo è la vera, la sola eguaglianza, la vera libertà, Se poi, come mi sembra, non siete bolsceviki, andatevene, ma in fretta, che potrebbe anche darsi, ch’io cambi d’umore, e se ciò fosse....

Chi non si assoggetta volontariamente alla nostra legge, sarà fucilato... (...)

Uno dei più ricchi signori d’Irkutsk, tale Regionoff, fu obbligato a far da cocchiere al proprio ex cocchiere, divenuto commissario. (…) la questione è soltanto di tempo, ma è certo che quel regime è destinato a fallire poichè, per quanto gridino, “eguaglianza fratellanza”, queste non esistono affatto. La proprietà, il capitale, non ha fatto che cambiar di padrone. La società nuova?... Non vi è che una differenza: chi prima stava in alto, oggi trovasi coi piedi nella polvere; chi prima stava in basso, ha raggiunto il più alto seggio e da lassù comanda. Oggi è come sotto il regime autocratico: borghesia e proletariato, ricco e povero, padrone e servo; colla differenza che chi comanda oggi, non sa comandare e chi deve obbedire, non sa obbedire...». (20)

Parole profetiche lette oggi, vero? Purtroppo il popolo siberiano era allora privo di qualsiasi cultura e pertanto di una ingenuità incredibile. Un poco per volta vennero richiamati alle armi pressoché tutti gli uomini dai 18 anni fino ai 50, provocando il conseguente spopolamento delle campagne dove rimasero solo donne, vecchi e bambini.

A questo si aggiunse l’abbandono totale delle colture agricole: nessuno coltivava e faceva nulla oltre lo stretto necessario per sopravvivere in quanto sapeva che poi a raccogliere sarebbero venuti i compagni.

Tutto si poteva definire con due parole sole: desolazione e miseria ed è per questo che in molti allora decisero di fuggire.

Chi rimase ritardò il suo rientro. Nel 1937 furono tutti espulsi e costretti a rientrare in patria, come raccontato nell’incredibile vicenda della famiglia Rugo, scritta da Elvira Kamenshchikova. (21)

 

5) Il ritorno

Così fece anche Luigi che, raccolto quanto poteva contenere una borsa da viaggio, dove io presi posto, assieme ad un gruppetto di connazionali, si avviò a piedi seguendo la ferrovia, che non funzionava, destinazione Vladivostock.

Non continuate a leggere prima di aver guardato una cartina geografica, non capireste, non capireste cosa significò camminare per mesi sui binari della ferrovia, un viaggio incominciato in piena estate e terminato in inverno, a Natale.

Quante notti passammo all’addiaccio addormentandoci sotto le stelle e quanto difficile fu proseguire quando dovevamo camminare impediti dalle pellicce nel gelo siberiano. Luigi, che nonostante qualche acciacco era un uomo ancora nel pieno delle sue forze, incominciò in questi giorni a tossire.

Come ringraziare tutti quei contadini, che a rischio della loro stessa vita, ci davano asilo nelle loro isbe. Fortunatamente non tutti i tratti della ferrovia erano interrotti, pochi chilometri percorsi sui vagoni facevano riaccendere la speranza e riacquistare le forze per proseguire ed arrivare a destinazione.

Rimase l’ultimo tratto, il più pericoloso in quanto infestato da bande di cinesi Tongusi che abitualmente vivevano nelle foreste ed erano dedite al brigantaggio.

Luigi affrontò questo tratto finale in condizioni di salute non buone: la polvere di pietra respirata in tanti anni di lavoro tornava a farsi sentire, tossiva continuamente, alle volte sputava sangue.

Finalmente vedemmo spuntare all’orizzonte delle cupole d’oro: eravamo arrivati a Vladivostock! Ci recammo subito al Consolato Italiano dove potemmo rifocillarci ed informarci sulle navi in partenza. Intanto a Luigi, che negli ultimi giorni aveva stentato a seguire il passo del gruppo, sopraggiunse la febbre.

Ci imbarcammo il 26 febbraio 1920 sulla Texas Maru, una nave giapponese che faceva rotta per l’Italia e che partì dal porto di Vladivostock con a bordo oltre che i sottoscritti, 1200 irredentisti e 23 Ufficiali.

Gli Irredentisti erano prigionieri di guerra (Austro-Ungarici) trentini, che allo scoppio delle ostilità nel 1914 erano stati mandati a combattere sul fronte russo.

Nel 1918 inoltre, erano partiti da Torino circa settecento volontari che entrarono a far parte del corpo di spedizione occidentale antibolscevico mandato in aiuto delle truppe bianche dell’ammiraglio Koltchak. A questi uomini, guidati dal colonnello Camossi, si aggiunsero circa ottocento di questi prigionieri di guerra trentini, che attendevano da mesi di essere riportati a casa.

I 1200 saliti sulla Texas Maru erano l’ultimo scaglione di alcune migliaia di prigionieri che la Missione Militare Italiana era riuscita a far rimpatriare, denominandoli furbescamente Irredentisti per ovvi motivi politici.

Speravo che il periodo di riposo forzato del viaggio, l’aria pura del mare e il sole avrebbero rimesso in sesto Luigi. Non fu così.

Furono giornate splendide e nello stesso tempo tragiche, quelle che precedettero l’arrivo al canale di Suez, in mezzo ad un oceano calmo le cui onde sembrava volessero cullare quell’uomo così ammalato.

Le albe ed i tramonti e le notti serene in mare aperto poi, erano qualcosa di inimmaginabile. Lo sguardo ad uno stupendo cielo stellato, accompagnato da un alito di vento che sembrava volesse accarezzare l’ombra scura del mare, faceva tutt’uno con il lento sciabordio delle onde che accarezzavano le fiancate della nave: sembrava che tutto fosse stato fatto per far percepire, a coloro che ne avevano la sensibilità, la grandezza e la bellezza del creato. A tutto ciò si aggiungeva l’uomo, formica su una noce, che faceva parte del tutto, anzi tutto era stato creato per lui.

Il desiderio del ritorno e tante riflessioni cominciarono a scomparire poco a poco quando le condizioni di Luigi peggiorarono. Ad una tosse insistente che lo consumava senza lasciarlo un attimo, sopraggiunse la febbre alta.

Fu portato in un locale che fungeva da infermeria, ma a nulla valsero le cure prestate dal medico di bordo, Luigi Zamper.

Il suo sogno di un “avenire prospero e lucroso” finiva qui.

Rinchiuso a chiave dentro un bauletto, non riuscii a vedere l’incontenibile gioia degli Irredentisti Trentini quando approdarono in quella che era diventata la loro nuova patria, mi pare il 1° aprile 1920, nel porto di Napoli.

Il 15 aprile 1920 la Texas Maru fece scalo a Trieste. Qualche mese dopo, il 7 luglio 1920, a Buja, giunse un bauletto in legno con i pochi averi di Luigi, tra i quali c’ero anch’io e la seguente comunicazione:

«L’anno millenovecentoventi ed addì venti del mese di marzo nell’infermeria a bordo del piroscafo “Texas Maru” nella posizione: lat. 5° 34’ N - long. 83° 08’ mancava di vivi alle ore due e trenta minuti pomeridiane in età di anni sessantadue il cittadino italiano Giordani Luigi nativo di Buja provincia di Udine, figlio di fu Vincenzo, morto in seguito a tubercolosi polmonare e calato in mare a lat. 5° 38’ N - long. 82° 10’».

Mi sentivo orfano assieme alle pochissime cose che Vigj aveva potuto portarsi dietro in quel viaggio durato mesi; qualche indumento, alcuni fazzoletti da naso, un paio di mutande, qualche rublo.

Giunto a casa, ritrovai sua moglie Vincenza Aita (Vissense Piç), che stupita mi riconobbe e dopo avermi dato una fugace sfogliata mi pose in un cassetto. Aveva ben altro a cui pensare.

Suo figlio Giuseppe (Zef di Vissense) (1889-1979) si era sposato nel 1915 pochi giorni prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale ed abitava poco lontano, sempre nella borgata, mentre l’altro figlio Francesco (1893-1957) si sposò il 5 febbraio 1921. (12)

Al ritorno seppi della morte del mio autore mons. Venier, avvenuta il 7 giugno 1902. A Buja è ancora ricordato, oltre che per essere stato un buon pastore d’anime, per le innumerevoli opere realizzate durante il suo apostolato, quali l’ampliamento della Chiesa Matrice di Monte di Buja, di quella di Madonna, l’ampliamento del Duomo di Santo Stefano, le arcate laterali con le tombe a San Bartolomeo.

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6) La Seconda Guerra Mondiale

Dopo quanto successo mi ero persuaso che certe dottrine politiche potessero far presa sulle masse solo in stati governati da regimi oppressivi e corrotti come quello che avevo conosciuto in Russia. Mi stupii pertanto della situazione politica che trovai al mio arrivo in Italia: scioperi, manifestazioni e bandiere rosse al vento. La rivoluzione Russa da questi era considerata come il cielo in terra, ed io, confesso, li avrei subito mandati a provare quel paradiso…

A calmare le acque arrivò un ex Socialista che in poco tempo, salvo rare eccezioni, mise tutti d’accordo. In lui gli Italiani trovarono quello che stavano cercando, un “capo”.

In pochi anni riuscì a farli felicemente marciare tutti al passo dell’oca e come ogni regime che si rispetti, provocò prima, un aumento incredibile dei pappagalli, ed infine, tanti asini salirono al volo in cattedra, per il semplice motivo di portare la camicia del colore giusto.

Abitudine quest’ultima apprezzata, e praticata tuttora da tanti politici sensibili ai ragli.

Alcune di quelle rare eccezioni si trovavano proprio a Buja, erano state messe assieme da Tito Zaniboni, spesso presente nella cittadina collinare dove riusciva a coniugare perfettamente l’utile, politico, con il dilettevole...

Classe 1883, poco più che quarantenne, nel 1919 era stato eletto Deputato nel collegio Friulano, ma non rieletto nel ‘23. Aiutato da alcuni bujesi, nel ‘25, organizzò un attentato al Duce. Sfortunatamente la polizia era a conoscenza di ogni particolare, sin dall’inizio, poichè  il segretario particolare di Zaniboni, Carlo Quaglia, faceva il doppiogioco.

I congiurati poterono proseguire con i preparativi fino all’atto finale (4 novembre ‘25), a Roma, quando furono fermati. Li lasciarono fare per poi giustificare agli occhi dell’opinione pubblica italiana la promulgazione delle famose leggi speciali.

Uno degli attentatori, riuscì a fuggire all’estero, mentre molti altri bujesi subirono varie condanne detentive.

Se poi un giorno si trovassero, nell’archivio del comune di Buja, le prove documentali riguardo la testimonianza rilasciata al mio ultimo proprietario da un anziano bujese il quale afferma che nel 1917 a salvare Mussolini rimasto gravemente ferito dallo scoppio di un lanciabombe sul Carso, fu suo cugino…….., un vostro concittadino che lo trasportò a forza di braccia nel più vicino ospedale da campo, la cosa diverrebbe paradossale...

Il Fascismo negli anni che seguirono non riuscì a fare di voi italiani una Nazione, in compenso vi diede l’Impero, l’ultimo a nascere e il primo a cadere qualche anno dopo.

E non raccontatevi bugie, se allora si fossero tenute delle regolari elezioni, non ci sarebbe stato bisogno di brogli, il fascismo avrebbe stravinto.

«Ancora una volta la nostra Patria, trascinata dalla forza degli eventi, costrettavi da una fatale congiuntura di partiti avversi, è scesa in armi ed è impegnata, nell’Africa Orientale, in una guerra di difesa dei suoi interessi, la rivendicazione dei suoi diritti, per la causa della civiltà. (…) Non è questo il momento, ne tocca a noi discutere le ragioni della guerra e della pace. Il nostro dovere, diciamo, è di cooperare efficacemente per il successo delle nostre armi ed il trionfo della nostra causa…». (27)

Chi commentò con queste parole la nascita dell’impero non fu un gerarca fascista, ma un alto prelato friulano di cui, per carità di Patria, ometto il nome.

Chissà se avrebbe cambiato opinione qualora fosse venuto a conoscenza dei 449, fra monaci e diaconi Cristiani di rito Copto, assassinati a pochi chilometri dalla loro città-monastero di Debrà Libanòs per il solo sospetto di essere in qualche modo implicati  nell’attentato contro il vicerè d’Etiopia Rodolfo Graziani nel 1937? (28)

Le sue parole, rimangono comunque il classico esempio di una grossa occasione persa.

Io rimasi a casa con Vincenza che visse fino al 1937, quindi passai di nuovo di mano: la mia proprietaria divenne sua figlia Lucia (Ninute di Vissense 1884-1971), la seconda figlia rimasta nubile (12). Andai ad abitare da lei, sempre ad Ursinins, dove passai di cassetto in cassetto per finire, infine, sul solaio.

Nel settembre del ‘39, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ebbe inizio per voi uomini un periodo che avevo conosciuto e potuto studiare per ben due volte in solitudine e con calma, quando mi trovavo in Siberia. Presentava aspetti e modalità che mi avevano lasciato sconvolto ed allo stesso tempo incuriosito.

Con i conflitti, infatti, inizia una fase in cui tutti i valori umani, tutte quelle certezze che hanno ferme radici anche nelle mie pagine, vengono legittimamente sovvertiti. Fratellanza, amore e solidarietà per il prossimo, che regolano o dovrebbero regolare la vita civile di ogni popolo, risultano capovolti. L’omicidio, le distruzioni e le stragi che normalmente vengono severamente perseguiti dalla legge diventano per voi naturali e lecite, anzi da premiarsi con onori e medaglie se fatti alla grande.

I buoni diventano, stranamente, tutti i componenti di una nazione, gli altri, i nemici, sono i cattivi e i senza Dio contro i quali tutto è lecito. Tutti diventano improvvisamente entusiasti ed euforici e si fanno in quattro pur di distruggere il frutto di anni di indicibili fatiche.

Al termine dei conflitti naturalmente è il vincitore a stabilire in modo definitivo chi siano i buoni, degni di ascolto, citazioni, monumenti, medaglie e gloria, e chi i cattivi che hanno sempre il dovere di farsi un approfondito esame di coscienza e soprattutto di stare zitti, zitti sempre e comunque, per non interferire nelle bugie, più o meno grandi, dette immancabilmente dai vincitori per nascondere le loro vergogne.

Arrivati a questo punto si possono iniziare a scrivere i libri di storia, senza alcun timore di essere smentiti. Partendo da questi presupposti, passati alcuni anni, alcuni riescono persino a stupirsi di eventuali mancate riconciliazioni.

Nel 1940 anche l’Italia entrò in guerra ed io incominciai subito a stare male. Quando seppi che un corpo di spedizione Italiano che in seguito avrebbe raggiunto il numero di oltre duecentotrentamila uomini era stato mandato in Russia, avrei voluto far sentire la mia voce e urlare tutta la mia rabbia.

Avrei detto innanzitutto quello che ogni libro di Chiesa deve dire, e cioè che le guerre non si fanno. Che a pagare, alla fine, sarebbe stata la povera gente, la stessa che purtroppo avevo visto gioire e inneggiare per l’entrata nel conflitto. Avevo il voltastomaco, per non dire altro, nel sapere di Sante Messe con i armi da benedire e fucili in bella mostra ai lati degli altari.

Avrei urlato loro che quei posti io li conoscevo e sapevo prima della partenza come sarebbe andata a finire, che io c’ero già stato e avevo visto e provato quanto bastava per sconsigliare all’Italietta dagli scarponi di cartone di affrontare quell’avventura sconsiderata.

Cosa successe poi, qualche mese dopo la partenza, ad oltre novantamila di quei poveri ragazzi lo sapete, ormai fa parte della Storia.

Rimasi stupefatto, non credevo ai miei occhi quando nell’ottobre del ’44, vidi arrivare, sui loro strani carri, i Cosacchi a Buja e soprattutto nel sentire che i tedeschi avevano deciso che la nostra terra sarebbe diventata la loro nuova patria, Cosakenland in Nord Italien.

Dal settembre 1943, il Friuli era diventato a tutti gli effetti parte del territorio tedesco.

Se penso a come si concluse per tanti di loro quel calvario, mi vengono i brividi; molti preferirono annegare nelle acque gelide della Drava piuttosto che essere rispediti nel paradiso staliniano dove Dio era considerato una droga.

Nel maggio del 1945 giunse finalmente la pace. Tutto si era concluso peggio del previsto.

Dopo che gli alleati tedeschi li avevano salvati da magre figure militari in Grecia ed in Libia, togliendoli dai pasticci in cui si erano cacciati, a causa del solito, pressappochismo, gli italiani vista la malpartita fecero il salto della quaglia, gli alleati di un tempo divennero i  nemici, e viceversa, in pochi giorni milioni di fascisti, diventarono convinti antifascisti.

L’Italia voleva uscire da un conflitto diventato insostenibile, in cui non avrebbe mai dovuto entrare, ma non si accontentò di una sacrosanta pace, salì sul carro del vincitore credendo forse di andare a vincere, da altre sponde, una guerra già persa.

Centinaia di migliaia di soldati vennero lasciati in balia di sé stessi, in Italia e all’estero. Il solito pasticcio all’italiana cucinato da cuochi di quart’ordine che finì per buttare alle ortiche quel poco che le era rimasto, la  possibilità di poter dire: “Tutto è perso fuorchè l’onore”.

Alla fine gli italiani si ammazzarono fra di loro e, come sempre accade, tutti coloro che all’inizio applaudivano ora piangevano i loro morti e maledivano la causa delle loro disgrazie, i cattivi, che erano comunque e sempre gli altri, meglio se tedeschi.

«…Arrivammo a qualche distanza da un piccolo paesetto ed era una vera desolazione a vederlo. Non era una sola casa in stato di abitazione, tutte distrutte e rase al suolo. Ove fanno resistenza agli alpini e agli albanesi, fanno strage…» (29)

Questo che avete letto sono solo tre tragiche righe tratte dal diario di guerra dell’alpino bujese Tobia Venturini, che consiglio vivamente di leggere a coloro che credono ancora a certe favole.

Alla fine del conflitto i criminali di guerra richiesti all’Italia dai paesi occupati, “... per la causa della civiltà….”  erano oltre millecinquecento, ripeto per i duri di comprendonio, oltre millecinquecento (plui di milecincent), Badoglio e Graziani in testa.

Consegnati:… nessuno.

Servono altri commenti?

(30)

 

7) Rimettete quella lapide al suo posto

Quando penso che, alla fine del conflitto, parte del Friuli, compreso il sottoscritto, ha corso il rischio di passare alla Jugoslavia, sento il bisogno di andare avanti e dirvi tutto senza peli sulla lingua. Anche se questo a molti potrà dispiacere, correrò forse il rischio di generalizzare, ma non certo quello di non essere chiaro.

Conosco, infatti, troppo bene il difettuccio di voi umani che con il passare del tempo tendete a dimenticare gli episodi spiacevoli e lasciate sopravvivere abbellendo e adattando il resto a seconda del vento che tira.

Per quanto riguarda invece i torti subiti, nulla da eccepire, avete tutti una memoria di ferro.

Che giudizio date ad esempio di colui che, il 13 settembre del 1944, diede l’ordine a dei ragazzi di compiere l’agguato a San Floreano di Buja, presso il ponte sul fiume Ledra posto in prossimità delle case della borgata, dove morirono cinque anziani riservisti tedeschi che stavano andando a portare il rancio ai commilitoni nel vicino campo di aviazione di Osoppo?

I nostri eroi, dopo averli ammazzati e rubati alcuni cavalli, si dileguarono prontamente mentre la borgata rischiò di essere incendiata e cinquanta bujesi di essere passati per le armi in applicazione delle leggi di guerra. Fu grazie al buonsenso (o coraggio) del Comandante Tedesco se solo trentatrè paesani vennero spediti nei campi di concentramento da dove purtroppo, diversi non fecero più ritorno. Un Capitano austriaco, che aveva contribuito a fermare la rappresaglia venne ucciso assieme al suo attendente in un agguato, nella stessa borgata, venti giorni dopo.

E che cosa pensate dei caporioni di certe forze partigiane che in nome dell’Internazionalismo, mandarono, volenti o nolenti, migliaia di giovani friulani a combattere in Iugoslavia agli ordini del IX Corpus di Tito?

A che scopo, ci avete mai pensato? Chi li mandò, voleva ridarvi la libertà o portarvi nel nuovo paradiso di cui si stavano costruendo le fondamenta?

Troppa gente allora visse nel terrore, non sapeva da chi si doveva difendere: se dai tedeschi e dai cosacchi invasori, oppure dai collaborazionisti e dai partigiani di casa nostra!”.

Alla fine però, tutti passarono per Liberatori, ma perchè non ammettere che se questi avessero prevalso sareste passati da una dittatura nera ad una rossa?

Perchè continuare a sottacere l’evidenza e cioè che i loro capi politici desideravano ardentemente farvi provare lo stesso paradiso portato in Iugoslavia, Bulgaria, Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria.

Ecco spiegato il motivo per cui, allora, tanta gente che aveva capito, pregava Iddio perchè li salvasse da certi liberatori.

Forse è per questo che altri Liberatori, in genere più moderati, soprattutto perchè usciti dalle canoniche friulane, cominciarono a battersi, loro sì, per un’Italia democratica, anche se da voci messe in giro ad arte furono fatti passare spesso, nella migliore delle ipotesi, per collaborazionisti dei tedeschi, e nella peggiore…  ricordate Porzus?

Nessun bujese ricorda quanto successe a Buja il 1° maggio 1945 fuori le mura del cimitero di San Bartolomeo? Nessuno ha visto e sentito nulla?

Forse qualcuno ha pensato che, tacendo e dimenticando l’accaduto, si possano cancellare pure vittima e carnefici?

Rimorsi di coscienza?

Quel giorno non solo io, ma in tanti nelle frazioni di Ursinins Piccolo e Camadusso udirono Leonardo Seravalli che, portato davanti al plotone di esecuzione, urlò più volte con quanto fiato aveva ancora in gola: «State ammazzando un innocente, le accuse sono tutte false», prima di cadere a terra sotto la scarica del plotone di esecuzione.

Era colpevole certo; colpevole innanzitutto di aver continuato a credere in ciò che tutti,  ripeto “tutti”, avevano più o meno creduto fino a pochi mesi prima. A decidere della sua sorte però fu soprattutto l’ingrato lavoro di esattore che svolgeva come dipendente della Banca per cui lavorava.

Venne accusato di essere lui la causa dell’incendio di Bordano da «…quello che al padre l’Ufficio (la Banca) molti anni fa ha mandato all’asta la proprietà per imposta non soddisfatta. Di conseguenza il falso accusatore non è altro che un criminale» scrisse nel testamento redatto da don Pacifico Durisotti che conoscendolo, fece tutto il possibile per rimandare l’esecuzione. Da lì a poche ore sarebbe entrato in vigore l’armistizio e non si sarebbe potuto, teoricamente, fucilare nessuno.

Il sangue versato da quest’uomo è riuscito a tappare la bocca di tutti per tutto questo tempo e nessuno in sessant’anni, dico nessuno ha avuto il coraggio di dire o scrivere pubblicamente in una delle periodiche commemorazioni: «Fra tante cose giuste che abbiamo fatto, qui abbiamo sbagliato. Che Dio e la sua famiglia, se possono, ci perdonino».

Tutti avrebbero capito, capito e perdonato come lui stesso raccomandò cristianamente ai suoi fratelli nel testamento «...non vendetta ma perdono».

Anche suo figlio Gianalberto, che sessantacinque anni dopo, non riesce ancora a farsene una ragione, avrebbe capito. Il suo perdono cristiano vi assicuro, lo ha già dato da tanti, tanti anni.

La speranza comunque è l’ultima a morire.

Vicino al muro esterno del vecchio cimitero, dove venne eseguita l’ingiusta sentenza c’era un tempo una lapide che ricordava la sua morte.

Bujesi, lasciate che sia un libro a chiedervi di rimettere al suo posto quella lapide o di rifarne una, per ricordarci che nelle vicissitudini dell’esistenza umana ci si può trovare dalla parte sbagliata per i più nobili motivi o, dalla parte giusta, per i più vergognosi, ma soprattutto che un uomo non può sentenziare della vita o della morte di un altro uomo.

Dopo tutto questo, naturalmente molti, anzi troppi in Italia, credettero di aver vinto la guerra, pertanto si sentirono esentati dal fare quanto richiesto ai vinti.

Tutte cose che avevo purtroppo già viste, da anni le mie pagine raccomandavano inutilmente un necessario periodico esame di coscienza.

Mi vengono in mente le parole di Einstein che dicevano pressapoco così:

«Le grandi tragedie non avvengono mai per colpa di qualche invasato, ma perché la grande maggioranza della gente per bene lo lascia fare».

La stessa colpevole indifferenza con cui avete accettato le vergognose leggi razziali.

Riconosco che è facile oggi sentenziare stando comodamente appoggiati sugli scaffali di una libreria, so bene che allora l’unico modo per non indossare di nuovo una divisa, o per non essere deportati, era quello di andare alla macchia.

E’ indubitabile che fra le fila partigiane ci siano stati tanti “martiri per la libertà”, ma è altrettanto vero che i martirizzati da loro o a causa di certe “prodezze”, compiute in certe regioni anche a guerra finita, siano molti di più.

«Se andiamo dietro a tutto quanto è stato detto e scritto sulla Resistenza ne deduciamo che in due anni, ci sono stati tanti di quei martiri da far invidia alle persecuzioni subite dai cristiani, ad opera degli imperatori, nei primi tre secoli.  Se poi parliamo a quatt’occhi con la gente, sentiamo tutt’altra storia.»  scrisse un Sacerdote friulano. (31)

«Quando un paese subisce una disfatta, inventa o esagera dei “gloriosi episodi” su cui richiamare l’attenzione  dei contemporanei e dei posteri e distrarla dal risultato finale.» scrisse Montanelli raccontando di Muzio Scevola (32).

Comunque ritengo che l’unico modo onesto per onorare tutti i giusti, che allora morirono per un ideale, è di dire sempre e comunque la verità, anche se a volte fa male.

Dopo tutto quanto vi ho detto, so essere stato poco patriottico, compatitemi e, se potete, perdonatemi forse ciò è dovuto al fatto che la mia patria, pardon..., il mio Regno sta da tutt’altra parte.

 

8) L’Apocalisse del ’76

Finita la Seconda Guerra Mondiale, negli anni sessanta la casa dove mi trovavo venne venduta ad Agostino Zuccato; Ninute aveva mantenuto in usufrutto una stanza, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1971.

Io allora passai di proprietà con mobili ed immobili per il semplice fatto di trovarmi lì. I nuovi proprietari intanto, colpiti dalla piaga biblica che periodicamente colpisce il Friuli, avevano dovuto fare la valigia e si erano trasferiti a Troyes in Francia dove avevano trovato lavoro e casa. Furono per me anni di disperazione: le paure e il freddo patito in Siberia era nulla in confronto a questi lunghissimi anni di solitudine.

Lassù, in Siberia, quasi ogni giorno Luigi prendendomi in mano, mi riscaldava, sfogliandomi con calma, mi faceva sentire importante anche se avevo perso il mio caratteristico odore di cellulosa.

Ora invece mi trovavo in solaio accanto ad un’altra decina di libri, che avevo già conosciuto anni addietro, alcuni dei quali erano molto più anziani di me.

Eravamo i sopravvissuti alla requisizione libraria che monsignor Venier aveva fatto alla morte di Vincenzo, il Mago, avvenuta il 25 ottobre 1892. Il giorno dopo il funerale il mio autore giunto a Ursinins, riempì due sacchi di libri e li portò in canonica. Per una questione di scrupolo? Perché molti libri gli appartenevano? Forse l’uno e l’altro, fatto sta che rimanemmo solo una decina, fra cui un volume proveniente da Vendoglio.

Il nonno della compagnia, che mi stava accanto appiccicato alla copertina, per consolarsi attaccava bottone vantandosi di essere stato stampato a Venezia nel lontano 1733 «ai tempi della Serenissssima» diceva, allungando a dismisura la pronuncia delle esse finali per darsi importanza, ma era bruciacchiato in un angolo e l’odore di pesce marcio che emanava in certe giornate umide non era dei migliori.

Quello che invece mi stava appoggiato sull’altro lato aveva il dorso mancante, e non faceva altro che lamentarsi per il freddo e gli acciacchi. Qualcuno, mosso a compassione, lo aveva riparato cucendo malamente un pezzo di panno alle copertine fronte e retro.

Il più allegro di tutti era un libro di orazioni scampato alla requisizione che, felicissimo di non essere ritornato in canonica, ripeteva spesso:

«Non lamentatevi e guardate chi sta peggio, voi non sapete la fortuna che ho avuto a rimanere qui. Là in chiesa ogni giorno rosari, orazioni mattino e sera, messe, vesperi, sacre funzioni, litanie, passare di mano in mano, non parliamo dell’alito che puzza d’aglio di alcuni fedeli… una sofferenza continua; quaggiù invece, d’accordo che nessuno ci considera, ma almeno ci lasciano respirare in pace...», al che c’era chi gli urlava di rimando:

«Bastaaaa...!! quando ero giovane mi dicevano di guardare sempre i migliori, ora mi sento dire che si deve guardare chi sta peggio, ma io devo sempre stare a guardare?» ascoltandoli dimenticavo i guai e ritornava il buonumore.

La casa rimase disabitata per qualche anno, finchè un giorno vidi entrare diversi giovani della borgata. Dopo aver chiesto il permesso ai proprietari, liberarono e pulirono una stanza al pianterreno e ci installarono un giradischi.

La nostra casa era diventata un luogo di ritrovo domenicale e di fine anno, frequentato da ragazzi e ragazze, che, a volume sconsiderato ballavano, ridevano e insomma ... si divertivano.

Noi libri, stupiti, allungavamo le orecchie per sentire quella strana musica così ritmata e urlata. Non avevamo mai sentito rumori del genere, abituati come eravamo a cori, organi e Messe cantate.

Ricordo benissimo una delle prime serate quando l’allegro della nostra compagnia ascoltando un brano Rock, mi pare dei Beatles, che i giovani di sotto avevano mandato a tutto volume, ruppe improvvisamente il silenzio con un grido: «Ragazziii, questa siii che è musica…» e incominciò a ballare quel ritmo indiavolato allargando e stringendo la copertina e i fogli a fisarmonica.

Rimasi esterrefatto nel notare che uno dopo l’altro si erano messi a fare altrettanto anche tutti gli altri libri, ultracentenari pieni di acciacchi! Lo ammetto, fu uno spettacolo indecoroso ed io, lo giuro, ballavo solo perchè in mezzo a loro non potevo fare altrimenti.

Seguì una peccaminosa musica lenta, fu allora che il veneziano dopo essersi ricomposto, forse per darsi un contegno, proferì: “Andè a vardar cossa i xe drio a far la soto ...” (“Andate a guardare cosa stanno facendo là sotto …”). Ci eravamo tolti molta polvere di dosso ed alla fine di quelle serate eravamo stanchi, ma allegri e ci auguravamo che quei ragazzi fossero ritornati presto a movimentare un po’ la noia delle nostre giornate.

Quella quiete durò fino al giorno dell’Apocalisse: il 6 maggio 1976.

Alle nove di sera le pareti cominciarono muoversi, una forza disumana ci spinse da una parte all’altra del pertugio dove ci avevano infilati, il tutto accompagnato da un rumore sordo di cocci e vetri che si stavano rompendo. Non riuscivamo a capire e a vedere nulla a causa della grossa nube di polvere che copriva ogni cosa.

L’indomani, nonostante la polvere che avevamo addosso, alle prime luci dell’alba notammo che il solaio era particolarmente luminoso. Grossi squarci alle pareti si erano aperti e dal tetto si poteva scorgere un cielo limpido e azzurro. Cocci di tegole rotte erano sparsi dappertutto.

Fortuna volle che la parte di tetto sopra di noi, fosse rimasta in buone condizioni, tanto che quando la settimana dopo si scatenò il diluvio, non ci bagnammo.

Buja era diventata un ammasso di rovine sotto le quali erano morte oltre cinquanta persone. Pochi giorni dopo il sisma, da Brescia, giunsero nella borgata di Ursinins Piccolo degli Angeli, che aiutarono e confortarono gli abitanti della frazione. In soli sessanta giorni con le offerte dei bresciani realizzarono il primo villaggio prefabbricato del Friuli terremotato.

In quei giorni rientrò dalla Francia Ermes, figlio ventenne di Agostino, il proprietario della casa. Era venuto a controllare quanti e quali fossero i danni riportati dal vecchio edificio dove, da qualche mese, erano iniziati dei lavori di ristrutturazione.

Ermes, al suo arrivo, si trovò davanti una casa pericolante. Con qualche rischio fece un giro veloce per tutte le stanze, constatando che era impossibile pensare di recuperare i pochi vetusti mobili presenti. Arrivò fino in soffitta, ci vide impolverati e tremanti di paura e probabilmente pensò che noi eravamo l’unica cosa che avrebbe potuto salvare.

Così, guardando bene dove metteva i piedi, si avvicinò tentoni e ci raccolse.

Quando in estate Ermes rientrava a Buja da Troyes per le vacanze con la sua famiglia, andava sempre a giocare da un suo lontano cugino, Celso Gallina, che abitava lì vicino.

Così anche quel giorno, dopo aver constatato le condizioni della casa, tenendoci sotto braccio si recò subito dal suo amico. Si stupì nel vederlo indossare una tuta mimetica. Celso era scappato dalla caserma la sera del sisma e prima di mezzanotte si trovava già a Buja. Aveva trovato i genitori vivi e la casa crollata. Quella sera terminò il suo servizio militare ma la divisa dovette giocoforza tenersela addosso per diverso tempo. A dire il vero non tutta la casa era crollata, rimaneva in piedi la parte ovest, il vecchio fienile che il padre Valerio aveva trasformato in appartamento per suo figlio.

Tutto era però ancora allo stato grezzo; al pianoterra c’era ancora il pollaio.

In quei giorni chi aveva un tetto sopra la testa, comunque si sentiva un privilegiato, e così in poco tempo il pollaio si trasformò in abitazione, in fondo sempre di  galline si trattava!

Dopo aver salutato i suoi familiari, Ermes disse a Celso:

«Ho trovato questi sul solaio, vuoi tenerli o li butto?».

Celso ci prese senza neppure degnarci di uno sguardo e ci mise in una cassetta di legno di quelle che si usavano per la frutta, assieme ad altri libri.

Avevo cambiato per la sesta volta padrone e mi ritrovai stretto in mezzo ad un’altra cinquantina di testi che il mio nuovo possessore aveva recuperato dalla sua camera crollata.

Rimasi ammutolito quando seppi che al mio nuovo proprietario era stato imposto quel nome per ricordare lo zio disperso in Russia, a Nikolajevka, durante la Seconda Guerra Mondiale. (33)

 

9) L’ultimo proprietario

Debbo dire che la nuova sistemazione era molto peggiore della precedente, mi venne il sospetto di essere caduto dalla padella nella brace.

Mi trovavo stretto a forza tra libri sconosciuti, con poca aria e molta polvere in una cantina buia, dove rimasi per circa tre anni, il tempo necessario al mio nuovo proprietario per ricostruire la casa e sposarsi.

Furono tre anni strazianti: Celso era infatti un accanito lettore di alcuni filosofi illuministi in particolare Bertrand Russell di cui possedeva tutte le pubblicazioni.

Mi trovai vicino, ma fortunatamente non a contatto, con un volume dal titolo Perchè non sono Cristiano (34) che, vi giuro, fu un vero supplizio, con le sue osservazioni, la sua logica da saputello, il suo illuminismo da strapazzo. Se io e i miei vecchi amici cercavamo di chiacchierare fra noi, venivamo subito tacitati da decine di voci al motto di «Zitti oscurantisti!»

Alle volte, per non lasciarmi sopraffare dalla noia, cercavo comunque di intavolare una discussione con questi nuovi libri. Provai diverse volte, ad esempio, a spiegare loro che, nonostante fossero passati millenni, l’uomo in fondo è sempre uguale, convivono in lui allo stesso tempo genialità e bestialità e per portare a galla quest’ultima, basta solamente saper premere i tasti giusti.

Li invitavo a riflettere riguardo agli uomini che pensano di essere foglie libere, credono di riuscire a vivere senza albero e radici, liberi, senza Dio e senza padroni.

Alla fine quasi sempre finiscono per andare a cercarseli e trovarli in qualcos’altro.

Mi tornava vagamente in mente quanto mi aveva raccontato un libro scritto, mi pare da Dostoievski in cui un personaggio, folgorato dalla luce della ragione dopo aver spento i ceri dalla sua cappella tolse tutte le immagini sacre per sostituirle con gli scritti di alcuni filosofi atei e alla fine aveva riacceso, devotamente, tutti i ceri.

Ben presto mi accorsi che queste discussioni erano tempo sprecato.

Diciamolo subito, ero molto preoccupato per il mio futuro, era evidente che un tipo che leggeva quei libracci, fosse uno che aveva perso la tramontana e che in chiesa non metteva piede.

Il tempo passò, finchè un giorno, riportati in casa, fummo tutti sistemati in una comoda libreria: noi vecchietti avevamo uno scaffale centrale tutto per noi, un altro era tutto per loro, ma in basso dove si mettono i libri che non fanno bella figura, libriccini incollati..., finalmente sani e lontani!

Al calduccio era un altro vivere, ogni tanto venivo anche preso in mano, mostrato agli amici e consultato nella parte storica. Sfogliandomi un giorno Celso scoprì la parte finale dove erano state inserite diverse raccomandazioni sotto il titolo

“MOLTE PREDICHE in brevi sentenze”. Lo vidi incominciare a leggere gli:

 

 Obblighi del marito

1. Amare la moglie, come Cristo la Chiesa.

2. Rispettarla, come sua compagna.

3. Dirigerla, come sua inferiore.

4. Vegliare sovr’essa, come suo custode.

5. Mantenerla con decenza.

6. Soffrirla con pazienza.

7. Aiutarla con carità.

8. Correggerla con amorevolezza.

9. Esortarla al bene colle parole, e precederla coll’esempio.

 

 Obblighi della moglie

1. Amare il marito.

2. Rispettarlo, come suo capo.

3. Ubbidirlo, come suo superiore.

4. Servirlo, come suo signore.

5. Ammonirlo con gran riverenza.

6. Rispondergli con gran mansuetudine.

7. Tacere quando lo vede alterato.

8. Sopportarne i diffetti con pazienza.

9. Schivar di trattare con altri uomini.

10. Educare cristianamente i figliuoli.

11. Governare economicamente la casa,

12. Essere sottomessa ai suoceri.

13. Umile colle cognate.

14. Discreta con tutti della famiglia.

 

 Notai subito che la lettura di questi consigli lo mettevano immediatamente di buon umore, ma cominciai ad offendermi quando l’allegria si trasformava in grasse risate e soprattutto quando pretendeva scherzosamente che la moglie lo trattasse come un suo superiore usando riverenza e mansuetudine.

Avevo da poco superato i cent’anni e, per il rispetto che si deve portare agli anziani, pretendevo di essere trattato per quello che ero sempre stato, un libro di orazioni, non certo umoristico! Da una persona che speravo intelligente, pretendevo inoltre di essere letto, capito e inserito nel contesto storico-sociale in cui ero stato scritto.

Dopotutto però, cosa volete, era giovane e come tutti a quell’età, pensava di avere la verità in tasca.

Intervenne allora a sua difesa il libro Eutanasie di un Patriarcjât, (Eutanasia di un Patriarcato) (33) scritto da un prete di Venzone, Antonio Bellina che in molti mi avevano raccomandato di tenere alla larga.

Mi apostrofò dicendomi che il nostro proprietario aveva ragione a farsi due risate e continuò così:

«E’ troppo comodo chiedere ora di astenersi dal giudicare, portando a scusante che non si può usare il metro di oggi per giudicare il passato. Se la verità deve seguire i tempi, chi mi dice che fra qualche anno verranno accettate cose che oggi sono proibite?

E allora perché debbo obbedire ora a cose che domani non so quale valutazione avranno?

Se cento anni fa tanti mariti pestavano le mogli significa forse che le botte allora facevano meno male di adesso? Se tanti facevano così vuol dire solamente che la cosa è ancor più scandalosa e non che va vista con gli occhi del tempo.

Questo modo di ragionare caro amico sai a dove porta? Al Relativismo».

 E continuò:

«La verità è che siamo tutti uomini, e nessuno ha il diritto di far passare per volontà di Dio le sue scelte o le sue decisioni.

Chi vuol sentenziare, sempre e su tutto, o mettere il timbro di Dio sulle sciocchezze umane, deve mettere in conto che prima opoi sarà inevitabilmente costretto a chiedere scusa ...».(27) (35)

A queste parole rimasi perplesso, alcune mie certezze cominciarono a vacillare, ci pensai a lungo, rimuginai quelle strane idee e conclusi che forse, non aveva tutti i torti.

Pensai di riparlarne con calma, più avanti, ma di nuovo mi raccomandarono  «stai attento, mi raccomando quello… va preso a piccole dosi, o rischi di essere messo all’indice».

Gli anni passarono tranquilli finchè un giorno, accadde un fatto che avrebbe rivoluzionato e sconvolto la mia esistenza, un fatto imprevedibile e come succede spesso, del tutto casuale.

 

10) La scoperta

La moglie del mio proprietario, una sera, mentre mi sfogliava e leggeva un po’ qua e un po’ là, si accorse che sul retro della copertina c’erano delle scritte a matita. Cominciò a leggere ad alta voce, lentamente.

“Oggi 1mo dell’anno 1900 sfida i rigori più tensi del freddo in una lugubre e lorda baracca Giordani Luigi in conpagnia di altri 13 Friulani stando sempre allegri in aspettativa di un avenire prospero e lucroso. Stà quindi à Dio il affretarcelo quale noi tutti gli rendiamo unito i ringraziamenti, anche il quore. Massavoja - Siberia”.

Non poteva credere ai suoi occhi e chiamò subito suo marito par fagli vedere quella incredibile scoperta. Entrambi avevano letto da poco il bellissimo romanzo di Carlo Sgorlon La conchiglia di Anataj (19) che raccontava le vicende di un gruppo di friulani  impegnati nella costruzione della Transiberiana. Fu per questo che quella scritta destò in loro una gran curiosità ed il desiderio di approfondire la mia storia.

Ora sì che mi guardavano con occhi diversi, mi giravano e rigiravano tra le mani come se volessero scoprire tutti i segreti e tutte le storie che avevo vissuto.

Celso parlò subito della scoperta con l’amico Egidio Tessaro che mi chiese in prestito, per fotografarmi.

Fui ospite di Egidio che abitava in una casa nell’Androne di Miòt (Vicolo di Miòt) dove rimasi finchè arrivò una giornata grigia, dalla luce omogenea, quel giorno decise di passare all’azione. Tanti piccoli particolari mi fecero subito capire che mi trovavo nelle mani di uno che sapeva il fatto suo.

Da parte mia cercai di assecondarlo nelle pose, cercando di offrirgli sempre il mio lato migliore, intuivo che tutte le sue attenzioni erano il preludio a qualcosa di importante.

In tanti anni nel vicolo erano cambiate molte cose, capii che l’abitazione di Egidio era posta proprio di fronte alla casa che mi aveva ospitato nei miei primi anni di vita. Guardando dalla finestra, inutilmente cercavo di scorgere gli affreschi ai muri che l’avevano resa così particolare e conosciuta.

Ci rimasi male quando alcuni colleghi della libreria di Egidio mi informarono che tutto era andato perduto: da alcuni decenni, la casa era stata venduta e ristrutturata, l’unica cosa che ricordava il passato era la Madone de uve (Madonna dell’uva) posta di fronte all’ingresso del vicolo. Creata prima della mia nascita, tuttora rimane al suo posto, assieme a quella di Avilla, a testimoniare alle future generazioni le doti artistiche e la fede del mio primo proprietario Vincenzo Giordani, el mago Bide.

La libreria di Egidio, oltre a migliaia di foto, conteneva decine e decine di spartiti musicali di Opere, Messe cantate e Villotte che suo padre Elio, aveva studiato e suonato con l’organo in Duomo o accompagnando la Corale di Buja. Ora che si era gravemente ammalato e non poteva consultarli si sentivano inutili così, sapendomi di passaggio, la sera si consolavano solfeggiandomi le loro note.

Venne il giorno che a malincuore dovetti lasciare questi nuovi amici, era il 1985 e le cose stavano cambiando: ero osservato, ammirato da tante persone, insomma ero diventato qualcuno.

Qualche mese più avanti ebbi l’onore di fare il giro del Friuli con una foto di Egidio pubblicata sulla Vita Cattolica il 22 febbraio 1985, in seguito la mia immagine venne stampata a Buja sul Bollettino Parrocchiale: era la Pasqua del 1986.

Sempre nello stesso anno, precisamente ad ottobre, ebbi l’onore, per la prima volta, di essere citato e vedermi stampato nel libro dal titolo: Cent’anni di lavoro friulano in Russia di Alessandro Ivanov. (36)

Negli anni che seguirono successe quello che mi aspettavo da tanto tempo; nel 1989 con il crollo del muro di Berlino, iniziò lo sgretolamento, per implosione, di uno Stato e di un regime che aveva tanto amato i diseredati al punto di riuscire a crearne a migliaia in tutto il mondo. Una delle poche cose dove sicuramente aveva ottenuto un largo successo era purtroppo la condivisione della miseria: vi prego di perdonare questo sfogo, ma… io li ho conosciuti...!

Egidio aveva informato Livia Giordani, che porta lo stesso cognome di Luigi, della scoperta e lei iniziò le ricerche su questo lontanissimo parente coinvolgendo anche il fratello Adriano che abitava a Roma.

Attraverso un fortunato incontro con una nobildonna friulana, Livia ottenne una copia del libro di cui vi ho già parlato, Autocrazia, Libertà e Bolscevismo (20) edito nel 1920 ormai introvabile e dimenticato, venne inoltre informata che tutti gli incartamenti della contessa erano stati donati all’Archivio di Stato di Roma.

Dall’archivio del Tribunale di Tolmezzo, che conserva copia dei registri comunali anche riguardanti gli atti di morte e loro allegati, Livia riportò alla luce la lettera inviata dal comandante della nave Texas Maru attestante la morte di Luigi durante la traversata dell’Oceano Indiano.

La comunicazione del decesso di Luigi Giordani era stata trascritta nell’anno 1920 da Celestino Miani, ufficiale dello Stato Civile che inserì anche la copia autentica dell’atto di morte, ricevuta dal Comandante del piroscafo Texas Maru, nel volume degli allegati.

Adriano invece iniziò le sue ricerche prima all’Archivio di Stato di Roma, e poi passò a rovistare nell’Archivio del Ministero degli Esteri. Dopo aver perso diversi giorni a consultare una enorme quantità di cartelle e faldoni, riuscì a riportare alla luce alcuni scritti, riguardanti i nostri emigranti in Siberia in quel periodo, da alcune raccolte di rapporti editi dal Ministero degli Affari Esteri nel 1906, dal titolo Emigrazione e Colonie e Bollettino dell’Emigrazione. (37) (38)

Nel frattempo una copia della Vita Cattolica con la mia foto, giungeva in Francia, ad un abbonato di nome Romano Rodaro abitante a Cormeilles en Parisis, nei sobborghi di Parigi, francese di nascita, ma con i genitori friulani.

Romano, vista la mia foto e letta la didascalia, capì di essere un parente acquisito, anche se alla lontana, di Luigi Giordani ed un giorno, dopo essersi informato riguardo la provenienza della foto, venne a Buja e si recò in canonica chiedendo informazioni a monsignor Bressani che lo indirizzò a dovere.

Fu così che Egidio vide entrare un giorno nel suo studio questo signore che, dopo essersi presentato gli chiese se avesse notizie riguardo la foto pubblicata, e da quel momento incominciarono anche le sue ricerche. Voleva, fra le tante cose, conoscere dove si trovasse Massavoja in Siberia, il luogo citato sulla mia copertina.

La ricerca lo portò in diverse biblioteche e archivi, in Italia, a Parigi, persino ai Loyds di Londra, dove consultò vecchie carte geografiche. Sfogliò tutti i libri che gli passavano per mano che riguardassero la costruzione della ferrovia Transiberiana, recandosi persino all’Ambasciata Sovietica a Parigi.

 

11) Paris, la ville lumière

Nel 1999 una indimenticabile sera, anche io conobbi il signor Romano Rodaro che, arrivato a casa del mio proprietario, lo informò della sua decisione di recarsi in Siberia.

Celso si alzò e raggiunta la libreria mi prese in mano, si avvicinò a Romano e porgendomi a lui gli disse: «Se vai in Russia devi portarlo con te, deve assolutamente ritornare nei luoghi dove è stato cento anni fa».

A quelle parole sussultai, e qualcosa mi fece saltare il cuore in gola; erano decenni che non provavo un’emozione così forte.

Romano mi prese in mano come fossi una reliquia e rifiutò, cominciò a dire che non se la sentiva di prendersi quella responsabilità, esitava insomma, ed io stavo correndo il pericolo di perdere quell’occasione unica e rimanere a casa. Fortunatamente il mio proprietario insistette, ricordandogli che in fondo ero solo un libro, non una reliquia! Io a dire il vero mi ritenevo qualcosa di più importante, o almeno non solo un semplice libro, ma visto il rischio che correvo, decisi di non dare molta importanza al commento.

Romano ripartì portandomi con sè alcuni giorni dopo, ma non per la Siberia: la destinazione per ora era Parigi, ouì monsieurs, proprio Paris, la ville lumière.

Che giornata memorabile: non solo avevo capito che andavo in Francia, ma stavo viaggiando, per la prima volta, dopo averne sentito tanto parlare, in auto! Io che avevo viaggiato sinora solo su un lentissimo treno sbuffante, su una nave, e sul cavallo di San Francesco...

Romano era prudentissimo, oltre che molto apprensivo nei miei riguardi: durante le sue fermate prima di scendere dall’auto controllava che fossi ben nascosto e al momento di ripartire si assicurava della mia presenza: mi trattava come un gioiellino.

Bel paese la Francia, peccato che ai miei occhi avesse quel piccolo neo di essere stata la patria dell’Illuminismo e della Rivoluzione, anche se, a dire il vero, dovevo riconoscere che dalla mia sponda troppe volte si era sentenziato e condannato in nome dell’Unico che  poteva condannare e invece perdona. Tante, troppe volte si era guardato con negatività e sospetto a tante conquiste dell’uomo per poi accettarle tranquillamente, dopo che avevano vinto.

Con Romano mi sentivo me stesso, non più urla di bambini, ma pace e silenzio. Non passava giorno senza che fossi preso fra le sue grandi mani, e finalmente dopo molti decenni venivo di nuovo usato per quello che ero: un libro di preghiere.

Ero così felice che per non deconcentrarlo, quando girava le pagine, cercavo di fare meno rumore possibile.

E venne il giorno della partenza per la Siberia.

Potete immaginare quello che mi passava per la mente al pensiero di rivedere i luoghi dove avevo passato oltre vent’anni della mia gioventù?

Cominciarono poco dopo a giungermi alle orecchie parole che non avevo mai sentito: Avion, Aèroport Charles De Gaulle.

Incominciai a preoccuparmi quando vidi Romano portarmi su una specie di siluro, non capivo cosa stesse succedendo, quando poi una voce intimò:

«Allacciare le cinture di sicurezza» avevo il cuore in gola.

Compresi ad un tratto di trovarmi su di un aereoplano, “quelle cose che volano come gli uccelli”, così mi avevano riferito tanti anni prima.

Provai un po’ di paura alla partenza, qualcosa mi arrivò addosso, ma in breve mi rilassai, l’aereo prese quota e un poco per volta vidi la pianura sottostante che si allontanava per far posto ad un cielo azzurro. Poco dopo, dall’oblò vidi delinearsi montagne su montagne di bellissime nuvole bianche: ero in cielo. Improvvisamente mi sorse un dubbio atroce.

Che si trattasse dello stesso Cielo di cui si accennava in quasi tutte le mie pagine?

Che gli uomini avessero trovato il modo di raggiungerlo così facilmente, senza pagare dazio?

Che fossi diventato improvvisamente vecchio e scemo fino al punto di non essermene mai accorto?

Mi imposi la calma, riflettendo mi convinsi che la cosa non era verosimile. Ad esempio mancava il coro degli angeli che il Paradiso deve sicuramente avere.

Mi addormentai a poco a poco, con la testa fra le nuvole, in ogni senso.

La solita vocina mi risvegliò da un bellissimo sogno, raccomandava di allacciare le cinture di sicurezza e di prepararsi per l’atterraggio, ma non capivo. Questa volta fui io ad andare addosso agli altri.

A Mosca ci fermammo il tempo necessario per l’acquisto del biglietto ferroviario che ci avrebbe portato ad Irkutsk.

 

12) Di nuovo in Siberia

Come erano cambiate le cose! Mi ritornò in mente il viaggio di 100 anni prima come se lo avessi appena fatto. I ricordi mi assalirono all’improvviso e mi provocarono una emozione incredibile.

Viaggiavamo su un treno sufficientemente confortevole. Il tragitto Mosca – Vladivostock era diventato meta ambita di turisti in cerca di emozioni insolite.

A bordo si poteva trovare tutto l’indispensabile per il viaggio a cominciare da una fornita carrozza ristorante. Quando il treno arrivava in prossimità di qualche città si potevano scorgere dal finestrino molti capannoni industriali fatiscenti, dove la ruggine sembrava aver preso il sopravvento su tutto.

L’impressione che ricevevo del paese era di abbandono. Ogni tanto passavano tra gli scompartimenti, quasi a interrompere la monotonia del paesaggio, delle venditrici ambulanti con scialli e mercanzie tra le più disparate.

Dopo quattro giorni e mezzo di viaggio eravamo giunti a destinazione.

Le ricerche di Romano furono difficili. Ciò era dovuto al sommarsi di circostanze, che io conoscevo solo in parte.

Innanzitutto Luigi aveva scritto a suo modo il nome della località, scrivendo Massovoja invece di Missowaja, A questo si era aggiunto poi il fatto che la città su ordine di Stalin, nel 1941 aveva cambiato nome. Le era stato imposto il nome di Babuskin in ricordo di un compagno di Lenin, che con lui aveva fondato il giornale Iskra. Nel 1910 il compagno era stato preso e fucilato proprio a Missowaja, un monumento ricorda tuttora il luogo esatto dell’esecuzione.

La città era il punto di arrivo e di partenza del rompighiaccio che trasportava 24 vagoni ferroviari che dovevano attraversare il Bajkal (75 Km) prima della costruzione della Transbajkalika.

Il rompighiaccio, entrato in funzione nell’aprile 1900, era giunto dall’Inghilterra, smontato a pezzi e rimontato sul posto sotto la guida di maestranze inglesi.

Ci raccontarono che nel 1904, in periodo di guerra, il ghiaccio sul Bajkal era così spesso che neppure il rompighiaccio riusciva a muoversi. Si stesero allora i binari sulla lastra ghiacciata e, dopo aver separato i vagoni, si usarono dei cavalli per il traino sull’altra sponda.

Babuskin, posta sul lato est del Bajkal, fa parte dalla Repubblica dei Buriati che si estende a nord della Mongolia, sulle rive del lago Bajkal, con capitale Ulan Ude. Il suo territorio comprende le zone desertiche della parte orientale, nella provincia di Cita; le montagne Barguzin e i territori boscosi sulle sponde del lago Bajkal, dove si trova la sacra isola di Olchon. Ai buriati di fede buddista si sono mescolati, nel tempo le etnie slave. La loro lingua, che è di origine Mongola, era solo parlata, non aveva caratteri alfabetici, fu Stalin a imporre negli anni Trenta i caratteri dell’alfabeto cirillico.

Arrivammo a Babuskin nel cuore della notte; Romano preferì attendere l’alba in stazione. A tenergli compagnia, per così dire, furono una decina di allegri Buriati leggermente presi dall’alcol.

Alle prime luci dell’alba per prima cosa cercò un hotel. Dopo aver visto la stanza e stabilito il prezzo, chiese dove fosse la toilette e, con grande sorpresa, si vide ecologicamente mostrare con la mano, prima l’orto, poi la pala!

Io, tra me e me, pensai sorridendo che le cose lassù erano sì cambiate, ma fino ad un certo punto!

Non conoscendo la lingua russa, Romano aveva preventivamente fatto registrare su di una cassetta le motivazioni del suo viaggio, cosa che si rivelò utilissima quando, poco dopo, entrò nel piccolo museo cittadino.

Dopo aver ascoltato la registrazione, l’impiegata tutta eccitata non ci pensò due volte; chiuse a chiave i locali, prese Romano saldamente a braccetto - voleva evitargli l’ennesima scivolata sul ghiaccio della giornata - e lo portò prima dal Sindaco, poi dal direttore scolastico ed infine dalla fondatrice del Museo.

Come d’incanto si erano aperte tutte le porte, tutti ci guardavano con curiosità e rispetto.

Con grande stupore quel giorno venni a conoscenza che oggi la Transiberiana ha cambiato itinerario, il tratto di ferrovia che i Russi ancora oggi ricordano come il tratto Italiano è diventato Museo Nazionale di Architettura, l’Unesco pare abbia intenzionedi farlo diventare Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Un trenino porta i turisti ad ammirare l’opera realizzata con pochi mezzi, ma tanta competenza e buona volontà.

Pare che, quando nel 1953 ad Irkutsk venne costruita la diga sull’Angara, per un errore di calcolo, tratti della ferrovia finirono sommersi dalle acque del lago Baikal che salì di oltre un metro.

Io nel frattempo ero diventato oggetto di culto, non facevo altro che passare di mano in mano, avevo ripreso anche un po’ di dimestichezza con la lingua locale, e sentivo una signora dare spiegazioni a chiunque mi sfogliasse. Gongolavo.

Il giorno seguente Romano venne strappato a forza dall’Hotel (Gastinitsa); alcune persone che aveva conosciuto vollero ospitarlo e così per alcuni giorni ebbi il piacere di riannusare gli odori dei cibi locali, fatti in casa, che avevo ormai dimenticato, ed apprezzare l’ospitalità russa rimasta inalterata nel tempo.

Prima di partire salutammo il sindaco di Babuskin che ci fece solennemente promettere che saremmo ritornati. Al Museo Cittadino di Irkutsk inoltre, vollero fotografarmi e quindi esporre le foto in una bacheca.

Durante la nostra permanenza in quei luoghi ero rimasto stupito dai pochi uomini che si vedevano in circolazione. Il fatto è che molti, oggi come allora, eccedono con l’alcol diventato una piaga sociale. Una diversa morale rende la famiglia molto instabile, sono frequenti separazioni o divorzi. Si nota subito poi, che tanti lavori sono svolti dalle donne che, volenti o nolenti, debbono sobbarcarsi lavoro e mantenimento dei figli. Inoltre c’è molta disoccupazione con tutto ciò che ne consegue.

E’ meglio che questo fatto comunque non lo ricordi al mio attuale proprietario che, avendo tante donne in famiglia, potrebbe essere tentato dall’imitare questo modo di vivere dei saggi uomini siberiani.

Notammo che lassù le strade non erano asfaltate. Ciò è probabilmente dovuto al rigore dell’inverno siberiano poichè il ghiaccio sbriciolerebbe ben presto l’asfalto.

In quasi tutti i paesini che visitammo c’era una chiesa con la cupola dorata, eccetto a Missowaja, dove fu fatta saltare in aria per vendicare la morte di Babuskin.

Cercavo inutilmente, mentre circolavo per il paese, di ricordare qualche casa o angolo di strada. Dopo tanti anni ritrovare qualche edificio che fosse riuscito a sfidare i tempi, quando la gran parte del materiale di costruzione è il legno, era cosa purtroppo impossibile.

Una domenica, sottobraccio a Romano entrai in una chiesa. Prima di ripartire voleva accendere una candela per Luigi. Dopo che ebbe fatto il segno della croce, un gruppo di anziane signore che si trovavano a pregare gli si avvicinarono. Forse avevano notato che il segno della croce lo aveva fatto in modo diverso dal loro, forse era solo la curiosità nel vedere uno straniero a quelle latitudini.

Dopo essersi avvicinate, cominciarono a rivolgergli tante domande, facendogli poi ala all’uscita della Chiesa, tanto che Romano quando racconta il fatto, gonfiando il petto e sorridendo, dice che si sentì proprio come un Profeta.

Ebbi modo, in questo viaggio, di conoscere anche Albina Rugo e la già citata scrittrice Elvira Kamenschikova, una delle poche persone che hanno mantenuto e coltivato la memoria storica di fatti ed avvenimenti locali legati agli Italiani che lavorarono alla costruzione della ferrovia.

Elvira ha inoltre dedicato un libro (non ancora tradotto) al bujese Giovanni Minisini (1887-1956), emigrante pressoché sconosciuto a voi bujesi, suoi compaesani, ma diventato il più famoso fotografo di Irkutsk negli anni che hanno preceduto lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Come tutte le cose belle, quelle giornate passarono in fretta, molto diversamente dal modo incredibile di tanti decenni prima.

(39) (40)

 

13) Conclusione

In poche ore un altro aereo mi riportò a Parigi e qualche tempo dopo rientrai a Buja.

La prof. Gemma Minisini Monassi, che mi conosce ed apprezza da anni e custodisce con cura nella sua libreria un mio fratello, raccolse allora tutta la documentazione e le testimonianze esistenti riguardo a Luigi Giordani scrivendo un bellissimo articolo dal titolo ... in aspettativa di un avenire prospero e lucroso... Massavoja – Siberia (41) e che di riflesso mi diede notorietà.

In Siberia ci sono ritornato anche alcuni anni dopo, nel 2004, sempre sottobraccio a Romano che è diventato ormai il mio tutore.

Tanta acqua è passata sotto i ponti e così anche il mio attuale proprietario è cambiato e, guardacaso a cambiarlo è stato un viaggio in India, nel 1996. Come San Tommaso, ha forse finalmente capito che cos’è il Cristianesimo, ma solo dopo averlo visto operare nelle varie Comunità Cristiane sparse nell’India, in particolare a Calcutta, dove ha potuto personalmente verificare l’opera svolta a favore dei più diseredati da una congregazione religiosa e conoscere colei che l’ha fondata, una suora di nome Teresa.

Qualche tempo dopo, in occasione di una sua visita, ebbi modo di ascoltare un colloquio fra Redento, suo compagno di viaggio, ed il mio attuale  proprietario e di comprendere così la ragione di questo cambiamento. Era stato lui a insistere perchè il suo amico facesse quel viaggio in India, che a suo parere avrebbe cambiato le sue idee in fatto di religione. E così avvenne.

Ma anche questa è un’altra storia, fra l’altro già scritta. (42)

E’ stato allora che ho pensato e mi è venuto il forte sospetto che qui da noi si faccia tanta, forse troppa teoria.

Il mio attuale proprietario ora, mi guarda con altri occhi, certo continua a pensare “Bei tempi” e a farsi una risatina rileggendo gli Obblighi della moglie, ma presta attenzione e rispetto a quello che è scritto nelle pagine seguenti e che, questo sì, dovrebbe essere validissimo anche ai nostri giorni.

 

 Obblighi del negoziante

1. Contentarsi di un guadagno moderato

2. Dare a tutti il giusto in peso e misura

3. Non adulterare le merci

4. Manifestare i difetti occulti

5. Non fare incetta di alcun genere, perchè ne venga carestia

6. Non profittare delle necessità o ignoranza di chi vende o di chi compra

7. Non esigere più del valore della roba pel solo doverne aspettare il pagamento

8. Astenersi da ogni sorta di frode o inganno

9. Essere benigno con i poveri

 

 Obblighi del ricco

1. Ringraziar Dio delle ricchezze

2. Non porre in esse la propria confidenza

3. Non accrescerle con usure

4. Non conservarle con ingiustizia

5. Pagare i debiti e le mercedi con prontezza

6. Essere limosiniero con i poveri e colle Chiese

7. Pensare spesso che i più dei ricchi si dannano pel mal uso delle ricchezze.

 

Ora mi trovo in una comoda libreria in compagnia di qualche migliaio di colleghi con cui dialogo e passo il tempo.

Ultimamente chiedo loro lumi riguardo le problematiche religiose della società attuale. Non riesco infatti a comprendere come mai in passato la gente, benchè povera, diseredata e costretta a peregrinare per il mondo in cerca di pane e fortuna, sentisse il bisogno di pregare e di ringraziare il cielo per quel poco che aveva, mentre oggi nella società opulenta del benessere, Dio è diventato un problema che è meglio non porsi. Anzi, noto con sconforto che in molti lo hanno sostituito con un altro dio molto più venale e terreno, che in questi ultimi mesi, a dire il vero, si è molto svalutato.

Sono stato informato che in chiesa ad ascoltare parole di pace e fratellanza, ci vanno ormai in pochi. I giovani sembrano aver rotto in massa i rapporti con Dio, preferiscono seguire  richiami meno impegnativi, che forse danno loro l’impressione sentirsi più liberi, leggeri...  vuoti, mentre altri rincorrono inferni di disperazione e per non citarli con il loro vero nome, li chiamano paradisi artificiali.

So che avete importato Halloween e fate il possibile per rimuovere i segni che richiamano alle vostre radici cristiane. Non vorrei trovarmi al vostro posto quando il Padreterno vi chiederà conto di come avete usato la materia grigia di cui vi aveva dotati e magari sarete costretti a rispondere che avete preferito zucche vuote al Crocifisso.

Mi dicono poi, che l’attuale monsignore, Emidio Goi, ricordando le Chiese stracolme di fedeli nelle Messe domenicali della sua gioventù sacerdotale, a volte si lasci prendere dallo sconforto e così faccia la predica ai presenti, per i banchi vuoti lasciati dagli assenti.

Certe sere, quando mi prende un po’ di malinconia, mi piace addormentarmi ascoltando i versi del più insigne poeta che la terra friulana abbia mai generato, Domenico Zannier, nessuno con i suoi versi ha lodato e cantato il Creato come lui.

Altre volte, specialmente d’estate, invece godo nel parlare di lunghi viaggi con i libri di Tiziano Terzani di cui apprezzo la penna, ma soprattutto la grande onestà intellettuale.

Inutile dire che il mio preferito è Buonanotte Signor Lenin. (43)

Ultimamente mi è stato detto che sono stato citato in qualche sito internet che, a dire il vero, io non so neppure cosa sia! La mia presenza inoltre è stata richiesta a Roma, dove oggi mi trovo in occasione della mostra al Complesso del Vittoriano, dal Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana; pensate che pur di avere la mia presenza mi hanno persino assicurato...!

Io però ho chiesto al mio proprietario di limitare la mia presenza a non più di sei-otto mesi, ho saputo infatti che Romano intende, entro breve tempo, ritornare in Siberia ed io non voglio mancare!

Nonostante mi trovi così lontano da casa, ho avuto il piacere di essere stato riconosciuto da una bujese in visita al museo, che non ha mancato di portare i miei saluti a casa. Domenica 3 gennaio 2010 durante la pennichella pomeridiana, con grande sorpresa sono stato svegliato dal potente flash di una macchina fotografica: era Egidio che, in compagnia del mio proprietario, immortalava la bacheca in cui sono stato esposto. Forse la mia assenza comincia a farsi sentire...

Ho finito, questa è la mia storia. Chissà se sono riuscito a trasmettervi tutte le emozioni, le sensazioni ed esperienze che ho vissuto in questa mia odissea, io ci spero tanto.

A proposito, mi toccherà anche ringraziare il mio ultimo proprietario, dopotutto è merito suo se ho potuto dare voce a quello che mi portavo dentro da tanto tempo e sono finalmente riuscito a dire…

Questa volta parlo io.

 

 

Bibliografia

 

Capitolo 1 – La nascita

1) Pietro Menis, “Andrea Casasola Arcivescovo di Udine”, Arti Grafiche Friulane, 1958

2) Carlo Rinaldi “Chiesa e Risorgimento in Friuli nel dissenso del Vogric”, La Nuova Base, 1971

3)  Maria Forte, “Il Bide di Miot”, Sot la Nape N°1-2, 1969

4) Archivio Comune di Buja – 1866 – colto III, Fascicolo 7

5) Emanuela Pessina, “Il mago Bide all’Università”, Buje Pore Nuje N°2, 1983

6) Pieri Pičul, “Storie dal popul Furlan” ,Luigi Chiandetti, 1974

7) Pre Checo Placereani, “Cuintri storie dal Friul”, La Grame edizions, 2005

8) Roberto Tirelli, “I Cristiani -Storia della Chiesa in Friuli”, Biblioteca dell’immagine, 2006

9) Gianfranco Ellero, “Storia dei Friulani”, Arti Grafiche Friulane, 1987

10) Gianfranco Ellero, “Buja Terra e Popolo”, Arti Grafiche Friulane, 1984

11) Pietro Menis, “El Mago di Buje”, Ce Fastu N° 9-10, 1927

Capitolo 2 -Luigi Giordani

12) Lodovico Usella,”Genealogia Giordani Miot Bide”, CD “Buje - Nô i sin ce che i lassìn”, 2006

13) Pietro Menis, “Friuli Migrante”, Arti Grafiche Friulane, 1954

Capitolo 3 – In Siberia

14) Luigi Fedeli, “1905-1920 Torrebelvicino Canada (via Siberia)”, Edizioni Menin, 2001

15) Laura Nicoloso, “Int di Madone e le Transiberiane”, Buje Pore Nuje! N° 22, 2000

16) G. Colledani, “Da Clauzetto a Vladivostock”, Il Barbacian, 1984

17) Antonio Faleschini, “In Siberie”, Il Strolic Furlan pal 1971,

18) Lodovico Zanini, “Friuli migrante”, Arti Grafiche Friulane, 1992

19) Carlo Sgorlon, “La conchiglia di Anataj”, Arnoldo Mondadori Editore, 1983

Capitolo 4 – La Rivoluzione Russa

20) Rina di Brazzà Savorgnan Cergneu, “Autocrazia, Libertà e Bolscevismo”, Stab. Tip.G. Tabacco di S. Daniele, 1920

21) Elvira Kamenshchikova “La famiglia Rugo.- Un dramma lungo un secolo” articolo tratto dal libro “Gli italiani sulle rive del Bajkal”(BPN2009)

Capitolo 5 – Il ritorno

22)

www.trentinocultura.net/doc/radici/storia/grande_guerra/Battaglioni_neri_h.asp

23) Renzo Francescotti, “I Battaglioni Neri in Siberia”,

www.trentinocultura.net/doc/radici/storia/grande_guerra/battaglioni_neri_h.asp

24) A cura di Camillo Medeot “Friulani in Russia e in Siberia”, Benno Pelican, 1978

25) I Diavoli Neri – Arditi Italiani in Siberia”, La Stampa, 4 marzo 2005

26) Giuseppe Marchese,”Il Corpo di Spedizione Italiano in Estremo Oriente”

www.giuseppemarchese.it/articoli/art_74/art74.html

Capitolo 6 – La Seconda Guerra Mondiale

27) Antoni Beline, “El timp des domandis”, Graficastyle, 2001

28) Angelo Del Boca, “Italiani brava gente”, Neri Pozza, 2005 

29) Tobia Venturini “Biuti” Società Grafica Friulana, 2005

30) Gaston Bouthout, “Le Guerre”, Longanesi & C., 1951

Capitolo 7 – Rimettete quella lapide al suo posto

31) Antoni Beline , “Misteri Gloriôs”, Litoimmagine, 2005

32) Indro Montanelli “Storia d’Italia”, Vol.1,  Rizzoli, 1979

Capitolo 8 – L’Apocalisse del ’76

33) Laura Nicoloso ed Egidio Tessaro, “Letaris dal front rus”, Buje Pore Nuje! N°10,  1991

Capitolo 9 – L’ultimo proprietario

34) Bertrand Russell, “Perchè non sono Cristiano”, Longanesi, 1960

35) Antoni Beline, “Eutanasie di un Patriarcjât”, Graficastyle, 2001

Capitolo 10 – La scoperta

36) Alessandro Ivanov , “Cent’anni di lavoro friulano in Russia”, Grafiche Fulvio, 1986

37) Ministero degli Affari Esteri, “Emigrazione e Colonie”, raccolta di rapporti Vol.2, 1906

38) Ministero degli Affari Esteri, “Bollettino dell’Emigrazione”, 1906

Capitolo 12 – Di nuovo in Siberia

39) Romano Rodaro, “In siberie su les olmes di Vigj Miot”, Buje Pore Nuje! N° 22, 2000

40) Romano Rodaro, “Simpri su les olmes di Luigi Giordani”, Buje Pore Nuje!, N° 24, 2005

Capitolo 13 – Conclusione

41) Gemma Minisini Monassi, “... in aspettativa di un avenire prospero e lucroso... Massavoja Siberia”, Buje Pore Nuje! N° 19, 2000

42) Gallina Celso “Diario di un viaggio in India”, stampât bessôl, 1997

43) Tiziano Terzani, “Buonanotte Signor Lenin”, Longanesi, 1992

 

Un ringraziamento particolare a Egidio Tessaro, Livia e Adriano Giordani, Umberto Aita, Romano Rodaro, Claudia Papinutto, Deborah Crapiz, Gemma Minisini Monassi, Paolo Lenarda, Mirella Comino, don Domenico Zannier e padre Emidio Papinutti per le testimonianze, i suggerimenti e la grande pazienza portata.