SOT LA NAPE 1973 -  1-2

Tre «bùfulis» raccolte a Buia

di Pietro Menis

 

 

Di sigûr tes famèes di Buje 'e son inmò riserves di fotografies, ch'e vignaran in lûs un pôc a la volte. Cumò, intani, j ài cjatât une miniere là di Neva Eustacchio (n. 1922) che sta a Dartigne, ma 'e jere di Solaris.

J presenti chì dome pôs esemplarsi chei che miôr 'e mostrin le vite di une volte. Al è significatîf che, tal album di Neva, unevorone di tocs 'e stan a testemoneâ, al solit la diaspora de emigrassiòn. E alore, daûr dai cartoncìns, si lei:

 

Un tempo non lontano dal nostro, quando, si può dire a ricordo d'uomo, nelle modeste case dei paesi di campagna, anche in quello dei più agiati, non si avevano stanze di soggiorno, un tinello o comunque un angolo appartato. Nelle capaci cucine, col solenne focolare, arredate con pochi rustici mobili, quelli strettamente necessari a custodire le provviste, si svolgeva la vita di ogni giorno; lì si mangiava, si pregava insieme dopo cena, ci si raccoglieva in determinate circostanze, si ricevevano gli ospiti, i fidanzati si bisbigliavano parole d'amore...

Ma nei pomeriggi piovosi e nelle lunghe serate invernali era la stalla che sostituiva la cucina, dove si accudiva altresì ai lavori domestici. Nel tepore umidiccio del fiato dei ruminanti si passavano lunghe ore attendendo alle attività più disparate; le donne filavano con la rocca vistosi ciuffi di lana o di canapa, torcevano con la classica « gorlete » grossi gomitoli di filato, facevano so£fici matasse con l'arcolaio, cucivano o rattoppavano panni, sferruzzavano; gli uomini in disparte, fumando la pipa, attendevano alla "fabbricazione" di scope di saggina o di certe ramaglie, atte soprattutto ad usare nella stalla e nell'aia; preparavano dei manici per gli attrezzi agricoli, tessevano cesti, impagliavano sedie, inchiodavano striscie di cuoio sotto gli zoccoli di legno...

Cento, piccole, ingegnose industrie che giovavano alla povera economia domestica di quei tempi. In certe case dove la stalla offriva più spazio, si radunava anche la gente del vicinato, e allora quelle adunanze assumevano carattere di vere e proprie assemblee. Si dissertava sugli avvenimenti più salienti, si ragionava sulle stagioni e sui lavori campagnoli, si discutevano problemi locali o magari quelli del comune. Spesso fra i presenti si trovava il tipo adatto, per vivacità e intelligenza, che raccontava storie, fiabe o leggende, oscuri drammi, la eui trama spesso variava nel tetnpo, nello spazio, nell'ambiente e, perfino nei personaggi della vicenda...

Alle volte si divertivano a sciorinare intricati indovinelli allo scioglimento dei quali era chiamata tutta l'assemblea. E nella lunga serie


 

ve n'erano di quelli ingenui, attinenti alla vita di ogni giorno come questo:

'E jè une rôbe su dì une brèe ch'e dame dongje dute la famèe,

allusiva alla polenta che raccoglie tutti attorno al suo desco. Non man­cavano quelli sentimentali come

Vado cantando

e torno lacrimando,

che si riferisce al secchio dell'acqua che, appeso alla catena, scende nel pozzo col suo caratteristico tintinnio e risale colmo sgocciolando.

Qualche indovinello era spinto e birichino, ma ci si guardava bene dal dirlo se fra i presenti vi fosse stato "soreâl vert" o, con altra espressione, "sorc zence panôle"', cioè giovani non iniziati ai misteri della vita.

Ve n'erano poi di quelli a doppio senso e di quelli sibillini, di quel­li che mettevano in imbarazzo le donne, come questo:

La pelosa che go davanti me la guardano tutti quanti, carne viva metto dentro oh che gusto che mi sento.

Un indovinello birichino anzichenò, eppur così innocente nella sua soluzione; infatti la "pelosa" non era altro che il manicotto che usavano a quei tempi le signore per ripararsi le mani dal freddo!

Se c'era nel circondario o nel borgo un libro, questo passava di mano in mano e spesso veniva letto ad alta voce in quelle assemblee. I libri che correvano per le mani in quei tempi erano reperibili nelle bancarelle dei mercati mensili che si tenevano nei capoluoghi ed erano affoUatissimi perché trovavi sulla piazza oltre alle merci che oggi si trovano in qualunque botteguccia, si commerciava col bestiame.

I libri che trovavi sulla bancarella si potevano enumerare: I reali di Francia, Pia de' Tolomei, I misteri di Parigi, L'inquisizione di Spa­gna, I briganti celebri d'Italia, I miserabili, il Guerrin meschino e forse qualche altro.

Chi scrive ricorda che a Zegliacco, nel paese natale, un tale che era stato congedato dalle armi aveva portato con sé il poema dell'Orlando furioso, un tomo mai visto da quelle parti. Per tutto un inverno nella stalla della famiglia, affollata, si sono lette quelle pagine.

Non saprei dire però a quanti fossero accessibili quei versi; ma era stato un avvenimento che fece rumore negli annali del villaggio!...

Alle volte, in quei raduni, nei pomeriggi e nelle serate, c'erano anche delle sfide fra i presenti; si metteva alla prova chi sapeva raccontare "la bùfule pui grosse", la panzana più inverosimile e sballata.

A cimentarsi in questa gara erano solitamente, quelli che avevano « girato il mondo », gli emigranti che avevano messo piede oltre l'ombra del proprio campanile e si piccavano di saperla più lunga di chi restava « a casa ».

E non si può dire che mancassero di inventiva questi aedi, come vedremo, e che nelle loro "bùfule" non ci fosse poesia vera, una sensibilità non comune.

Se si mettevano poi a parlare di spiriti e di spiritati, di streghe e stregonerie, di maghi ed indovini, allora quasi tutti sapevano dire qualcosa, ricordare qualche fatto o episodio, ed altri addirittura essere stato protagonista di misteriosa vicenda.

Si indicavano certi posti dove non era prudente passare a certe ore della notte perché si « vedevano brutte cose », si sapevano i luoghi dove si radunavano le streghe per i loro riti, si indicavano le case dove qualche spirito di trapassati era tornato nottetempo a richiedere preghiere e suffragi, si facevano dei nomi di individui che avevano subito vessazioni da forze occulte e maligne, si sapeva in quali paesi uno spirito vagante e molesto era stato "scongiurato" e fatto precipitare agli inferi.

E' stato famoso in tutto il Friuli il prete di Clauzetto che colle sue facoltà "spiritiche" liberava qualunque stregato o comunque posseduto dal demonio.

Una ragazza a Zegliacco, sul fiore degli anni, che cantava la sua felicità spensierata, un giorno, toccata da una mendicante, si trasformò in un essere insensibile, malato e privo di ogni volontà; pallida e triste trascinava i suoi giorni rinchiusa in camera, rifiutando il cibo, ora urlando ed ora piangendo senza apparentemente avere un perché. In poco tempo era ridotta pelle ed ossa. I genitori non sapevano a quale santo votarla, quando qualcuno suggerì loro di salire all'alpestre Clauzetto, portando al prete una camicia che avesse indossata l'ammalata, raccomandando di camminare sempre dritti e di non voltarsi se chiamati...

I due poveretti oppressi da quella sciagura che si era abbattuta sulla loro famiglia partono una mattina al primo albeggiare, naturalmente a piedi; per sentieri e strade campestri raggiungono e attraversano il vasto paese di Buia e cammina, cammina arrivano al Tagliamento. Guadano alcuni bracci del grande fiume e, quello più largo e profondo, lo passarono a bordo di una barca che a quei tempi facevano la spola tra le sponde. Quando erano in mezzo all'acqua l'uomo si sentì chiamare per nome a gran voce, ma non fece caso, non volse la testa e allora echeggiò una gran risata che gli fece agghiacciare il sangue...

Salirono su per l'erta scoscesa che conduce a Clauzetto, sotto il sole che picchiava sulle loro teste, forse pregavano in silenzio. Ma ecco che ancora qualcuno chiama ad alta voce e questa volta anche la donna sente: «Attento a non voltarti», sussurra la poveretta e, proprio in quell'istante sente schioccare una sberla che colpisce in viso il suo uomo.

Mentre il prete faceva i suoi scongiuri a Zegliacco infuriava un temporale con tuoni e lampi; la povera stregata che era in camera assieme alla sorella ed una zia, ad un tratto manda un urlo bestiale e si precipita verso la finestra per buttarsi nel vuoto. Trattenuta per le vesti d'un subito come se si risvegliasse da un incubo, tornò ad essere quella di un tempo: salva!...

Quanti erano, specie fra i più anziani, che non avevano veduto almeno una volta nella loro vita, i fuochi fatui? Quella luce blanda che improvvisa si accendeva in lontananza e in men che si dica si spostava, raso terra, a chilometri di distanza, per poi spegnersi e riaccendersi dal lato opposto dell'orizzonte e scendere saltellando lungo il' corso di un rigagnolo, per i più erano anime in pena benefiche... tranquille!...

A Zegliacco viveva un uomo che raccontava questa avventura. Una sera tardi tornava verso casa da Buia, dove aveva trascorso il pomeriggio festivo, seguendo i sentieri, le capezzagne ed i brevi tratti di strada che allora si era costretti a seguire nella zona per mancanza di strada. Era buio pesto e tutt'intorno regnava un silenzio profondo. Camminava lentamente per non inciampare nel terreno accidentato fiancheggiato di fossati e da siepi. Quando l'uomo discese dal ponticello — due lastroni di pietra retti da una specie di pilone — gettato sul Cormór, una fiammella improvvisamente gli si pose davanti. Se egli camminava anche quella camminava, se egli si fermava anche quella si fermava. Che cosa poteva fare?... Procedette con l'animo sospeso seguendo quel lucore, che dopo tutto era provvidenziale. Arrivato a casa la fiammella sparì e egli, come liberato, salì a precipizio le scale che portavano alla sua cameretta; aveva appena aperta la porta che qualcuno gli diede uno spintone mandandolo ruzzoloni fin sotto il letto...

E poiché il mistero, o comunque le cose che possono sembrare tali per mancanza di cognizioni sufficienti a spiegarle razionalmente, hanno sempre esercitato un fascino malioso nelle menti e nei cuori dei semplici, alle volte nelle riunioni paesane, veniva in argomento il Vèncul, uno spirito bizzarro e mattacchione che si divertiva a fare brutti scherzi ai giovanotti nottambuli.

Un tiro birbone era stato tirato a Santo Sermonico di Buia. Una notte tornava verso casa piuttosto tardi: la luna che volgeva al tramonto spandeva un chiarore latteo che allungava le ombre; il silenzio profondo accresceva il mistero della notte; la gente dormiva quieta nelle case buie.

Camminava in fretta il nostro giovinotto, raccolto nei suoi pensieri, quando un omino si mise a camminare a fianco a lui e, tosto, cominciò a parlargli; di dove veniva, dove andava, perché correva a quel modo... L'interpellato rispondeva a monosillabi, forse seccato dall'insistenza di quell'intruso.

Ma cos'era? Man mano che avanzavano nella notte, lo sconosciuto, si alzava, si alzava in statura, tanto che a un certo momento era divenuto più che un gigante; con la coda dell'occhio vedeva le sue gambe al disotto del ginocchio che si muovevano come due enormi pertiche...

Allora cominciò ad avere paura, ma quello gentile gli porse sotto il naso una grande tabacchiera, invitandolo a prendersi una presa.

—   «Vuoi?!... » — Il malcapitato attinse e fiutò; la polvere gli andò al cervello facendolo starnutire rumorosamente fino a farsi male ai fianchi.

Quando si calmò osò alzare gli occhi e guardare in sù verso il suo interlocutore e tremò. Il gigante posava un piede sul campanile di Mels e l'altro su quello di Monte di Buia. Avrebbe voluto mettersi a correre, fuggire, ma una forza arcana lo obbligava a restare fermo. Ad un tratto sentì una voce cupa che pareva venire dalle stelle:

— « Attento che piove... » — Pioggia, ma se il cielo era così terso che non mostrava un fiocco di nube?... - « Attento... » -E goccioloni cominciarono a cadere su di lui... Fu un istante. Quando sentì che l'acqua che lo investiva era calda capì di che cosa si trattava...

Con uno sforzo riuscì a mettersi sotto una gronda e quando il piovasco finì, finalmente liberato da quell'incubo, corse a casa.

Stava svestendosi in camera sua quando dalla finestra fece cap0olino un testone enorme:

—  «Hai avuto paura eh?!... » -Una risata sgangherata che morì senza eco nella notte e tornò il silenzio...

Con profondo riserbo, quasi un misterioso timore, invece in quelle assemblee si parlava dei sacrilegi, cioè di cose e persone sacre profanate. I casi non erano frequenti, ma quelli che si citavano erano certamente avvenuti e le conseguenze derivate tragiche e tremende, ammonitrici...

- Cera un tale che aveva picchiato il parroco; ebbene da quel giorno il disgraziato non ebbe più pace: dilapidò in bagordi tutto il suo e ridotto alla disperazione arrivò al delitto e così finì col marcire in carcere.          

C'era il nobile signorotto del paese, « anticlericale, mangiapreti » che si oppose con tutti i mezzi alla costruzione della chiesa parrocchiale, che proibì ai suoi dipendenti di aiutare l'opera con mezzi pecuniari e con prestazioni di lavoro, che diffamò il parroco... Ebbene lui morì "malamente" e la sua discendenza dilapidò in poco tempo l'enorme patrimonio che aveva lasciato, riducendosi all'indigenza...

La chiesa invece fatta su con « il sudore e la miseria » dei paesani è là bella... « monumento dei poveri »!...

Racconta Agnul di Gal, Angelo Comoretto, nato nel 1902 (m. 1971) a Sopramonte di Buia che nella sua giovinezza, in comitiva "i soremontins"', cioè i suoi borghigiani, nei pomeriggi piovosi scendevano nella vicina borgatella di Campo sulle sponde del Ledra; laggiù trovavano ospitalità nella grande stalla ospitale di 'Zef Sturbît, Giuseppe Aita, un uomo comprensivo che aveva "navigato" il mondo ed aveva fatto fortuna. Quella modesta fortuna che porta a superare l'indigenza e che appaga sempre la gente semplice che ha conosciuto il peggio.

Difatti rimasto orfano di padre Giuseppe Aita, assieme a una nidiata di fratellini aveva sofferto la fame e il freddo, sopportate le umiliazioni e le fatiche più dure. Si racconta che il lievito per la sua "fortuna" se lo avesse procurato da soldato con la sua intelligenza e col buon volere; era arrivato a fare il furiere della compagnia!...

Quando si era congedato dall'esercito aveva scritto a sua madre che sarebbe arrivato alla Stazione di Gemona. La povera donna che ne aveva « provate di cotte e di crude » andò ad aspettarlo e lui la portò a pranzo in Albergo. Mangiarono bene ed in abbondanza e bevettero fino a fare salire il conto a quattro lire. Quando quella vide a esborsare tale somma si mise a piangere:

— «Spendere tutto quel denaro... » gemeva. Per guadagnare quattro lire lei avrebbe dovuto faticare una settimana « come una sassina ».

In seguito Giuseppe Aita emigrò in America e tornò, dopo anni, col gruzzolo che gli permise di acquistare casa e campi e così vivere felice e pago del suo lavoro nella terra che « era sua »!...

E' stato laggiù in quella grande stalla, luminosa, tiepida e accogliente che Agnul di Gàl ha udito i tre racconti che riportiamo, "lis bufulis", le panzane inverosimili che divertivano l'assemblea contadinesca.

Invece la fiaba di "Giovanin e il cjavalùt" mi è stata raccontata da Rosalia Molinaro, nata nel 1903, che, mi dice era il cavallo di battaglia di sua madre quando raccontava fole, Domenica Tonino, nata nel 1866 e morta nel 1922.

Jo no conti balis — al comenzave Zuan Scarpan — cheste je vere come che je vere la lûs dal soreli... Jo soi stàt a Petershausen, pui insù di Monico, cun chei di Lugan, e un grum di àins e il fat lu ài viodût cui miêi vôi... Il pari dal paron todesc al ere un bocon di omp che j dave sot a San Cristoful di Glemone... tai soi stivâi j stave dentri, comut, un frut di sîs àins... Al puartave simpri il gjlè dai bacans cun quatri filis di patachis d'arint lusint... un mòs di bire lu beveve tun flât e po cu la man al sgotave lis moschetis che al varès rivât a lazzâ còmut dafûr de cope di tant lungjs che lis veve... Al veve une femenute cussi pizule che j varès stât dentri tune sachete de camisole... Quant ch'al tosseve in cjase al distudave il lusôr come s'e fòs jentrâde in cjase une sbufade di boadizze... E' contavin che a Parigj dal setante, al veve infilzât no sai cetainc' francês butanju dopo te Sene come s'e fossin stâz pipinòz di stranc, e lui nancje une ongolade... Ce tainc' àins vèvial?... Nissun lu saveve; in pais, ancje j pui vecjos e' disevin di vêlu viodút simpri cussì, mai cambiât, come il tôr de glesie... Al fumave pui che no il camin dal parvilegjo, tune pipone di porcelane grande come le cogume dal cafè di mê none...

I fornasîrs e' gambiavin qualchi peraule cun lui, ma 'i mui e' stavin une mie lontan, lu clamavin l'arcul... Pieri de Crete ch'a passave di là di almancun vincjecinc àins, al zurave di vêlu cognossût simpri compaign, e al sigurave che al varès passade la etât di Matusalem... Epur un an i fornasîrs no lu àn cjatât pui.

- Dulà îsal po il Jochil?... e' domandavin, e duc e' rispuindevin:

- Nichs mehr... Apfarhen... Nol'ê pui... Al'ê partît...

- 'A ere ore ch'al fòs lât cun Diu!

L'avierte dopo, chei ch'erin lâz vie par prin a gjavâ tiere, une dì, tal zoc e' cjatin il dûr. Le ponte de pale si fermave a colp e ti crazole come se fos stade batude sul marcjepît. Palade daûr palade ti butin vie planchin la tjere e ce ti cjàtino?... Un lastron di clap ben squadrât. Cheste volte, orco boe, e varèssin cjatâz i bez... No disin nuje a dinissun e, intant da l'ore dal misdì, quacjos-quacjos, in tre o quatri e' van-su e fasint ieve cu la ponte de pale, e' rivin a sburtâ innà la pierone... E ce èrial là sot?... Al ere il Jochil vif... cu la barbe lungie fin a l'umbrizon de panse e i cjavêi che j rivavin dapît de schene... I fornasírs ti son scjampâz a gjambis jevadis come se vessin viodût il diàul in persone...

Mi disin ch'al sedi vîf incjmó!...

Cheste volte al comenzà Tin Zùs.

- Sicheduncje, 'o savès di chê grande galarie che je fra l'Italie e la Svuissare, ven a stai che dal Semplòn. Une zornade i minadôrs ch'e stavin lavorant a forâ la montagne, dopo sclopadis lis minis, e' viodin a vignî dal alt un rìul di aghe fûr par une trombe davierte tal sofit de galarie; une buse squasi taronde, lisse come un tombin, dulà ch'al sarès passât benissin un omp cjaminant a din-quatri. Cuissà mai di dulà ch'e vignive chê aghute biele, frescje, che cisicave come s'e cjantàs?... Ce îsal o ce no îsal, une biele dì un di chei minadôrs — and'è simpri di curiôs in chest mont come i pîs de lune — si met a lâsù par chel canàl, seneôs di viodi là ch'al rivave...

Al lave sù a gjat, fasinsi lusôr cu la lanterne...

E dài che ti dài, chi tigninsi pai spirons de crete che parevin màntiis di pueste par judâlu, e tun altri puest tigninsi gobo di tocjâ il nâs par tiere. Ogni tant cu la lanterne al cjalave se chel labirinto al finive, ma la lûs 'e bateve ta murae e ti murive lì a pôs pàs denant di lui...

Nuje di fâ, ma tornâ-indaûr no j lave, e alore sù, simpri sù, cuintri chê aghe ch'e colave jù dibessole. A un cert moment al si ferme e al dà un zigo, ma la vôs 'jê muarte come se al fòs stat sierât tune casse...

- A costo di rivâ su la spize de mont 'o ai di viodi cemût ch'e finìs cheste facende... — Cetantis oris èrino passadis di quant che al veve lassât i compagns jù te galarie?... A voltis j pareve di un moment prin e a voltis j pareve un secul...

E cjamine e cjamine, fin che a un cert moment j à parût di jéssi rivât tal larc; al alze la lanterne e la sô lûs si pierdeve tal nuje, come tune magle nere di ingjustri, e parsôre a pôs metros, une cupule come un tapon... L'agute che fin a lì lu veve compagnât no le sintive pui a cisicâ, ma lajù lontàn, cuissà cetant lontan, si sintive come a plovi, a slavinâ e chel rumôr al veve un rimbonbo profont e sierât che al stupidive.

Si ferme par polsâ e ancje par scoltâ in chel cidinôr neri di tombe.

-      Aho!... - al sberle dopo un moment stratigninsi il flât; alore la sô vôs la sintì ripetude cent voltis, simpri pui lontan, simpri pui in alt sutîl e lamie. - Aho!... - al torne a fâ e in chel si sint come a svuarcarâ tune poze di aghe, cence viodi nuje. Al alze la lanterne e un'altre svuacarade tal scûr j sclipignà fin te muse, j bagnà i vistîs.

- Ise qualchi anime vive cassù?... — al sberle di gnûf e cheste volte j ven la rispueste, che j fâs drezzà i cjavei sul cjâf.

- Craa... craa...

Ce èrial? Cui sà cetainc ains indaûr, un crot, partît cuissà di dulà al ere lât sù, tal scúr, cuintri aghe e ti 'ere rivât tal cûr de montagne, tun gran lât e nol veve cjatade pui la strade di tornâ-jù e lì al ere cressût, an dopo an, forse par sècui, e cumò al pesave pui di dîs quintâi...

Par fortune il minadôr si ere fermât su la bocje de galarie là ch'al comenzave il lât cul chel grant crot, e cussì al à podût tornâ-indaûr se nò, pensàit, chel zavòt lu varès mangjât tune bocjade cence nacuàrgisi...

La mê 'e je pui biele! — al comenze Zef Sturbît. — Quant che 'o pensi a chê storie mi ven ancjmó di ridi... 'O savarès che une dì in Americhe 'o ài cjatât un indian, un indian vêr, cu la piel zale e cu la strezze di plumis sul cjâf, al veve doi vôi ch'e incjantavin, un strion insome ch'al ti faseve dut, al indovinave dut, e al ere bon, cui soi striamenz, di trasformâti cemût che tu volevis e dopo di fâti tornâ come prime... 'O ài viodût a trasformâ int in bestie, in plante; int a lâ par aiar come nuje... Une di 'o ài volût provâ ancje jo... savêso a ce fâ?... a deventâ un jeur... par gust di cori vie pes pradaries, libar e viodi cemût ch'e vivevin chês besties... L'indian mago, apene savude la mê idee, al ti fâs-sù une filastroche e jo dal dìt al fat 'o soi deventât un jeur. In mancul che si disi, mi soi cjatât tun trop di chei mêi fradis a passon tune pradarie là ch'e erin mil qualitâz di besties libaris ch'e corevin ca e là come tal Paradîs terest... 'O eri content parvie che nissun mi comandave... che 'o lavi là che mi plaseve... che 'o durmivi se 'o vevi sium e 'o saltavi se mi sintivi di saltâ... Une vite contente di bestie libare...

Ma une zornade dal dit al fat dutis chês besties si fèrmin cu lis orelis spizzadis... la code par àiar e po dopo comenzant a cori ce di une bande e ce di chê altre, chês rugnant, altris cainant... parfin i ucei sforeâz e' saltavin di arbul adun altri... une ciuite ch'e semeave deventade mate 'e à fat un svolet fin dongje di me... Si sintive in lontananze a vignî simpri pui vissins trops di cjans ch'e bajavin, ch'e bajavin... e ancjmò a trotâ cjavai... Jo 'o ài capît subit di ce che si tratave e 'o ài spesseât a dî la formule che mi veve insegnât l'indian par tornâ uman, prime di cjapâmi une sclopetade...

'O ài fat apene in timp a mètimi daûr di un gran len che di dutis lis bandis cjazzadôrs a cjaval e' comparissin di ogni bande sclopetant e copant chês pôris besties che jur capitavin a tîr... Si ferme denant di me un cjavaloto neri come il carabon e chel ch'al ere parsore mi domande cemût e parcè che mi cjatavi a jéssi lì, a tantis mìes lontan dal paîs... 'O ài dite di jessimi pierdût di strade no sai cetant timp indaûr e lu preavi di gjavâmi-fûr di chel intric... Chel siôr mi à tirât sul so cjaval e vie ancjmó a galop... Se 'o vessis viodût, come me, poc dopo, ce disastro... Centenârs e centenârs di besties 'erin coladis sot dai colps di chei cjazzadôrs... Cussl jo 'o ài podût tornâ a cjase... Ma no mi soi rindût! Quant che mi tornà dongje l'indian, j ài domandât di fâmi deventâ un leon, il re des forestis, la bestie pui fuarte... Pensàit, comandâ a duc' e duc' ubidî par amôr o par fuarze... Le prime dì, ancjmò ancjmò, ma la seconde zornade, cui lu varessial dite? No eri bon di passâ un flum di aghe!...

'O ài corût in sù e in jù cu la lenghe difûr... 'o varês sbranât il diaul se mi vignive dongje... Fintremai che par jenfri l'aghe clare 'o viôt che il fons nol ere tant bas, che classons e' vignivin-fûr dal paltan dulà che si podeve pojâ lis talpis... 'O soi rivât a passâ di là, ma ce strache!... Mi soi distirât tal soreli cu la panse paràiar e mi soi indurmidît... Dopo no sai cetant, mi à sveât alc che mi faseve chiti tal cuel... 'O cjali cun tun voli e ti viôt une surisine blancje, cui vogluz rôs... J ài dade une rugnade e cu la code 'o ài cirût di dâj une svintule, ma dibant... Mi volti di chê altre bande e chê ce ti fàsie?... mi va dentri tune orele che mi à fat vignî inzirli... e par abitudine mi à vignût di mugulà: « Ce ustu di me, surisute?... no si scherze cul re de foreste!... No sastu che se ti cjapi tu sês frite?...

Lu crodêso? La surisute mi rispuint cu la sô vosute: « No sai pui la formule di tornâ umane... »

Alore jo j insegni la formule e, se 'o vessis viodût, tun moment denant di me e comparìs une fantate, zovine, biele, frescje come une rose... Podês crodi, cence stâ a pensâ 'o ài dite la formule ancje par me e mi soi cjatât a jéssi un omp, come prime... 'O vin passàt un més insieme, e no us dîs di pui...

- Sìntilu... sìntilu... chel stupidàt, ce canis di contâ! — j à dât-sòt in chel la femine di Zef Sturbît, e lui di rimando:

- No sta a ingjelosîti, femine... in chê volte no cognossevi te...  tu pûs nome crodi, se ti vès cognossude 'o sarès restât leon...

Une volte, tant timp indaûr, sul ôr di une grande foreste nere al viveve te sô cjasute di len, un boscadôr, lui e la sô femine par vie che no vevin nissun frut, ma e' vevin tante voe di vênt. 'Erin stâz di miedis e professôrs, di magos e indovins ma duc' jur vevin dite ch'al ere dibant, no podevin comprâ...

Cui che dai dòi al sufrive di cheste mancjanze 'ere la femine che stave dut il dì a cjase dibessole; l'omp tal bosc cul so lavôr le parave-vie...

Une dì la femine ch'e stave filant un spazel di lane su la puarte di cjase 'e viôt a vignî dongje une femenute; al pareve che làs a caritât e quant che j rivà dongje j domandà cun dute grazie par cui che filave chê biele lane blancje, « forsi pal to frutin? ».

La biade 'e reste ingossade a sintî a fevelâ di frutins e j conte la sô storie; pui 'e fevelave e pui si sintive lizere. La vecjute alore si sentà dongje e j à fàt chest discors. Se voleve vê, no un, ma doi fruz tune volte 'e veve di fâ come che j insegnave jê in chel moment.

Une gnot, anzi une dì a binore, 'e veve di mandâ il so omp tal bearz a cjoli chei doi piruz che si cjatavin ancjmò sul len cun dôs glovis... ma atens, al veve di fâ dut prime ch'al suni dì e ch'al cjante il scriz... Cheste storie no veve di contâle a dinissun e nancje il so omp nol veve di savê cui che j veve insegnât...

E cussi disint la femenute 'e sparìs. A misdì la femine no dîs nuie al so cristian e la sere nancje; dilunc la gnot no podeve cjapâ sium remenansi tal jet... A binore ere strache come s'e fos stade a vôre di picon...

Intant j dìis e' passavin, finche 'e cjatà la strade juste:

- « Omp... omp... — 'e sberle une gnot — se tu savessis... mi soi insumiade cussì e cussì » — e j conte la storie dai doi pirùz sul piruzzâr di dôs glovis.

- « Tu sês mate tù!... » — ma jê 'e à tant savût fâ e dî che l'omp si è jevât-sù e vie lui a cirî i pirùz.

Difati ju à cjatâz e quant ch'al tornave dut content de femine al sint te stale che la cjavale 'e sgagnive. « Cuissà ce che à di chestis oris », al pense e ti va dentri te stale. La bestie cu la talpe denant 'e raspave par tiere di fâ vignì lis lusignis, e ti menave il cjâf come se ves volût rompi la cjevece. Il boscadôr j va dongje par cjarezzale, ma chê tun lamp j cjape un pirùz e lu mangje...

—  « Po ben, — 'e dirà la femine dopo, quant che à savût il câs

—'o mangjarai chel ch'al è restât...

Al passà il timp e la femine 'e partutìs un biel frutin e la cjavale un biel cjavalut! Ce câs... Il frutin al cresseve biel e san e il cjavalut ancjmò miôr; ma une brute zornade la femine 'e mûr e l’omp, cun chel frut di tirâ-sú nol podeve fâ dibessôl e al à cjolte un'altre femine...

Ma chê no j voleve ben al frut e dispès lu bastonave, lu lassave cence mangjâ e quant che al tornave di vôre so pari 'e faseve il cjadal-diaul; 'e diseve ch'al ere trìst, che jê no podeve sapuartâlu.

Gjovanin, cussì si clamave chel pòar frut, al vaive e al clamave sô mari che vignìs a cjoilu e quan' che nol podeve pui al lave-jù a vaî cul so cjavalut che al saltave come un cavrèt tal sierai sul òr da l'aghe.

La bestie lu clamave sgagnint, si russave tôr di lui, j lave cu la muse dongje de sô muse come se volès fevelâj.

Une zornade il frutat al stave spacant lens tal curtìl di cjase quant che il cjaval, rote la spaltade, j ere vignût dongje. La madrigne 'ere te cjamare ch'e cjantave come une serene.

Giovanin al bute la manàrie e ti salte sul cjaval e vie lôr come l'aiar viers il bosc, e vie dentri sot chês plantis altis, foltis là che nol jentrave nancje il soreli... E' corevin di no sai cetant, quant che ti vjodin une cjasute e dentri une femenute vecje, ingrispade, cence dinc', ma cun doi vôi di buine e un sorisin di agnul...

—  « Al è tant timp che 'o spietavi un frut e un cjavalut!... Ientràit... »

— Apene dentri de cjasute, la femine 'e dà al cjaval une grampe di fen ch'al stave tun cjanton e al frutat un miluz, un biel miluz ròs e blanc...  

- « Da chest moment - 'e dìs dopo — vualtris doi no si lassarês mai pui, 'o vês di stâ simpri insieme... e un'altre dì si tornarin a cjatâ... »

E la vecje e la cjasute e' son sparidis come inglutidis de tiere.

 -Anìn... tornìn a cjase! — al dîs il cjaval. Cumò ancje la bestie 'e fevelave!...

Cemût un fantàt come Gjovanin vèvial di pierdi timp cun tune bestie? La madrigne 'e tontonave continuamentri cul so omp, e no j lassave vê pâs nè di dì nè di gnot.

E cussì glot uê glot doman, chel biât cristian al lave indaûr come la corèe tal fûc finchèê al è lât cun Diu prime dal timp.

No si ere nancje sfredât sot tiere che la femine 'e comenzà a vendi e prime di dut il cjaval; ere ore di finile di viodi chei doi a rondolâsi come doi fradis...

E alore une matine, tant che la femenate 'e durmive, Baio e Giovanin e' son partîs, scjampâz di chê cjase deventade ormai vueide par lôr...

E côr che ti côr, par mìes e míes cence mai fermâsi, par planuris, boscs, culinis e valadis, vie lontan di chê cjase, a cirî fortune... il mont al è grant...

Al ere sul lâ a mont il soreli, quant che une sere si son cjatâz a scugnî sielzi fra dôs stradis: a gjestre o a zampe?...

La bestie 'e sgagnìs e Gjovanin al volte il vôli e alore al viôt une vecjute sentade sot di un cjestenâr; ere simpri chê, la lór amìe?...

- « Dulà vàiso, viandanz... di chestis bandis?!...

- « A cirî fortune, parone...

- « Alore vàit drez sù par lì... ma stàit atenz... La strade 'e je lungje pui di mîl mìes e plene di perìcui... Ven a stai tre nò e une si, e cussi vie fin che 'o cjatarês tre stradis... chê di miez 'e puarte tal palaz dal re... No us lassaràn jentrâ, al sarà difizil, e alore 'o fasês come che jus dîs jo... 'O ziràis lis muris dilunc il fossalon che al côr dulintôr plen di aghe... cjaminàit simpri sul ôr fin che 'o cjatàis une razzute blancje, làit daûr di jê e quant ch'e jentre ta l'aghe ancje vualtris làit dentri cence pôre, ancje se l'aghe jus rive al cuel... No stàit a fermâsi e nancje a clamâ nissun... Dopo 'o vedarês chel ch'al vegnarà... Buine furtune a ducjdoi!... »

E vie jê, come chês altris voltis, sparide tal aiar, cence lassâ segno...

Gjovanin e il sò cjavalut e' àn fat come che jur 'ere stât insegnât a puntin... Ma ce èrial sucedút? Rivàz di là da l'aghe ch'e circondave il palaz dal re, la bestie ere deventade dute blancje come il lat... Il fantat no si ere ancjmò cjapât de maravèe che si viôt a vignî-dongje une turbe di int; cavalîrs, damis dal palaz, servos e camarelis che lu cjàpin e lu puàrtin dentri tun salon plen di spiêi e di màrmui...

Il cjavalut al ere restât di fûr, tignút pe brene di un siôr e intant altris lu cjarezzavin su la schene e altris ancjmó j slisotavin la crene ch'e semeave di sede.

A un cert moment al jentre il re, cu la fie, une principesse ch'e semeave fate di lat cun doi vôi celestins come sblecs di cîl, vistide tun manto colôr di rôse e tai pîs scarpinins d'arint...

Lis scrituris dai magos e' disevin che il spôs de principesse al sarès vignût par aghe montât su di un cjaval blanc...

Propit in chel une maghe sentade in bande dal trono, vistide di neri, cun tun libron sui zenôi 'e dîs: « Un moment maestât... chi al mancje alc... Lis scrituris e' disin che il fantat al sarà biel si, zovin si, ma cui rizzoz d'àur... »

In chêl moment il cjaval, scjampât di man al jentre te sale, al va dongje il so amì e cul music j fâs colâ l'elmo...

Duc' e' sclopin di maravêe! Il cjaf di Gjovanin al ere un splendôr; une cjeveade d'aur lusint, rizzote, j colave su la cope fin su lis spàdulis...

Alore il re al smonte dal trono e cjapât Gjovanin pe man lu puarte a la fie.

Pui di un mês al à coventât a fâ i preparatîfs dal matrimoni e po dopo lis fiestis e' àn durât no sai cetant timp; ricevimenz, gustas e cenis par centenârs di invidâz, bâi, fûcs e fusetis di gnot; int che lave e int che vignive al palaz e duc' a fâ fiestis ai spôs, contens e beâz come paschis...

In dut chel ce fâ, in chel «vago-vegno», Gjovanin si ere dismenteât dal so compagn, il cjaval, quant che une di un stalîs al côr a clamâlu; la bestie 'e stave mâl. Viodinsi il Baio, deventât Blanc, nol mangjave nè chal beveve fin che al è colât tant lunc ch'al'ere.

Gjovanin al côr te stale cu la principesse sô spose, ma al ere masse tart; viodinju, la bestie 'e dà une ronade e la mèt dute par jevâsi-sù ma 'e cole jù di colp, muarte di disperazion...

Il re savude la storie, al ordene che al sedi soterât tal pui biel puest dal zardin reâl e che paròre al sedi fat un monument; un cjaval d'arint chal ten-sù cun tune talpe un piruz d'àur!...