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Nel fondo dello specchio

di Tito Maniacco

 

FOTO

 

V'è ombra sotto questa roccia rossa

(venite all'ombra della rossa roccia),

E io vi mostrerò cosa diversa

Dall'ombra vostra che da mane vi cammina

(dietro,

Dall'ombra vostra che a sera si leva

(ad incontrarvi;

Vi mostrerò il terrore in un pugno di polvere."

T.S. Eliot, La terra desolata, I, 24, 30

 

Da uno studio-soffitta di Buia guardo le terribili montagne brizzolate di neve che si dispiegano a semicerchio sotto un cielo grigio e vedo una brutta casa che s'appropria di una collina, la scava e innalza il suo pretenzioso cappellino di camini e coppi, geometra o architetto chiusi nella stessa atrofizzata mano di sentimenti inceneriti.

Alle mie spalle l'ombra che domina sovrana i quadri ed i grandi disegni di Aita proviene da "La terra desolata" di Eliot (5. 359) ed è il terzo che sempre ti cammina a fianco, scivolando avvolto in un bruno ammanto e a quell'ombra mi rivolgo. Il pittore tace, stanco di spostare pesanti quadri e metterli sotto l'impietosa e fioca luce di un mattino di fine inverno, mi rivolgo e chiedo: che ne è dell'arte? È qualcosa che appartiene al passato come ci sussurra da due secoli Hegel dagli occhi di civetta, ed è diventata inutile polvere nel tempo della società dello spettacolo in costante ripetizione, o possiede ancora qualche pallida chance?

Stranamente, in un'epoca di travolgente aumento dello scibile e del visibile e dell'ascoltarle, l'arte appare, se non cosa del passato, certo merce sempre più rara.

Pare che gli artisti, se questa definizione così ambigua, così usata può valere, cioè a pochi, scelti dal caso o dal destino, l'ananche degli antichi greci, sia stata data la possibilità di entrare in possesso dell'arte.

Raphael de Valentin, accanito giocatore (il gioco è il "doppio", lo specchio dell'arte) perdente, prima di suicidarsi gettandosi nella Senna, entra in un negozio d'antiquariato dove gli viene offerta una pelle di onagro, la pelle di zigrino, La Peau de Chagrin di cui parla Balzac.

La pelle di zigrino ha la possibilità di esaudire i desideri (e l'arte è un delirio di costanti desideri, quadro dopo quadro, poesia dopo poesia), ma, ad ogni esaurimento si restringerà fino alla sua scomparsa. Più aumenta la volgarità del banale, più, per scacciarlo, l'artista è costretto a nuovi quadri e a nuovi desideri.

In questo viaggio Aita s'immerge nel mondo, e da queste tenebre - il nero è il suo colore, il nero delle vernici che ricoprono il metallo delle auto - egli distilla lo spazio, immerge gli oggetti, i paesaggi, gli uomini, li distorce in una torsione la cui energia di base non è estetica ma etica. È l'etica che s'impossessa dell'occhio, organo sociale per eccellenza, e ne trasforma la funzione, come dice l'evangelista: "La lampada del corpo è l'occhio" (Matteo, 6, 22).

Il fatto che la pelle di zigrino del sentimento del mondo tenda per sua natura, reale o fantastica che sia, a restringersi, porta l'artista a sfruttare al massimo la forma fino a concentrarla e a contrarla.

In questa operazione, sospesa fra l'etica che presiede alla scelta e l'estetica che presiede, in definitiva, al risultato, il viaggio di Aita è, appunto, un viaggio nella terra desolata.

Come Dante che percorre le stesse contrade è accompagnato da Virgilio della cui forza espressiva si sente per tradizione dominato, Bacon è presente come una terza ombra fin dagli inizi del lavoro di questo autodidatta dell'oscura campagna friulana, quando si rappresentava seduto su di una sedia sfatta, in tuta, guanti e maschera, là dove, forse, potevi scorgere, nell'inutile citazionismo che contraddistingue i critici, un vago Sutherland, se a quel colore brunito, insistente, quella polvere, quel fango e quella nebbia del tramonto non facessero altro che intuire oscure presenze, presenze dissonanti sia pure composte nella loro terribilità in una sorta di suono nero che solo le 6 Suites per violoncello di Bach possono rendere, questa pittura essendo più percettiva che visiva, se si può accettare l'apparente contraddizione di una pittura che si ascolta.

In qualche modo tutti i lavori di questo pittore la cui tendenza è "far grande", e ciò valga anche per i disegni e le incisioni, tendono a portare avanti una complessa costruzione contrappuntistica, dove per contrappunto, se è lecito a un non addetto ai lavori interpretare, sempre restando "fuori" dalla tecnica musicale e "dentro" il paradosso interpretativo, la costruzione simultanea e cioè contemporanea di più immagini che vengono distillate da un'immagine centrale che serve da base per lo sviluppo del tema. Su questo complesso nucleo si svolge una cadenza di variazioni o varianti che hanno come centro il deserto dell'animo umano entrato in rotta di collisione con un mondo che si sta sempre più disumanizzando.

Questo mondo, Bacon lo interpretava leggendo l'uomo moderno chiuso in spazi claustrofobici, serrato, legato da cerchi irregolari, ellissi, linee segnate dal sollevarsi delle pareti, dove persino il paesaggio assume su di sé le caratteristiche di una musica funebre densa di dissonanze, Aita, invece, ne rovescia o ne dilata il pessimismo esistenziale mirando ad un mondo totalmente privo d'ossigeno dove gli oggetti simbolici, l'araldica di questa disumanità, sono maschere antigas, guanti di gomma che aprono come tendaggi su di uno spettacolo shakesperiano come interpretato da Macbeth (V, V) là dove dice che la vita non è che un'ombra che cammina, una favola narrata da un idiota.

Qui, di diverso, è che il mondo non è pieno di rumore e furore, ma ha il suono angosciante di un rantolo che esce dalla maschera o si agglutina intorno ai lunghi tubi che portano aria ad un mondo che ha perso, con l'ossigeno, ogni possibile innocenza.

In qualche modo il procedere di questo pittore può ricordare le sequenze di rifrazione di parole e suoni così caratteristico di un compositore come Nono, il Nono, direi, de "Il canto sospeso". Così la decostruzione condotta sulla struttura fisica delle figure, degli oggetti e del paesaggio porta non tanto a disperdere quanto a comprimere la composizione sì che il ricomparire delle forme dopo la lunga notte dell'astrazione è segnato da una forte tensione espressionista, se per espressionismo volessimo indicare non tanto una deformazione dell'oggetto nel suo contesto quanto una deformazione disperata dell'anima, in cui l'arte non ricopre il ruolo adulatorio e consolatorio che in genere le si assegna, ma quello di una sorta di ontologia del pensiero dove l'esperienza procede dal principio etico.

Se la pittura fosse, come a me pare, una sorta di filosofia delle forme, una gestalt del pensiero, allora diremmo che Aita, attraverso la terra desolata viaggi alla ricerca di dio e in questo senso egli è uno dei rari possessori dello spirito della ricerca del sacro che, come si dovrebbe supporre, non è dipingere santi in camicia da notte controriformista.