1957 n.2

Giochi senza giocattoli

di Maria Forte

 

 

Tutti i bambini giocavano e si divertivano un mondo anche ai tempi della mia fanciullezza, ma erano giochi semplici, non corredati da quei meravigliosi giocattoli che si possono avere oggi. C'erano, è vero, anche allora, cavallucci di legno, trombette di latta, campanelle di terracotta, « sunetis a bocje » che i fornaciai portavano dalle Germanie e qualche bambola dal viso sbilenco e dal corpo di legno o di trucioli, ma la maggior parte dei bambini del popolo non li poteva avere. Questo però non offuscava la pura gioia dei giochi, anche senza giocattoli.

Giochi che si facevano spesso all'aria aperta, dove era concesso sfogare una vitalità esuberante e mal contenuta. « Cjâr che mene»! Corse, lotte, emulazioni, inseguimenti, come sempre. Chi non risente ancora nel cuore le filastrocche ritmiche e sconclusionate che accompagnavano i nostri giochi di fanciulli? Cantilene che davano armonia alle ore di svago, motivi e argomenti vari, messi insieme a caso e che pure tenevano un vago senso di abracadabra un senso di potere misterioso ed avvincente. Filastrocche che davano l'avvio a giochi semplici per anime semplici, ma ricchi d'emotività che si rinnovava, ogni volta, con uguale intensità. Il bimbo cominciava a divertirsi a cavalluccio delle ginocchia paterne, quando questi gli faceva i «ûs di cuc» cioè il solletico nelle orbite col suo mento magari un po' « ruspiôs » di barba settimanale, o al ritmo di una cantilena dopo la quale veniva rovesciato sorridente, lungo la gamba levata a sostegno.

Sache, burache

mani di sape

voli di bò

cjapailu totò.

oppure

Eri, eri a mulin

cun tun sac di sarasìn,

cun tun sac di uve passe

eri eri jù pe Basse.

Scuotendogli la manina cantava:

Man man muarte

spete su la puarte

spete sul puarton

ti darai un grant pugnon.

E poi giù un colpetto per farlo ridere. Il genitore, girando a solletico un dito sulla palma del piccino, diceva

Atôr atôr pai pradescit

 j cjapai un gneurescit

 poi, tirandogli successivamente ogni ditino.

Chest lu copà

chest lu spelà

chest lu metè a cuei

chest lu mangjà

e a chest picinin

no j tocjà nancje un freghenin.

Il seguente giochetto si faceva quasi alla stessa maniera del precedente:

Anìn anìn a nolis

cumò ch'ai duâr il lôf

lu cjaparìn pe code

 lu puartarìn tal cjôt.

Ce ore ise?

Qualcuno rispondeva —

 E iè une.

Il motivo si ripeteva per le ore due... tre... e così via, fino ad un'ora stabilita, in cui il giochetto terminava con la finta uccisione del bimbo felice. L'emozione era data da quel prolungarsi dell'attesa scandita dalle ore. Simile era anche il seguente

Lin lin lae

cui ch'ai cjape pae

pae pauzze

fruzze.

In questo caso, però, era il bimbo a girare il ditino sulla palma della mano paterna e a levarlo in fretta prima che il babbo ruiscisse a farlo prigioniero fra le sue dita che si chiudevano alla parola «fruzze».

Per i più grandicelli altri erano i giochi, molti dei quali basati sull'eterna istintiva lotta fra inseguito e inseguitore: «di ghega». Un fanciullo era sempre destinato a «sta sot», cioè a rappresentare la parte della vittima o del nemico e veniva designato dall'nappellabile responso di una filastrocca e questo accontentava tutti per la mancanza dell'arbitrio.

Ae bae 

dome scae

sie bie

companìe

ce meracul

 ticul tacul

ae... bae... bunf.

oppure

An tan carantan

ele bele cichi bele

tran

.................

Arin burin

metin le man

sul mussulin

pissin tal cop

metin... te... taz... ze.

...................

An ban

tut a me

fin fun

tut a te

aro baro

tico taro

op sirop

burì sta sot

oppure

Aro baro

tico taro

op sirop

buri sta sot.

Per noi bimbe, l'inseguitrice riceveva il nome di una povera vecchia del paese, abitante presso l'Arrio, un po' svanita di mente, che arrivava spesso fino alla scuola a reclamare giustizia contro i cattivi scolari che la canzonavano — Era Ane Manàt. —

Così, scappando nel gioco, si gridava: «Ane Manat, cul cûl tal plat !». —

Incosciente cattiveria dell'animo infantile.

A volte formavamo un cerchio che girava intorno a una compagna rannicchiata nel mezzo e affaccendata a un finto focherello e poi ad affilare due pezzi di legno in funzione di coltelli. Si svolgeva allora il seguente dialogo:

Ane Manat, ce fatu alì?

J impii il fûc

Par cefâ dal fûc?

 Par fa boli l'aghe

Par cefâ da l'aghe?

Par uzzâ il curtis

Par cefâ dal curtis?

Par copâ une di vuatris.

Allora il cerchio si rompeva e incominciava l'inseguimento.

Un gioco usuale era quello a moscacieca: «di gjatevuarbe». Dopo bendata, la compagna veniva fatta girare su se stessa per farle perdere l'orientamento.

Pimpinele une

pimpinele dôs

pimpinele tre

va a cirîle la ch'è je.

Emozionante era il gioco di ricercare un oggetto nascosto. Chi stava «sot», si dirigeva incertamente qua e là cercando nei luoghi più impensati e gli altri a gridare «Aghe... aghe... fuc... fuc...» a seconda ch'egli era vicino o lontano dal nascondiglio. Il ricercante si orientava su quelle voci.

Piacevole era anche l'indovinare in che mano uno tenesse nascosto un oggettino — contando or qui or lì:

San Michel,

dimi il vêr

s'al è culì

dâmal a mì.

Che dire, poi, delle mascherate di Carnevale, fatte di sbrendoli, di nastri sbiaditi, di veli bucherellati, di scarpe scalcagnate, di cappelli fuori moda che qualche signora del luogo regalava ai monelli?! Il tutto era completato da abbondante nero fumo e inchiostro rosso. I bimbi, schiamazzando, cantavano:

Mascare, mascare dal pezzot

dait un pît paraile sot

mascare mascare dal tambûr

dait un pît, paraile fûr.
 

Tirìn tirìn tirotulis

la fieste di Madrîs

'e sunin lis pantianis

'e balin lis surîs.

E qualche sfacciatene.

Tirin tirin tirotulis

 tiraimi sù lis cotulis

tiraimi sù il grumàl

evive Carnavàl.

Un gioco meno movimentato consisteva nel sederci a terra in riga, colle gambe allungate in avanti. Una bimba, con una verga, toccava successivamente ogni gamba recitando:

Cjavale blancje vâl cent e quarante

vâl un... vâl doi... vâl tre... vâl quatti

vâl cinc... vâl sìs... vâl siet... vâl vot

pan piscot, tire bon, tire sot il pui ba...ron.

La gamba segnata col «ron» veniva ritirata sotto il corpo.

Oppure

Sante striche de pitiche

de pitoche, carabù,

asinel, buine vite fore chel.

Il padrone della gamba rimasta ultima fuori, pagava un pegno.

Anche il gioco del silenzio divertiva molto. Si formava una viva colonnina di mani chiuse a pugno e uno, sfiorandole con un dito, recitava:

Pugnin, pugnin pugnele

 a cui che prin al rìt

o che prin al fevele

 j tiri le oreglele.

Tutti ritiravano le mani e serravano le bocche, ma poi erano smorfie del viso, sberleffi, e buffi atteggiamenti che accompagnavano lo sforzo di tacere. Il «capoccia» incitava a rompere la consegna, finché qualcuno sbottava in una risata o in una esclamazione e si meritava la tiratina d'orecchio.

Altro gioco consisteva nel tenersi per la sottana (o per la giacca) una dietro l'altro, per passare sotto una specie di forca caudina, formata dalle braccia, unite ad arco, di due compagne. Al termine di questa poesiola in italiano

La bella pecorina

quando cammina

fa bee... bee

La prima lasciar passare,

la seconda perdonare

la terza castigar

una bimba veniva chiusa nel cerchio di quelle braccia e sottoposta a un interrogatorio, per cui inconsciamente sceglieva di finire in paradiso o nell'inferno.

O sedon... o piron?

o un sac di bêz.. e un om sanganât?

o piruz... o miluz?

Naturalmente le interrogatrici si accordavano prima fra loro, sul valore convenzionale da dare alle risposte. Per variare, talvolta, prendevano la malcapitata e la facevano ballonzolare in bilico, pancia in giù, sulle loro mani intrecciate a sedile, dicendo:

E je lade une gjaline tal ort,

mi iudistu a parâle fûr?

Sciò... sciò... sciò... sciò...

Se quella rideva, andava nell'inferno, se riusciva a star seria, andava in paradiso. Ai lati stavano una bambina-angelo e una bambina-diavolo per accogliere le reprobe e le angelicate.

Finivano coll'angelo o col diavolo anche le bambine che partecipavano al gioco dei colori. Ognuna si prendeva segretamente un colore, tratto di solito dal guardaroba del Signore o della Madonna e lo comunicava alla «caporiona». Si svolgeva quindi il seguente dialogo mentre, a una a una, si presentavano le giocatrici:

Din din

Cui è là?

L'agnulin

Ce vuelial ve?

Un colôr

Ce colôr?

L'angelo stava un po' soprappensiero poi diceva uno di questi: «Colôr des scarpis dal Signor... Colôr dal grimâl de Madone... Colôr de cinture dal Signor, o... dai rincjns de Madone... ». Se indovinava, quell'anima era sua.

Così per il diavolo:

Don don Cui è là?

Il diaulon Ce vuelial vê?

Un colôr Ce colôr?

ecc.

Si barava spesso al gioco, procurando di far conoscere all'angelo il proprio colore per finire con lui.

La seggiolina fatta colle mani, serviva anche a portare in giro, ben accomodata, una compagna, a questo ritornello:

Sente polente

la mazze de polente

 la mazze de fertae

nizze nizze che canae.

Nel cortile si giocava «a campo» in due o più. Si tracciava sul terreno, in questa maniera, un disegno:

 

Si gettava una «balestra» di pietra successivamente in A . B . C ecc. e poi, reggendoci su un sol piede, «a pît zuet» la si rimandava fuori, spingendola con lo zoccolo, passando successivamente per H . G . F o E . D . C ecc. e mai di fianco. In E e in F si aveva diritto di posare per un attimo anche l'altro piede, stando a cavallo dell'incrocio. In I («il cjavon») si riposava e poi si doveva mandar fuori la «balestra» con un sol colpo, senza arresti. Se essa si fermava su una riga era «gruse», cioè fallo e si doveva cedere il posto alla compagna.

I maschi giocavano a perle (bottoni), ma non era escluso che qualche ragazza-monello prendesse parte al gioco con entusiasmo. Consisteva nel far rimbalzare un bottone contro un muro o una porta e lasciarlo cadere a terra. Il secondo giocatore ne gettava un altro, con perizia, per farlo cadere vicino, a meno di una spanna, per guadagnarsi il primo bottone. Ogni quattro o cinque bottoni, si aveva diritto a un «roncio» cioè a una borchia speciale d'ottone rubata da qualche «comàt» (collare) di cavallo.

Le bambine, per divertirsi, giocavano sedute a terra con cinque sassolini rotondi o con palline di vetro o di marmo. Tutta la bravura era nel saper posare e poi raccogliere in fretta — a uno a uno — a due a due — a tre e uno — a quattro — i sassolini nel tempo che il quinto impiegava ad essere gettato in alto due volte (nel posare e nel raccogliere) e ripreso insieme agli altri.

I bambini giocavano anche col «drago» (aquilone) «di bandiera», «di cavalete» (saltare un compagno piegato verso terra) di « quattro cantoni » e di « purcite ». In quest'ultimo, la bravura consisteva nell'impedire che una palla di legno entrasse in un buco centrale, nel batterla perciò alla svelta con un bastone e poi, con questo, rioccupare il proprio buco.

Felicità fatta di nulla, solo di anni freschi e nuovi, di salute e fantasia.

Erano gioco anche le care strampalate filastrocche, talvolta innocentemente scurrili, che s'imperniavano su un nome e servivano a canzonare il compagno Tite, Toni, Zuan, Checo, Meni, Pieri, ecc. e i bisticci di parole di una puerile ed elementare scanzonatura o di un'ingenua e popolana spudoratezza.

Dìs fassut - To pari al è cjocut.

Dîs varûl - Mettiti il det tal...

Dìs avon - To pari al è un cjastron.

Dîs baie - To mari e je une cjavale.

Dami il carton - Ce carton?

Chel ch'ai netave il c... Napoleon.

Quant mi tornistu chê bale? -

Quale bale?

Che che à cag... la me cjavale.

... così via all'infinito.

Atu savût?

Ce robe?

Che cu la cjar si fâs il brût.

Atu savût?

Ce robe?

Che il diaul al è muart massepassût.

Tite smite calamite calamàr

La purcite sul seglâr

La massàrie sul piûl

Che sclagare tant ch'e ûl.

Toni coni batafiêr

ce mangjastu chest unviêr?

j mangjài pan e lat

marcjle vie golosat.

++++++++++++

Al jere une volte,

 Pieri si volte

j cole la sclope

Pieri si cope

j cole il curtis

Pieri al vuaris

j cole la cjadree

Pieri al pedee

j cole il taulin

e Pieri al bèf il vin.
 

Meni menai

 cun quatri cjavai

cun quatri carozzis

e vie a gnozzis.
 

Zuan bafoan

code di e cjan

code di suris

cjapilu pai pîs.
 

Pieri veri,

scjatule di veri

scjatule di prât

Pieri scrodeàt.
 

Laurinz codarûl

Tu âs la muse là dal cûl

il to voli al è svuarbât

 e la vacje ti à pescjât.
 

Checo beco sta sul fen

ten a mens cui ch'ai ven

se ven la tô morose

cjapile pe gose.
 

Anute balute

la gjambe di len

to pari ti cride

to mari ti ûl ben.
 

Toni coni cjalzumit

fai la vuere cul purzit

 il purzit al è colât

Toni coni al è spelât.
 

Angjeline cjôl farine

fai la meste te terine

fai di cene al to paron

ch'ai è lât in pereson.
 

Marie sbitìe

'e lave la massarìe

 le lave sul seglâr

'e fàs l'amôr cul pezzotâr.
 

Tin balin balote

se nol sune al scampanote.

Catine, catane

vecje vedrane.

 

Dolce e cara fanciullezza tramontata al ritmo di questi motivi illogici e saltellanti.

Scrîz malviz

lunc di code

cùr di stiz.

Tâs tu favite,

'e je pui lungje la mê code

che no dute la tô vite.
 

A lis cine si met alc sot i dinc'

a lis sîs si scuen lava i pîs

a lis siet si va tal jet

a lis vot si va sot

a lis nùf si distude la lûs

a lis dîs si distirin i pîs

a lis undis si dîs un diprofundis

a miezegnot al cjante un crot

a la une si jeve la lune

a lis dôs al urle un lôr

a lis tre anìn cu me

a lis quatri al sune il batacul.