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Pietka, Sudka e Vitka

Dalla testimonianza di  

Aita Terzo

raccolta da Celso Gallina 

 

 

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Mi chiamo Terzo Aita e sono nato a Buja il 25 maggio del 1937 nella frazione di Campo, o per essere più precisi a “Cjamp di là” (1):  una frazione dimenticata da Dio, termine forte, ma che rende l’idea di quella che allora era una delle borgate più lontane dal centro di Buja.

Così dimenticata che, quando casualmente si udiva il rombo del motore di un’auto, tutta la gente del borgo lasciava ogni faccenda per portarsi sulla strada a vedere chi stava passando!

Di ragazzi all’incirca della mia età, nel borgo, eravamo una decina; ricordo che per andare a scuola, dovevamo fare a piedi oltre 3 km , attraversavamo i sentieri dei “Cucs” (2) per arrivare, infine, nella frazione di Madonna, sede della scuola.

A dottrina andavamo poco, perchè avremmo dovuto ripercorrere di nuovo tutta quella strada nel pomeriggio.

Nel nostro piccolo borgo vedevamo spesso passare i tedeschi, infatti i carri che portavano le merci scaricate dai treni alla stazione di Gemona, passavano proprio per la nostra frazione per andare al Campo Todt di Rivoli di Osoppo,

Ma un fatto nuovo accadde  nel mese di agosto del 1944.

Fu mia madre la prima persona del borgo a veder passare per la Statale Pontebbana quelle stranissime carovane di carri che si dirigevano verso la Carnia.

Era un venerdì e stava andando a Gemona per vendere al mercato le verdure che coltivava nel nostro orto; con il ricavato avrebbe poi comprato alcune cose indispensabili come sale, zucchero e, se avanzava qualcosa, un po’ di “Vermuline” per il mio intestino. ...

Ci raccontò che quei carri trainati da cavalli, erano coperti da grandi teli sorretti da centine ai cui lati pendevano attrezzi di ogni sorta.

Quelle “strane” carovane appartenevano ai cosacchi e presto avremmo fatto conoscenza con quel popolo tanto lontano e diverso da noi.

Storicamente fedeli agli Zar ed accaniti antibolscevichi, con l’occupazione della Russia, molti colsero l’opportunità di combattere al fianco dei tedeschi, per sconfiggere l’odiato nemico.

La caduta di Stalingrado e le poderose avanzate delle truppe di Stalin, nel 1944, li avevano allontanati dalle loro terre obbligandoli a ritirarsi sempre più ad ovest. Infine erano stati destinati in quella che, stando alle promesse tedesche, sarebbe stata la loro nuova patria, “Cosakenland in Nord Italien”,  ovvero il Friuli, che dal settembre 1943 era diventato a tutti gli effetti parte del territorio tedesco “Adriatisches Künstenland” (Litorale Adriatico) con a capo, il commissario supremo del territorio, il Dott. Friedrich Rainer.

La maggioranza era di religione Ortodossa, ma non mancavano minoranze mussulmane, poiché erano diverse le etnie che si erano aggregate ai cosacchi del Don.

Nel mese di ottobre del 1944  parecchi carri cosacchi si stabilirono nel nostro borgo, si accamparono nei pochi appezzamenti di terreno non coltivati, vicini alle case. Il loro arrivo fu una sorpresa per tutti, pochi di noi sapevano chi fossero, da dove venissero e perché si trovassero in Friuli. (4)

In quelle rudimentali e strane abitazioni su ruote, c’erano anche donne, vecchi, bambini. Gli uomini indossavano la divisa, sia che fossero graduati o semplici soldati, portavano un colbacco in testa, fucile o parabellum a tracolla ed avevano tanti, tanti cavalli.

Una cosa a quella gente certo non mancava: la fame.

Ogni pomeriggio noi ragazzi ci ritrovavamo insieme; i prati erano, allora, il nostro parco giochi e, quasi subito, si unirono a noi i nuovi arrivati, bambini cosacchi più o meno della nostra età.

Fu così che, a gesti, a cenni o come Dio solo sa, diventammo amici. Loro impararono a giocare a “Zerul”, a tanti altri nostri giochi e noi imparammo i loro. Come non ricordare, che le uniche volte in cui mi sono divertito a cavalcare, l’ho fatto su dei cavalli cosacchi!

I cavalli erano l’unica cosa che avevano in abbondanza, alcuni erano belli e ben tenuti, ma tanto magri, con le ossa che affioravano dalla pelle, molti altri avevano delle vistose cicatrici di guerra, alcuni erano ciechi di un occhio.

Ho ancora davanti agli occhi i volti di tre ragazzi che m’insegnarono a cavalcare, avevano qualche anno più di me e si chiamavano Pietka, Sudka e Vitka.

Ricordo la sera quando, nelle nostre famiglie, le donne preparavano la cena e dalle finestre e dai camini usciva “odore di polenta”. Quel profumo oggi il mais non ce l’ha più, in me il suo ricordo è ancora così vivo, probabilmente, per la fame che avevamo a quei tempi. Quell’odorino lo sentivano particolarmente i cosacchi, così venivano a bussare alle nostre porte. Non entravano, tendevano la mano, e dalle loro labbra uscivano, sempre, le stesse parole: “Mama,  Mamalika!” (Mamma polenta!), anche se a rimestare nel paiolo era una donna molto giovane.

Mia madre, allora, prendeva qualche fetta di polenta, tagliava una scaglia di formaggio e la consegnava. Loro ringraziavano “spassiba  mama”  (grazie mamma) e se ne andavano.

Nessuno ha mai varcato la porta senza essere stato invitato ad entrare.

Quando il tempo era brutto e non potevamo andare per i prati, i miei piccoli amici cosacchi venivano a giocare a casa mia, ma non è mai successo, ripeto, mai, che qualcuno di loro toccasse nulla o che facesse qualcosa di cui lamentarsi.

Allo stesso modo non successe mai niente quando, assieme a mia madre, andavo nel grande campo cosacco di Osoppo a vendere uova ed ortaggi.

Giravamo carro per carro, tenda per tenda, se avevano i soldi acquistavano, altrimenti rispondevano “Niet”. Nessuno cercò mai di rubarci la merce o fare uno sgarbo a mia madre, che allora aveva 35 anni ed era una bella donna, eppure lì c’erano famiglie con vecchi, bambini, e soprattutto uomini.

Ricordo che alla fine del giro, se era rimasto invenduto qualcosa, mia madre passava a regalarla dove aveva visto tante bocche da sfamare.

Spesso gli uomini venivano a casa per chiederci in prestito la falce per tagliare un po’ d’erba sui bordi delle strade, per poi darla ai loro cavalli.

Questi rapporti con i cosacchi erano, con il tempo, diventati comuni a tutti gli abitanti del borgo e, sono certo, che tutti serbano di loro un buon ricordo.

Benchè i cosacchi di stanza a Buja avessero il loro quartiere generale a Verzegnis, dove risiedeva il loro Atamano Krasnov, dipendevano dal Comando Tedesco sito nelle scuole di Collosomano.

Ricordo ancora, l’unico fatto negativo successo pochi giorni prima della fine del conflitto.

I cosacchi, consci che ormai la fine si stava avvicinando, cercavano di vendere o barattare quel poco in più che avevano, in cambio di viveri.

L’unica cosa di cui i cosacchi disponevano in abbondanza e che in condizioni normali non avrebbero mai venduto, erano, come ho già detto, i cavalli. Ora, invece, diversi contadini e commercianti avevano cominciato a recarsi nei campi dei cosacchi a trattare.

Nella mia borgata si erano presentati due friulani della bassa e si erano messi a discutere con un cosacco l’acquisto di alcuni cavalli.

Il caso volle che un abitante del borgo fosse presente, probabilmente faceva da interprete, usando quelle poche parole che in quei mesi aveva avuto modo di imparare.

Concluso l’affare e consegnato il denaro al cosacco, i due se ne andarono con i cavalli, mentre il cosacco si recò a Sopramonte nello spaccio da “Parusc”. Mise sul banco tutto quanto gli serviva e porse i soldi al proprietario, il quale, dopo averli controllati per benino, li restituì al mittente dicendo che erano tutti falsi.

Il cosacco, infuriato, riprese immediatamente la strada del ritorno, ma non trovò più i due truffatori. Allora, imbracciato il fucile, sequestrò due o tre uomini del  borgo, compreso lo sfortunato interprete, che a suo modo di vedere era un complice.

Voleva vendicarsi, uccidendoli tutti.

Fortunatamente qualcuno andò a chiamare i tedeschi che, arrivati poco dopo, lo disarmarono e liberarono i tre malcapitati.

Certo, il cosacco se l’era presa con chi non c’entrava assolutamente nulla, ma va onestamente compreso il suo stato d’animo.

Quando si parla di cosacchi si tende quasi sempre a ricordare i loro vizi, le loro malefatte, dimenticando, però, le loro sofferenze.

Cosa dire di quella donna cosacca uccisa in un vile e vergognoso agguato a Sopramonte il 2 aprile 1945 per rubarle le poche miserie che aveva dentro il carro e i due cavalli che lo trainavano?

Pietro Menis cita nel suo libro “ Tempo di Cosacchi” – “Era venuta col suo carretto alla ricerca di cibo per le sue creature orfane di babbo e trovò la morte in agguato; (2 aprile 1945) la uccisero et diviserunt sibi spolia, mentre la terra beveva lentamente il suo sangue .....

Quella donna cosacca, vedova, con due bambini, dopo essere stata depredata di quanto aveva, venne lasciata morire sulla collina dove noi passavamo ogni giorno per andare a scuola.

Un contadino, mosso a compassione, la seppellì e, per ricordare il luogo, mise sopra i pochi centimetri di terra che ricoprivano il suo corpo, un grosso sasso.

Quella pietra, per alcuni anni, ricordò a noi ragazzi che passavamo accanto, chi c’era lì sotto e che cos’erano la guerra e la viltà.

Qualche anno dopo, la salma, riesumata, venne portata nel Cimitero. “Nel Cimitero di Madonna - ricorda Pieri Menis - c’è una tomba sconosciuta tra l’erba .... ultima vestigia del tempo di cosacchi, coperta da un fiore ...” (5)

Non ho mai saputo nulla della sorte toccata a Pietka, Sudka e Vitka, i miei compagni di giochi, che nei primi giorni del mese di maggio, a pochi giorni ormai dalla fine del conflitto, partirono per il Passo di Monte Croce Carnico, da dove sarebbero passati in Austria, verso un destino a loro ignoto, ma già stabilito dai vincitori.

Oggi sappiamo quanto fu tragica e terribile la fine per la quasi totalità di quel disgraziato popolo.

Costretti a forza a salire sui treni che li avrebbero riportati in Russia, nelle mani di Stalin, molti scelsero di lasciarsi morire nelle acque gelide della Drava.

Voglio credere che Pietka, Sudka e Vitka siano stati fra i pochissimi che riuscirono a dileguarsi sui monti e poi ad espatriare.

 

NOTE

(1)             “Cjamp di là” – Situato oltre la frazione di Campo Garzolino di Buja

(2)            “Cucs” -  Colline di Buja

(3)             I cosacchi arrivarono a Buja il 5 ottobre 1944 - il giorno prima, 4 ottobre “sulla via fra Sottocostoia e San Floriano veniva ucciso un capitano tedesco ed il suo attendente mentre in auto si dirigevano al Campo di Aviazione di Rivoli” - tratto da “Tempo di Cosacchi” di Pietro Menis.

(4)             Vedi anche “Buje Pore Nuje!”, 2006 - N° 25, pag. 35,  “I cosacchi a Buja di  Renzo Vidoni. Nel CD “No i sin ce che i lassin” è inserito il testo completo titolato “Nuova Cosacchia” di Renzo Vidoni,  da cui è stato estratto l’articolo.  

(5)             “Tempo di Cosacchi”, pag. 50 - di Pietro Menis.