NON E' COMPITO MIO    -     Capitolo 5

NON POSSO DIMENTICARE

 

 

Io nella posizione che occupavo, avrei potuto spesso fare man bassa di materiali in deposito, forse sono stato stupido, ma sono contento di esserlo stato.

A Trasaghis  feci da interprete tra tedeschi e partigiani all’atto della capitolazione. Il capitano Hoffman, Comandante del deposito, era un buonuomo ormai sulla sessantina con il morale a terra, qualche mese prima aveva ricevuto un telegramma che lo informava che tutti i componenti la sua famiglia erano morti sotto le macerie causate da un bombardamento. Ricordo che quando gli alleati sbarcarono in Normandia, a quattro occhi, mi disse chiaramente che ormai c’era poco da fare.

Aveva capito da tempo che la guerra ormai era persa e aveva incominciato a chiudere uno, se non due occhi con i partigiani, facendo il possibile per evitare inutili attentati e stragi. (NOTA2)  La stessa cosa feci io, lasciando che alcuni uomini di buonsenso, non degli esagitati, che sapevo appartenenti alla Resistenza, potessero muoversi più liberamente e asportare dei materiali dal campo Todt. 

Non così lungimirante era il Comandante di truppa che svolgeva compiti di controllo armato sui cantieri. Una sera del mese di aprile ’45, fece un posto di blocco all’uscita dal campo, quando io e mia moglie stavamo uscendo si mise davanti con fare minaccioso e mitra spianato, chiedendomi con voce decisa come mai non facessi svolgere alcun controllo all’uscita degli operai.

Gli risposi semplicemente che quello non era compito mio e la cosa finì lì.

Pochi giorni dopo, quando gli eventi precipitarono, il tenente Hoffman mi mandò da lui per avvertirlo che era opportuno che assieme alla sua truppa, si fosse unito alle colonne in ritirata che transitavano in continuazione sulla statale, lo misi al corrente che le avanguardie alleate erano giunte a San Daniele. A quelle parole reagì puntandomi la pistola alla testa, ebbi il mio daffare per fargli comprendere che io ero solo il latore di un messaggio e che, comunque, lui era libero di fare quello che voleva. Inoltre   volle  sapere come mai ero a conoscenza dell’arrivo delle truppe alleate, gli risposi  che la voce del loro arrivo correva fra la gente.

Partì il giorno dopo.

Quel giorno di fine aprile riuscii a passare il fiume Tagliamento un’ora prima che alcune arcate del ponte saltassero in aria, arrivai a Buja e da quel momento per me guerra e lavoro terminarono.

Due giorni dopo mi trovai in casa il comandante Hoffman, che mi venne affidato dai partigiani di Osoppo. Rimase nascosto a casa mia per oltre un mese. Quando la burrasca passò, lo trasferimmo in bicicletta a Zuglio dove conoscevamo un partigiano di buon senso, un certo Candotti, ai tempi capocantiere della Todt con cui ci eravamo messi d’accordo. Una quindicina di giorni dopo, lo accompagnò a piedi, attraverso i monti, in Austria e poi lo lasciò proseguire da solo per la Germania. Di lui non ho saputo più nulla.

La conoscenza delle lingue fece sì che, all’arrivo degli alleati, io e mia moglie fossimo entrambi ingaggiati dagli inglesi. Mia moglie come interprete, mentre io facevo l’attendente del Colonnello; il Comando aveva sede a Udine presso l’albergo “Italia”.

Anche mio fratello che aveva fatto diversi anni di prigionia con gli inglesi e che conosceva bene la lingua, venne ingaggiato come cuoco. Magdaleine a sua volta conosceva bene l’inglese, in quanto prima della guerra aveva trascorso cinque o sei anni in Gran Bretagna.

L’albergo “Italia” oltre che Comando era anche zona di sosta dei graduati dell’esercito alleato che si recavano in Austria e che quì prelevavano oltre ai viveri, vestiario e  sigarette. Le quantità a magazzino erano molto grandi e così, quando qualcuno non ritirava la sua parte di sigarette, lo facevamo noi per lui (per la gioia dei molti amici buiesi che ci aspettavano per il rientro domenicale).

Quando poi circolò la voce che riuscivamo a farci cambiare in lire la moneta usata dalle truppe di occupazione tedesca, che nessuno voleva, c’era sempre un via vai di persone che venivano a portarci dei marchi. Mia moglie, ben introdotta nel comando inglese, riusciva a farsi dare ben sette lire a marco. Questo era possibile proprio perché i militari alleati che si recavano in Nord Europa avevano necessità di moneta locale.

Tempo dopo la divisione corazzata fu trasferita in Palestina e ci fu chiesto di seguirla.

Rifiutammo, nonostante l’offerta di vitto, alloggio e la promessa di miglioramento dell’ottimo stipendio che già percepivamo.

Tempo dopo fui contattato dal sindaco di Buja il quale aveva avuto richiesta di manodopera temporanea in Austria. Fui incaricato dal Sindaco, assieme ad un altro bujese che parlava pure lui correntemente il tedesco, di accompagnare due squadre di operai (45 persone circa) al lavoro presso la diga di Caprun, in Austria.

Appena giunti sul posto di lavoro fummo avvicinati dal Direttore, una persona rimasta ferita ad una gamba in uno scontro con i partigiani in Italia e, se non ricordo male, fatto poi prigioniero e trattato molto male dai suoi carcerieri. Voleva a tutti i costi sapere se fra gli operai c’erano dei “patrioti”...

Mi affrettai subito a negare, dicendogli che questi erano dei poveri giovani senza lavoro, gli dissi che molti di loro avevano già lavorato in Germania e che i partigiani erano rimasti a fare i caporioni al paese.  

Se avesse saputo la verità, cioè che diversi di loro lavoravano lì, non ho idea di quello che sarebbe successo! Infatti aveva più volte lasciato intendere, non so quanto seriamente, che li avrebbe volentieri annegati o cementati...

Entrambi raccomandammo a tutti di fare molta attenzione a quello che dicevano mettendoli al corrente dei pericoli che correvano...

 

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