LE ME VUERE - (NOTE 1)
Dal libro di Luigi Collo "LA RESISTENZA DISARMATA"
MARSILIO EDITORI - VENEZIA - Pag.19 e seguenti
...Eravamo acquartierati, dopo il 25 luglio, nella valle dell’Adige, con tutta la divisione Tridentina. Ci eravamo accampati, dopo diversi spostamenti, a Bressanone, presso lo Chalet del Laghetto, dove avevamo intensificato l’addestramento delle nuove reclute giunte a rimpolpare gli organici del battaglione decimati dalla campagna di Russia. La popolazione locale ci era ostile e parteggiava apertamente per i tedeschi, non ancora nemici ma non più amici, che da parte loro avevano iniziato ad armare i civili di provata fede nazista. Le forze tedesche, in continuo aumento per tutta l’estate, presidiavano la valle dell’Isarco e dell’Adige con contingenti di fanteria e mezzi corazzati. Si arrivò, così, all’8 settembre ………………. All’improvviso, per radio, viene annunciato il comunicato di Badoglio: «La guerra è finita...» Il resto dell’annuncio viene coperto dalle grida di gioia, finalmente si torna a casa! L’euforia è di breve durata, di colpo si fa silenzio: i soldati intuiscono che le cose non saranno semplici, ci interrogano con gli occhi. Il maggiore comandante del battaglione decide di andare al Comando di divisione a prendere ordini, chiederà l’autorizzazione per un nostro immediato spostamento sulle pendici della montagna, a destra o a sinistra dell’isarco, ma almeno a duecento metri di quota sopra il fondovalle, dove ci sentiamo intrappolati fra le truppe tedesche, ora nemiche. Mentre il comandante è via, dispongo che le nostre forze si riuniscano nel bosco, a lato del lago. L’ordine è superfluo, i soldati sono già tutti, spontaneamente, in mezzo agli alberi, senza un rumore e in assetto di combattimento. Sono cinquecento uomini armati e decisi, pronti ad assalire i tedeschi prima di esserne sorpresi. Ma siamo solo una parte di una grande unità, non possiamo agire autonomamente. A malincuore, invito i miei soldati alla calma, in attesa di ordini dal Comando. Il maggiore ritorna, ha la faccia scura. Non è riuscito a convincere il comandante della divisione sull’opportunità di un nostro spostamento: non ci resta che rimanere in questa buca di fondovalle e aspettare ancora. Rafforziamo la guardia al campo e disponiamo che tutti si dorma vestiti, armi al piede; ma nessuno dorme, c’è troppa tensione. Il tempo sembra essersi fermato, i minuti scorrono lenti, sturiamo le bottiglie migliori per non lasciarle ad altri, ma siamo convinti che il peggio debba ancora arrivare. Improvvisamente, alle due e trenta, il silenzio è rotto da una raffica di mitra, seguita da colpi di moschetto e scoppi di bombe a mano. In pochi secondi si scatena un fuoco d’inferno in tutte le direzioni, gli uomini sono fuori dalle tende e rispondono ai tedeschi; la nostra situazione appare difficile, così ammassati in quella buca siamo facile bersaglio per il nemico. Chiamo a gran voce i miei genieri alpini e indico loro di portarsi dietro l’argine che abbiamo alle spalle, senza smettere di sparare, per guadagnare un riparo; i feriti sono già molti. Il fuoco su di noi è violentissimo e di volume enormemente superiore, il nemico possiede un gran numero di armi automatiche pesanti e mitragliere da 20 mm. L’inaspettata reazione, inoltre, induce i tedeschi a impiegare anche l’artiglieria, e in breve lo Chalet pare il centro di uno spettacolo pirotecnico per le continue esplosioni e le strisciate dei proiettili traccianti. Da parte nostra disponiamo di una sola mitragliatrice, una Breda da 8 mm., che in breve consuma i quattromila proiettili in dotazione. Una pattuglia tedesca, con un ufficiale e un interprete, si era presentata alla due e trenta a uno dei posti di guardia, chiedendo di parlare con il comandante. I nostri intimavano l’alt, e, mentre una sentinella veniva verso le tende, da una siepe al di là di un piccolo ruscello partiva una raffica di mitra nemica contro un’altra delle sentinelle che, insospettita, stava facendo un controllo. Subito, dal nostro posto di guardia aprivamo il fuoco, colpendo l’ufficiale e l’interprete. I conducenti della 1120 compagnia saltavano intanto fuori dalle tende, eliminando il resto della pattuglia nemica con un lancio di bombe a mano. Così si era scatenata la battaglia. Adesso siamo sull’argine del fiume, sotto il fuoco. Non c e via d’uscita, le due sponde sono saldamente presidiate dalle mitragliatrici, i tedeschi ci hanno completamente circondati, le loro artiglierie, schierate al di là del fiume, a circa 1500 metri, sparano senza interruzione sul boschetto dove erano le nostre tende. Le ore passano lente, da più parti giungono i lamenti dei feriti, ma nessuno desiste. Poi incomincia ad albeggiare e la nostra posizione al riparo dell’argine, che fino a quel momento i tedeschi non erano riusciti a individuare con precisione, a poco a poco si rivela. Il tiro dei cannoni si sposta e sull’argine piovono i primi proiettili. Dalla riva sinistra ci sparano alla schiena. Davanti a noi, a duecento metri, presso una casa, stanno cercando di mettere in moto un carro armato Tigre, appostato da alcuni giorni. Non abbiamo scampo: con il sorgere del sole saremo annientati. Dobbiamo assumerci la responsabilità di decidere la resa. Lungo tutta la vallata regna il silenzio, nessun altro reparto italiano si è mosso contro le truppe del Reich. Ci chiediamo se sia giusto sacrificare la vita di cinquecento ragazzi, senza speranza. Un sergente viene colpito in pieno da una granata da 75, un tenente da una scheggia che gli sfonda l’elmetto. Ancora un attimo di esitazione e chiediamo di parlamentare con il nemico.
Trascorrono lentissimi due o tre minuti, poi un sottufficiale tedesco lancia un razzo verde. Tutto intorno si fa silenzio. In un’alba livida e grigia scorgo negli occhi dei miei uomini una muta disperazione. I tedeschi arrivano in massa, con i mitra spianati, sospettosi. Danno ordini a gran voce e vogliono vederci tutti riuniti. Il loro comandante è ricoverato in una casa, a poca distanza, ferito due volte dal nostro fuoco. Vuole parlare subito con gli ufficiali. Rimango con i miei soldati, preoccupato di qualche reazione spiacevole da parte dei tedeschi che hanno subito molte perdite e sono nervosi. L’attesa è lunga. Il medico si dà da fare con i feriti, trasportati nello Chalet crivellato di colpi. Sono una ventina, compreso l’ufficiale colpito alla testa, che non dà segni di vita, ma se la caverà. Faccio in tempo a radunare le cose di prima necessità nello zaino che mi butto sulle spalle. Alla fine, pochi ordini in tedesco, secchi, e veniamo avviati verso la città, i soldati alla caserma di artiglieria di Bressanone, noi ufficiali al comando della Gestapo per essere interrogati. Infine raggiungiamo i nostri soldati. Le prime impressioni sono cattive. I tedeschi sono male intenzionati, non possiamo parlare tra noi, nel cortile dove siamo radunati sono piazzate diverse mitragliatrici puntate minacciosamente. Corre voce che la Gestapo ci abbia condannati per il combattimento. Veniamo a sapere che il comandante tedesco del reparto contro cui abbiamo combattuto, vuole invece considerarci prigionieri di guerra. E in corso una discussione sul nostro destino. Stiamo all’erta, attenti a ogni movimento dei soldati tedeschi, non vogliamo finire liquidati come bestie al macello. Gli altri ufficiali vengono radunati nel circolo ufficiali, con un tenente rimango tra i miei soldati e li esorto a stare calmi. Se dovesse verificarsi il peggio cercheremo tutti insieme di buttarci verso il cancello per sfondano e prendere la via della montagna. Forse solo pochi riuscirebbero a farla franca, ma sarebbe preferibile questo, piuttosto che lasciarci ammazzare tutti. A un tratto un tenente tedesco si avventa su di me con una pistola in pugno. Me la punta alla gola. Immobile, lo guardo negli occhi. Intorno a me i soldati sono pallidi e muti. L’ufficiale urla, fuori di sé dalla collera, e mi accorgo che vuole sparare. Si guarda intorno, è in mezzo ai miei uomini. Quello che vede lo fa desistere. La mia pelle è appesa a un filo, ma la sua non vale molto di più. .Lo legge negli occhi degli uomini. La sua vita per la mia, il conto non torna. Smette di gridare e se ne và. Tiro un sospiro di sollievo, stringo qualche mano ai più vicini, hanno capito. Continuiamo ad attendere, sperando di finire nelle mani della Wehrmacht e non delle SS. Nel pomeriggio, una lunga colonna di autocarri entra nel cortile. Pochi ordini in italiano, molte urla in tedesco, veniamo stipati sui mezzi, gli ufficiali separati dalla truppa. Alle sedici e trenta del 9 settembre incomincia la nostra prigionia..............
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