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Una bandiera 

per compagna

di Calligaro Angelo
(Angjelin di Mônt)

 

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Russia, primi di gennaio del 1943, quaranta gradi sotto zero. Sono giorni di ansia, di paura, di sconforto, di disfatta morale e materiale. Uno di quei giorni ci venne l’ordine di ripiegare. Alle cinque di sera cominciò la confusione. Io ed altri venti rimanemmo di retroguardia: sparavamo qualche colpo tanto per far credere al nemico che eravamo sempre sul posto. Dopo cinque ore partimmo anche noi, e dopo diverse ore di cammino riuscimmo a riunirci al nostro reparto. 

Eravamo fermi in un piccolo paese, aspettando che rientrassero gli altri reparti dalle diverse postazioni in cui si trovavano. Dovevamo partire insieme. In quel luogo si trovava il deposito divisionale, dal quale ci venne ordinato di prelevare lo stretto necessario, avendo cura di non abbandonare le armi e le munizioni altrimenti, così ci fu detto, saremmo stati perduti. 

Tra le cose da portare con noi c’era una bandiera. Era in mano di un giovane della mia squadra, quando questi si sentì chiamare da un compaesano. «Tienmela» mi disse, e si affrettò a raggiungere il suo amico, che aveva tra le mani un elmetto pieno di cognac. Io aspettai un poco, poi, visto che non tornava, piegai la bandiera e l’avvolsi intorno alla vita sotto la giacca. Faceva molto freddo, ed io non avevo il cappotto: quel pezzo di tela mi aiutava a coprirmi un po' di più. 

Dopo un certo tempo, l’uomo che mi aveva lasciato in consegna la bandiera si rifece vivo, ma io mi accorsi subito che era ubriaco fradicio. Morì di lì a poche ore, assieme a quelli che, per farsi forza, avevano esagerato col cognac senza sapere che ubriacarsi a quella temperatura era un suicidio.

La bandiera rimase così avvolta intorno a me, e divenne ben presto un nido per i pidocchi durante i diciotto giorni cruciali della ritirata. Appena riuscimmo ad uscire dall’accerchiamento, ebbi la fortuna di salire sull’ultimo treno ospedale che lasciava la città di Karcov. Il treno era così carico che non ci si poteva sedere nemmeno per terra. Così, stretto fra i letti ed il gabinetto, anche quello pieno di gente, passai tre giorni in piedi. Dietro di me c’era il termosifone del vagone, ma era troppo caldo per potervici sedere. 

Mi ricordai allora che la bandiera mi poteva tornare utile per isolarmi dal radiatore che bruciava: la ripiegai su sè stessa più volte che potei e, appoggiandola contro la superficie che scottava, riuscii ad avere qualche attimo di sollievo appoggiandomi contro. Ai disagi che già ci accompagnavano in quel viaggio di ritorno, si aggiunse un’epidemia di tifo petecchiale.

Arrivammo al Brennero una domenica mattina alle cinque. Ci accolse il suono delle campane e tutti scoppiammo a piangere. Ma non era tempo di fermarci. Alla stazione di Verona ci fermammo solo per cambiare la locomotiva, circondati dai militari che avevano l’obbligo di impedire a chiunque di avvicinarsi al treno. Finalmente arrivammo in Liguria, dove saremmo stati curati. Purtroppo alcuni morirono strada facendo, troppo deboli per sopportare fino in fondo quel viaggio terribile.

 Noi sopravvissuti fummo fatti scendere e spogliare, poi fummo mandati in una stanza adibita a doccia. Molti non potevano camminare. A quel punto sentii dire che tutti i nostri indumenti sarebbero stati bruciati per motivi igienici. La mia bandiera correva il rischio di fare la stessa fine dei nostri stracci, ma io la presi e la portai con me. 

A dire il vero cercarono di impedirmelo, ma non l’ebbero vinta: io la presi, la lavai, la spidocchiai insieme a me senza lasciarla un momento. Rilassato, forse, dal getto della doccia, mi prese ad un tratto un sonno insopportabile. Salii allora al secondo piano dell’edificio che ci ospitava e mi sdraiai sul letto, nascondendo il tricolore sotto il materasso. Subito dopo fui raggiunto da una suora che mi invitò a consegnarle la bandiera per farla bollire. «Ha già bollito abbastanza sul termosifone del treno» le risposi, e finalmente fui lasciato in pace: nessuno venne più a pretendere di togliermi quel prezioso pezzo di tela. 

Potei tornare a casa dopo un mese, poi, fatti quaranta giorni di licenza, mi trovai di nuovo sotto le armi, destinato in Jugoslavia. Volevo portare la bandiera con me, ma la guardai bene e vidi che non era più abile a fare la guerra. La consegnai così a mia madre che ne ebbe cura fino al mio ritorno.

Dopo la fine della guerra l’ho sempre esposta alla finestra di casa durante le cerimonie che si svolgevano in paese. Qualcuno mi criticava perchè portava ancora lo stemma sabaudo, altri si complimentavano con me per quello che volevo dire esponendo quel tricolore: io non mi scaldavo nè con l’uno nè con l’altro. 

Io solo sapevo cosa rappresentava per me. 

Avevo però una preoccupazione: «Chissà» mi dicevo, «quando sarò morto andrà a finirla in mezzo ai rifiuti, o farà chissà quale brutta fine». Quando venni a sapere che a Cargnacco si stava lavorando per realizzare un museo della guerra, non ci pensai due volte: la offrii subito ai responsabili di quell’iniziativa e fu così che la mia bandiera venne esposta in una vetrina, accompagnata da una didascalia che volli aggiungere sotto. 

Sono sicuro che quello è il posto giusto per lei. 

Un giorno, a Cargnacco, incontrai un caro amico con il quale avevo condiviso tutta la ritirata di Russia e lo invitai a vedere la bandiera esposta nella vetrina. Lui la guardò e due grosse lacrime gli uscirono dagli occhi. 

Abbiamo pianto insieme ricordando il passato. Siamo tanti quelli che sono tornati da quel passato e che hanno il diritto di portare sul cappello le spade incrociate dell’ARMIR: alcuni sono di quelli che abbiamo incontrato già fuori dall’accerchiamento e che hanno avuto la fortuna di fare soltanto dietro­front, altri sono quelli che hanno passato infinite peripezie vivendo giorno per giorno tutta la ritirata. 

I primi sono, spesso, quelli che parlano di più. Gli altri hanno un groppo sullo stomaco e se lo porteranno in silenzio fino alla morte.