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Guerra invernale in Russia

Diario della ritirata

1-31 gennaio 1943

di Vitaliano Barburini (1898 - 1993)

Capitano degli Alpini “Divisione Julia” - Battaglione Tolmezzo

 

FOTO RITIRATA

FOTO TESTO

 

11 gennaio 1943

     Da Korenoj in zona Saprina sul Don, già sede dei servizi dell’8° Reggimento Alpini mi trasferisco con le autocarrette nella nuova dislocazione delle truppe alpine situata nella località chiamata Kalikcta dal nome di un affluente del Don a nord-est di Rossos. Raggiungo nel tardo pomeriggio il comando base in un villaggio che porta il nome di Staro-Meinizi (Ternowka).

     In questo centro logistico, situato nelle immediate vicinanze del fronte, vi è una febbrile attività e un incessante movimento di slitte e automezzi per il rifornimento delle truppe in linea. Mi presento al comandante la base, tenente colonnello Bianchini, per ricevere ordini.

     L'inverno è rigido e la giornata molto fredda. Il termometro oscilla tra i venti e i trenta gradi sotto zero. La pianura ucraina è interamente coperta da uno strato uniforme di neve  che raggiunge in media mezzo metro di altezza.  Il cielo è limpido e sereno. Cala la sera, una sera cruda e gelida imbiancata da una luna che pare un gigantesco diamante.

 

12 gennaio 1943

     Trascorro la notte in un’isba, caratteristica casa russa rurale con il solo piano a terra.

Dagli ufficiali del comando base apprendo utili notizie  sulla situazione al fronte. Gli alpini dei tre battaglioni operanti dell’8° reggimento sono schierati da venti giorni lungo una linea improvvisata e stanno combattendo una battaglia di eccezionale asprezza sulla sponda destra del Don senza ripari naturali, esposti al freddo e alle bufere di vento e di neve, per contenere le truppe russe le quali, con attacchi che si succedono senza tregua tentano di sfondare il nostro schieramento e aprirsi la strada verso Rossos per aggirare l’intero Corpo d'Armata Alpino. Il nemico nella lotta impiega armi moderne e le sue truppe  sono particolarmente addestrate  alla guerra invernale.

     Nonostante  la situazione  sia delicata,  soprattutto per la mancanza di carri armati e cannoni anticarro, gli alpini compiendo davvero prodigi di valore, sono finora riusciti a fermare i Russi i  quali però non sembra intendano desistere dal loro tentativo e insistono senza tregua, con continue e rabbiose  azioni offensive, per piegare la nostra resistenza.

 

13 - 14 gennaio 1943

     Sono da due giorni a Staro Meinizi (Ternowka). Nessuna novità degna di rilievo. Il tempo trascorre in una febbrile attesa per l'incertezza della situazione. Vaghe notizie, che si diffondono con una nota di pessimismo, ci lasciano molto perplessi e dubbiosi circa la possibilità che sulla nostra destra, ove operano le divisioni tedesche e quelle dell’ARMIR, si riesca veramente ad arrestare l'offensiva in corso e sopratutto a controllare e neutralizzare le numerose infiltrazioni che il nemico effettua con veloci puntate di carri armati.

     Tuttavia rimane ancora qualche speranza nella resistenza al nord, lungo lo schieramento delle divisioni Cuneense e Tridentina e dell'Armata Ungherese. Dal comando del Corpo d'Armata Alpino per il momento non giungono notizie allarmanti.

 

15 gennaio 1943

     Verso le ore tredici, mentre stiamo consumando la colazione nell’isba sede del comando base, il tenente colonnello Bianchini è chiamato al telefono dal comando di reggimento.

Apprendiamo così, non senza sorpresa per quanto preparati al peggio, che dobbiamo tenerci pronti ad iniziare il ripiegamento verso nord in quanto tutto il nostro schieramento difensivo è minacciato alle spalle. Reparti corazzati nemici in avanguardia sono comparsi improvvisamente a Rossos e nonostante la sorpresa sono stati messi fuori combattimento dal tempestivo e deciso intervento delle truppe alpine. Questo fatto ha dato ovviamente l’allarme ai comandi superiori i quali temono che a questa prima puntata esplorativa altre ne seguano, e ben più consistenti, con lo scopo di avvolgere l'intero fronte del Corpo d'Armata.

     Nello spazio di tempo di quattro ore circa la truppa addetta ai servizi è pronta per la partenza con gli automezzi, le auto carrette, le relative attrezzature, con la scorta di benzina. Il materiale rimasto viene collocato sulle slitte. È già buio. Siamo sempre nella vigilante attesa dell'ordine di movimento per iniziare il ripiegamento.

     Alla sera, verso le ore venti, perviene dal comando di reggimento la conferma dell'ordine di partenza da effettuarsi alle prime luci dell'alba. La località di nuova destinazione è Karascium, distante circa venti chilometri in direzione nord-ovest. Detta località verrà raggiunta successivamente anche dai militari addetti ai servizi

 

16 gennaio 1943

     Dopo una notte insonne al mattino si predispongono gli ultimi febbrili preparativi per il ripiegamento. Il freddo è intenso, i primi raggi del sole sciolgono i vapori dell’aurora che avvolgono la pianura interamente coperta da una coltre pesante di ghiaccio.  Gli alpini sono pronti e le auto carrette sono schierate in ordine di marcia. Finalmente la colonna si muove con alla testa il comandante la base, seguito da un secondo automezzo sul quale prendo posto.

     Da oltre un'ora la corsa procede cauta senza incidenti e senza incontrare ostacoli. Giunti a un bivio si lascia alla nostra destra il villaggio Mesoncki. La colonna infila una vallata in direzione nord-ovest e s'inoltra lungo una strada stretta ove la neve alta, trasportata e accumulata dal vento, ostacola la marcia.

     Al mio sguardo si presenta il solito panorama: colline sulla destra coperte da qualche macchia boscosa che risalta sulla neve, sulla sinistra sempre colline degradanti verso un ampio terrazzo. La valle, a mano a mano che in essa ci si addentra va restringendosi e dietro ad un costone in basso si profila una conca dalla quale spuntano le prime case di un villaggio.

     Scorgo una lunga fila di automezzi e carriaggi che bloccano il cammino del nostro reparto, cosicché siamo costretti a sostare per oltre un paio d'ore; poi si prosegue lentamente e a fatica fino quando si raggiunge il villaggio denominato Karascium. Ci sistemiamo alla meglio in un’isba da poco abbandonata da una pattuglia di collegamento della divisione Cuneense.

     Questa divisione tiene per ora saldamente il suo schieramento in linea lungo il Don, consentendo l'ordinato ripiegamento della "Julia". Siamo tuttavia consapevoli che la presente situazione è legata, oltre alla resistenza delle divisioni alpine Cuneense e Tridentina, al comportamento dell’armata ungherese schierata più a nord. Se le unità ungheresi dovessero ripiegare la presente situazione alquanto precaria precipiterebbe con gravi conseguenze per tutti.

     L'isba dove abbiamo trovato temporaneo ricovero è in uno stato di deplorevole abbandono perciò siamo costretti ad una sistemazione di fortuna. Intanto gli automezzi, le autocarrette e le salmerie della base dei servizi hanno raggiunto Karascium.

 

17 gennaio 1943

     Al mattino siamo completamente all’oscuro degli avvenimenti bellici. Durante la notte vi è stato un continuo e incessante passaggio di truppe, di carriaggi, di automezzi e carri armati tedeschi. Dal comando della Cuneense intanto ci giunge l’improvvisa notizia che l’intero fronte ungherese a nord ha ceduto in seguito all'azione decisiva e violenta del nemico il quale ha attaccato con preponderanti e agguerrite forze corazzate. Ormai siamo chiusi da tutte le parti, mentre i Russi avanzano in direzione ovest. L'unica protezione per il momento è per noi lo schieramento frontale della divisione Cuneense la quale tiene ancora la linea in posizione difensiva.

     Nell’isba ci raccogliamo silenziosi in attesa di ordini, turbati dal precipitare degli avvenimenti.

     Alle diciassette il maggiore Rizzo recapita un ordine del comando della divisione Julia di marciare verso nord in direzione di Popowka. Intanto anche la divisione Cuneense si appresta ad iniziare la ritirata. Ad Annowka, villaggio sede del comando della Cuneense, numerose isbe sono in fiamme. Lingue di fuoco si diffondono nella rigida atmosfera gettando nella notte che sta per scendere sinistri bagliori. Il vento gelido del nord alimenta gli incendi.

     Quanto succede intorno a noi va assumendo davvero un aspetto apocalittico per la confusione, il disordine, il frenetico andirivieni che il febbrile scavalcarsi dei reparti e l’incrociarsi degli automezzi e delle slitte determinano nel tentativo di superarsi e guadagnare terreno lungo l’unica via transitabile. Impossibilitati a proseguire con gli automezzi, essi vengono forzatamente abbandonati. Continuiamo così a piedi con le sole slitte trainate dai muli e procediamo a fatica verso il nostro obiettivo che è quello di raggiungere al più presto possibile Popowka.

     Il vento gelido aumenta il disagio e acuisce le sofferenze. Nel momento in cui ha veramente inizio quella che si può definire senza retorica la marcia disperata attraverso il deserto bianco, le mie reminiscenze storiche mi portano mentalmente lontano nel tempo, fino a risalire alla famosa campagna napoleonica di Russia - che gli storici hanno in diversi modi interpretato e descritto e che si concluse, dopo brillanti vittorie campali, nella disastrosa ritirata dell’autunno 1812, durante la quale l’invitta armata fu sgominata dal freddo, dalle bufere di neve e inghiottita dallo spazio. Quella storia così lontana - anche se i protagonisti sono cambiati - io la rivivo in tutta la sua triste e tragica realtà.

     Camminiamo da oltre due ore. Io procedo a piedi alternando il cammino con qualche breve riposo sulla slitta. Faccio notevoli sforzi di volontà per vincere il sonno e per non lasciarmi prendere dalla stanchezza. Il vento soffia con violenza e penetra attraverso le vesti. Nel lento procedere sulla desolata pianura ammantata di bianco e nella notte fonda, il tempo sembra sospeso. Finalmente appaiono le prime isbe di un villaggio che non dà alcun segno di vita. Il vento cessa d'intensità e il freddo attenua la stringente morsa. Sostiamo a riposare e a riscaldarci in una scuola abbandonata.

     Dopo una sosta relativamente breve per ritemprare le forze si riprende il cammino in direzione di Sudjewka-Iwanowka. Abbandonata la strada maestra ci inoltriamo lungo una pista indicataci da un contadino russo incontrato per puro caso (temiamo che sia un partigiano che abbia in animo di tradirci e condurci in qualche imboscata) e che dovrebbe consentirci di raggiungere più presto il suddetto villaggio.

     La colonna si snoda in una lunga fila e procede lentamente e con difficoltà perché i muli affondano nella neve. Si procede con molte cautele tenendo a bada la guida, sempre guardinghi nel timore di sorprese. Sulla nostra sinistra in direzione di Rossos immense fiamme si levano nel cielo illuminando la notte d'accesi bagliori. Scoppi violenti sono accompagnati da improvvise fiammate.

 

18 gennaio 1943

     Si raggiunge verso le sei del mattino il villaggio di Sudjewka-Iwanowka, situato a nord di Popowka. Qui troviamo i locali, già adibiti ad ospedale da campo della divisione Julia, evacuati dai reparti di sanità, dagli ammalati e feriti. Truppe tedesche li occupano in parte, mentre ovunque si riscontra disordine e abbandono.

     Riusciamo a sistemare come meglio è possibile gli alpini stanchi e sofferenti per l’avventurosa e faticosa marcia notturna. Io trovo rifugio in un’isba già adibita ad uso infermeria. Anche il comandante la base ed un altro ufficiale prendono alloggio nell’isba. Mi corico a terra stanco in un angolo dell’isba e sopra un giaciglio di paglia, riparandomi dal freddo con il sacco a pelo, mi abbandono ad un sonno ristoratore.

     Svegliatomi alle prime ore del pomeriggio consumo le ultime provviste di viveri, mentre l’attendente riesce a far funzionare una stufa monumentale, cosicché abbiamo finalmente il conforto con un po’di calore. Siamo intanto in attesa di notizie per proseguire la marcia di ritirata. All’intorno regnano una calma ed un silenzio che ci lasciano piuttosto perplessi.

     Alla sera ancora non si sa nulla di quanto avviene nel nostro settore e perciò siamo in apprensione per il giustificato timore di essere tagliati fuori dal grosso delle truppe in ritirata con la prospettiva di cadere da un momento all'altro prigionieri del nemico senza accorgersene. Durante le prime ore notturne il silenzio è rotto a intervalli dal rombo dell’artiglieria e dal molesto e petulante gracchiare delle mitragliatrici. È un reparto di mitraglieri di retroguardia che sottolinea la sua presenza, pronto a fronteggiare le avanguardie nemiche che ci incalzano nella ritirata.

     Verso le due del mattino del 19 gennaio finalmente il nostro comandante riceve l'ordine di partire con la colonna salmerie alle prime luci dell’alba per raggiungere Popowka dove i reparti combattenti dell’8° e 9° alpini sono in attesa d'iniziare la ritirata verso ovest. L'ordine impartito al comandante la base fa parte del piano generale di ritirata predisposto dal comando del Corpo d’Armata alpino. La divisione Tridentina, con il comando dello stesso Corpo d'Armata, deve spingersi a nord-ovest; la divisione Julia deve portarsi più a sud, mentre la divisione Cuneense deve seguire a breve distanza i movimenti delle prime due divisioni per intervenire come massa di manovra di riserva a secondo delle necessità tattiche.

     Questo piano di ritirata, data la precarietà delle circostanze, ha ovviamente un carattere puramente orientativo, da tradursi in realtà operativa in relazione allo sviluppo e all'ampiezza dell’azione offensiva nemica in corso. D'altronde è fin troppo evidente che non è possibile, nelle condizioni d'inferiorità in cui ci troviamo, per mancanza di collegamenti e precise direttive, valutare le intenzioni del nemico e prevenirle. A questo si aggiunga l’entità considerevole delle forze nemiche e la potenza del loro armamento. Esse poi sono favorite oltre che dall’iniziativa, dalla perfetta conoscenza del terreno e notevolmente avvantaggiate dall’appoggio dei modernissimi e potenti carri armati T34; enormi bestioni con un sorprendente volume di fuoco e contro i quali non esiste da parte nostra possibilità di efficace difesa. Infatti il Corpo d’Armata alpino non dispone che dei resti di una divisione corazzata tedesca, le cui forze superstiti hanno il compito di appoggiare la ritirata della divisione Tridentina, verso la quale dovrebbero convergere le due divisioni alpine su indicate, qualora risultasse impossibile proseguire verso ovest.

 

19 - 20 gennaio 1943

     All'alba partiamo con l'intera colonna salmerie e servizi per raggiungere Popowka in direzione di Rossos. Popowka dista da noi circa sei chilometri in linea d’aria. La giornata è rigida e il cielo carico di nubi. Cade qualche fiocco di neve. Il paesaggio è triste: pochi alberi grigi e spogli, spuntano qua e là con i loro nudi rami, come tanti scheletri. Ovunque intorno sono visibili i segni della ritirata e il panorama si presenta triste e squallido. Case incendiate bruciano ancora e lungo i margini della strada e un po’dovunque si vedono dei carriaggi abbandonati, binari della ferrovia divelti, carogne di cavalli e di muli, in parte coperte di neve. Incrociamo dei reparti tedeschi che procedono in senso inverso alla nostra marcia dirigendosi verso nord. È un susseguirsi confuso di carriaggi e di automezzi. Il cannone tuona ora con sempre maggiore insistenza.

     Avvicinandoci a Popowka sentiamo distintamente il crepitio delle mitragliatrici e l'eco della fucileria. Raggiungiamo verso le nove questa località e troviamo il reggimento, notevolmente ridotto dei suoi effettivi, schierato e pronto per iniziare la ritirata verso Nowa-Postojalowka. Sono gli alpini dei tre battaglioni dell'8°: Tolmezzo, Gemona e Cividale, che hanno vissuto le terribili giornate della logorante battaglia difensiva sulla sponda destra del Don. Purtroppo il Corpo d'Armata Alpino a causa del cedimento improvviso dell'intero schieramento difensivo lungo la grande ansa del Don, per l'incalzare di preponderanti forze corazzate nemiche, ha dovuto sostenere l'urto frontale dei Russi senza l’indispensabile appoggio delle forze corazzate e fare da scudo alle forze tedesche che sorprese dall’avanzata del nemico hanno predisposto un vasto ripiegamento strategico al fine di evitare l’accerchiamento.

     Il colonnello Cimolino, comandante l'8° reggimento alpino, riceve il comandante la base e noi ufficiali dei servizi, scambiando il nostro saluto appena con uno stanco cenno della mano. Il suo volto tradisce l'emozione per le dolorose prove alle quali sono stati sottoposti i suoi alpini e più ancora per le incognite a cui ora vanno incontro. Ordina al tenente colonnello Bianchini di seguire con le salmerie e servizi i reparti combattenti. S'inizia così la prima tappa dell’itinerario stabilito.

      Il freddo è diminuito d'intensità. Il cielo è plumbeo e la neve comincia a cadere lentamente. Attraversiamo il villaggio lasciando alla nostra sinistra dei reparti d'artiglieria tedeschi che fronteggiano e contengono l’avanzata delle avanguardie nemiche e procediamo in direzione ovest. Dopo oltre tre ore, con la neve che ostacola la visuale e rende difficoltosa la marcia, arriviamo sopra un’altura non identificata. Il tempo intanto va migliorando e il sole penetra debolmente attraverso le nubi basse che ci avvolgono in una fitta nebbia. Sostiamo per riposare e ripartiamo scendendo dall'altura per addentrarci in un profondo canalone che dopo breve tratto si apre in un’ampia vallata in direzione nord-ovest.

     L'intera colonna nel pomeriggio avanzato si trova a pochi chilometri da Nowa-Postojalowka. Essa raggiunge una profondità di oltre un chilometro; costretta dalla conformazione del terreno e dall’asperità del percorso subisce continui rallentamenti.

La preoccupazione che ci tiene sospesi è di potere superare al più presto il villaggio di Nowa-Postojalowka, situato lungo la strada principale percorsa dai carri armati e di evitare un attacco di sorpresa date le nostre condizioni d'inferiorità per la mancanza dell’appoggio dei cannoni anticarro.

     Mentre i primi reparti del reggimento raggiungono un bosco situato sopra un’altura, parte della colonna si snoda lungo il terreno ondulato completamente libero alla visuale dall’alto perché il cielo si è fatto sereno. Un aereo, di cui in un primo tempo non si riesce a stabilire la nazionalità, incrocia sopra le nostre teste descrivendo dei cerchi e semicerchi, come a cercare l'orientamento per meglio individuarci. Poi si abbassa improvvisamente fino a pochi metri sopra la nostra colonna, riprende quota per discendere nuovamente; quindi sorvolando velocemente i reparti in cammino lascia cadere diversi spezzoni che per fortuna producono soltanto lievi danni.

     L'aereo insiste nell’azione con un altro spezzonamento, questa volta andato a vuoto e poi si dilegua perdendosi all’orizzonte. Le prime ombre della sera scendono improvvise sulla distesa ghiacciata. Si giunge con il reparto salmerie sopra un pianoro e qui perviene l'ordine di sostare al riparo di un bosco che si allarga come una macchia oscura sul terreno coperto di neve.

     Le avanguardie del reggimento raggiungono intanto, a circa un chilometro da noi, le prime case di Nowa-Postojalowka. In un'isba abbandonata, nascosta fra gli alberi è provvisoriamente sistemato il comando della divisione Cuneense, i cui battaglioni ci seguono con funzioni di retroguardia.

     La sosta imposta dalle circostanze si prolunga oltre il previsto e ciò incomincia a preoccuparci per il timore che la situazione militare vada assumendo per noi un andamento tutt’altro che favorevole. Infatti un febbrile andirivieni; un incrociarsi insolito di ordini giustificano la nostra apprensione. Dopo una lunga e snervante attesa si viene purtroppo a conoscenza che i carri armati russi hanno bloccato, come si temeva, l’ingresso al villaggio con il fermo proposito di arrestare la nostra ritirata verso ovest. I reparti combattenti ricevono l'ordine di avanzare mentre i servizi devono rimanere sul posto in attesa.

     La situazione appare molto seria. Entro con il comandante Bianchini nell'isba occupata dal comando della Cuneense e assisto al breve colloquio che egli ha con il generale Battisti: una bella figura di ufficiale e di soldato dalla caratteristica personalità. Una radio da campo funziona a intervalli. Nell'isba, gremita da ufficiali e alpini del comando di divisione, si seguono con ansia le notizie che giungono, attraverso i messaggi radio, dal comando del Corpo d'Armata Alpino. Si apprende così che la divisione Tridentina, con l'ausilio dei reparti superstiti della divisione corazzata tedesca, fronteggia con esito favorevole l'attacco delle forze russe che tentano di ostacolare la ritirata. È già notte alta. Laggiù ad oltre un chilometro da noi si combatte contro i carri armati che sono tempestivamente riusciti a prevenire la nostra manovra.

     Le avanguardie del reggimento sono entrate nel villaggio e sono riuscite ad arrestare e neutralizzare l'azione dei carri armati, ma lo slancio e lo spirito di sacrificio degli alpini e degli ufficiali non bastano a mutare le sorti della battaglia il cui andamento è per noi sfavorevole date le preponderanti forze nemiche e la superiorità del loro armamento. Le perdite sono purtroppo elevate.           Alle tre circa del mattino raggiungo con il comandante la base l'isba del comando di reggimento mentre i reparti servizi e salmerie con il favore dell’oscurità hanno raggiunto le prime isbe di Nowa-Postojalowka. La battaglia continua intanto con alterne vicende nella notte fredda. A brevi pause di silenzio seguono il fragore dei colpi di mortaio, il crepitio delle mitragliatrici e della fucileria. Cadono nelle immediate vicinanze dell’isba, con violenti scoppi, i proiettili di cannone che i russi sparano a intervalli dai carri armati. Ufficiali e soldati si prodigano senza tregua nella lotta impari con sorprendente coraggio. Si combatte non soltanto contro un nemico agguerrito e baldanzoso per la vittoria, ma altresì contro un altro nemico invisibile e non meno pericoloso: il freddo

     Verso l'alba su tutto il settore vi è una momentanea tregua. Isolate azioni di disturbo segnalano la nostra presenza attiva. Il tempo trascorre in una logorante attesa, mentre continuano ad intervalli gli scoppi di mortai e le raffiche di mitragliatrice. Con l’unica radio da campo ancora efficiente il comandante Cimolino lancia ripetuti appelli al comando del Corpo d’Armata alpino sollecitando l'intervento dell’aviazione per vincere la resistenza dei carri armati. Purtroppo gli appelli non vengono raccolti. Alle prime luci del giorno la battaglia riprende con maggiore vigore per iniziativa dei russi che sembrano ormai decisi a condurre la lotta fino in fondo per farci tutti prigionieri. I cannoni di un reparto del gruppo artiglieria "Conegliano" sparano con insistenza contro i carri armati riuscendo appena a scalfire le munite corazze dei T34.

     Al mattino avanzato i reparti servizi e salmerie ricevono l'ordine di arretrare. Seguo il tenente colonnello Bianchini comandante la base e ci troviamo all’aperto, senza adeguati ripari, in mezzo allo scoppio delle granate e al fuoco incrociato delle mitragliatrici, i cui proiettili fischiano sulle nostre teste. Organizziamo il trasferimento dei reparti dipendenti in una zona arretrata a circa un chilometro distante e sostiamo in un bosco con scarsa vegetazione. Occupiamo le poche isbe abbandonate al riparo dei tiri delle mitragliatrici. Gli attacchi russi si susseguono per tutta la mattinata e fino alle prime ore del pomeriggio. La situazione intanto precipita e appare per noi ormai disperata perché i russi, facendo affluire truppe di fanteria, sono riusciti a circondarci da tutte le parti. Anche i reparti della Cuneense partecipano ora al combattimento.

     Alle sedici circa il comandante Bianchini, il quale aveva perduto ogni contatto con il comando del reggimento, viene a sapere dal comando della divisione Cuneense che l’8° alpini con elementi avanzati della stessa divisione erano riusciti a sganciarsi dal nemico e proseguivano la ritirata in direzione nord-ovest con l’intendimento di unirsi alla divisione Tridentina, la quale era riuscita ad aprirsi un varco a nord. Dal comando della Cuneense, situato presso i nostri reparti, viene impartito l'ordine a tutte le truppe sul posto di ritirarsi al più presto verso l'unica via aperta al nord per sottrarsi alla prigionia. A sud-est nella zona collinare circostante premono i Russi contro le difese mobili della retroguardia formata dagli alpini del battaglione "Mondovì". Sono circa le ore diciassette.

     Prima d’iniziare l’avventuroso cammino nel deserto bianco gli alpini friulani si stringono insieme e intonano in coro un canto lento e solenne che rompe l’aria gelida con le sue gravi note "Stelutis alpinis" Questo canto triste e nostalgico che rievoca le cose care lontane è un accorato saluto al Friuli e alla Patria. Il canto si spegne nello squallore della sera che sta per scendere sulla desolata pianura. Ora tutto è calmo e silenzioso all'intorno; un silenzio triste, pauroso che ci lascia con l'animo sospeso e trepidante.

     Gli alpini stremati dalle fatiche, dai disagi e dal freddo, senza più vincoli organici, senza possibilità di rifornimenti, senz’armi per un valida difesa, senza alcuna coesione fra i reparti, esposti alle avversità del clima, all'azione dei partigiani, agli ostacoli frapposti dalla natura ostile, alle incognite della battaglia in corso, sono tuttavia sostenuti da una disperata volontà di resistere. Da questo momento non è possibile raccontare i fatti con il consueto vocabolario; di ciascuna parola bisogna svelare un significato nuovo e solenne che sta sospeso fra l’umano e l’irreale. Le salmerie si muovono lentamente in direzione del villaggio di Samoilenko. Si procede cauti e con difficoltà perché i muli affondano nella neve. Per meglio difenderci dalle offese e prevenire le sorprese nemiche abbiamo scelto un percorso fuori dalle piste battute e proseguiamo in aperta campagna fra un susseguirsi d'ondulazioni, brevi pianori e ripidi pendii.

     Ho abbandonato ogni cosa superflua, non strettamente indispensabile, per essere più leggero e spedito nella ritirata. Le slitte scivolano sulla neve come tante ombre nere sul diffuso biancore. Il cielo è limpido e stellato. Sulla nostra sinistra si distingue in lontananza un vivo chiarore che illumina l'orizzonte. Abbiamo percorso metà strada lungo un tratto difficile per l’asperità del terreno. Il silenzio che accompagna il lento procedere è rotto ad intervalli dal caratteristico ronzio di un aereo russo che incrocia alto sopra di noi che ci fermiamo immobili sulla neve perché non possa notare le macchie oscure in movimento che si proiettano sul terreno.

     Finalmente avvistiamo le prime isbe isolate di un villaggio. È Samoilenko. Tutt’intorno è buio e silenzio. Ci inoltriamo con prudenza e sostiamo all'aperto per diverso tempo prima di renderci conto della situazione poiché non riscontrando alcun movimento e alcun segno di vita, temiamo che il villaggio sia occupato dai Russi in agguato. Temiamo anche la presenza di partigiani.

     Dall’alto si ripete lo strano ronzio dell'aereo che ci aveva accompagnati durante la marcia di trasferimento. Un sibilo prolungato, accompagnato da uno scoppio fragoroso, rompono il silenzio. Numerosi spezzoni si abbattono poco lontano da noi che cerchiamo riparo a ridosso di un gruppo di isbe. Subito dopo constatiamo rasserenati che il villaggio è interamente occupato dai reparti della Julia e della Cuneense che ci avevano preceduto. Si sente ancora il rumore strano dell'aereo, poi cade di nuovo il silenzio sul villaggio addormentato. Sono da poco suonate le ventiquattro ore. Riusciamo a stento a trovare ricovero per la notte in un’isba già occupata dagli ufficiali della divisione Cuneense.

 

21 gennaio 1943

     Verso le sette siamo di nuovo in piedi per continuare la ritirata verso nord. Prima di riprendere il cammino il tenente colonnello Bianchini vuole sincerarsi, per quanto possibile, sull’andamento della ritirata e all’uopo prende contatto con il generale Ricagno, comandante la divisione Julia, il quale aveva pernottato con il suo stato maggiore in un’isba nel villaggio. Dal colloquio non emerge nessuna novità che ci sollevi dallo stato di abbattimento in cui ci troviamo perché tutto è confuso e incerto, mentre s'ignora per ora la sorte dell’8° reggimento alpini.

     Lasciato il villaggio, dopo circa un'ora di marcia incrociamo le truppe della Cuneense che, partita dalla nostra stessa località, ha seguito un diverso itinerario. Questa divisione ha tutti i reparti ancora efficienti per quanto anch’essi duramente provati dalle fatiche e dai disagi. Non si può dire altrettanto della divisione Julia i cui sparuti ed isolati nuclei superstiti sono ormai stremati di forze e logorati dai combattimenti difensivi sul Don e contro le avanguardie russe nella prima fase della ritirata. Fra loro si confonde il generale Ricagno il quale procede sopra una slitta attorniato dagli ufficiali del comando al seguito della divisione Cuneense e ormai rassegnato alla dolorosa scomparsa della sua gloriosa divisione.

     Spuntano da tutte le parti elementi appartenenti ai più disparati reparti che hanno perduto i vincoli organici e che, se conservano le armi, non possono tatticamente usarle perché mancano dei loro ufficiali. I più hanno soltanto il fucile o il mitra, mentre tanti sono privi di armi, perdute nell'orgasmo della ritirata, abbandonate perché senza munizioni, oppure per liberarsi da un peso divenuto, per quanto modesto, insopportabile dato lo stato di depressione fisica e morale in cui si trovano. Molti sono conducenti senza quadrupedi, autieri che hanno dovuto abbandonare gli automezzi, artiglieri che hanno perduto i cannoni in combattimento, uomini di sanità, della sussistenza, dei servizi speciali, truppe disperse e via discorrendo; tutti accomunati da eguale sorte.     Fra essi si notano dei soldati piuttosto anziani appartenenti alla divisione Vicenza.

     Questi soldati inviati in Russia per essere adibiti esclusivamente ai servizi nelle retrovie del fronte, coinvolti anch'essi nella ritirata, hanno dovuto sostenere duri combattimenti difensivi senza adeguata preparazione e senza essere particolarmente addestrati alla guerra invernale. Dopo molte ore di cammino il nostro itinerario ci porta ad uscire da una strada secondaria, incassata fra le colline, per procedere più ad ovest dove si deve incrociare una grande arteria percorsa dai carri armati. Giungiamo in un villaggio di poche isbe scaglionate parallelamente alla strada principale dianzi menzionata. Qui siamo bloccati e costretti ad una lunga sosta.

La divisione Cuneense prima d'avventurarsi ad attraversare la strada va predisponendo le necessarie misure precauzionali per non farsi sorprendere dai carri armati.

     Il nemico intanto ha localizzato le nostre posizioni ma non può spingersi fino a noi perché l'andamento del terreno e la neve ostacolerebbero a tal punto i movimenti dei carri armati da esporsi all'offesa delle nostre armi. I T34, ciascuno col così detto equipaggio di coperta, cioè un nucleo di arditi in uniforme bianca, imbottita di piuma che viaggiano appesi come grappoli e sparano all'impazzata con i loro "prabellum" (fucile mitragliatore), appaiono e scompaiono con rapide puntate. Qualche colpo di cannone lanciato verso di noi scoppia lontano dietro le case senza causare danni. L'azione dei carri armati si protrae per lungo tempo costringendo la colonna dei combattenti e delle truppe sbandate ad una sosta snervante e pericolosa all'aperto con una temperatura polare che s'avvicina ai trenta gradi sotto zero. Finalmente i T34 si allontanano.

     Sono circa le ore quattordici quando l'intera colonna si muove per attraversare la strada. Il nostro reparto segue la Cuneense. Gli alpini di questa divisione procedono ordinati e proseguono lungo un pendio ripido per poi inoltrarsi in un profondo canalone al riparo del tiro diretto dei cannoni russi.

     Come da ordine ricevuto ci fermiamo con il nostro reparto al di là della strada principale a ridosso di un'isba riparata da un’altura per dare la precedenza ai battaglioni della Cuneense. Il comandante la base schiera gli uomini in posizione difensiva al riparo in una trincea naturale situata davanti l'isba.

     L'isba è occupata da tre donne, due giovani ed una anziana, le quali alla presenza degli ufficiali e degli alpini, che a turno vi sostano per riscaldarsi, mostrano evidenti segni di paura ovviamente giustificata. Tuttavia dinnanzi al nostro contegno tutt’altro che minaccioso si rinfrancano e si tranquillizzano, lasciando peraltro trasparire dai loro gesti un'istintiva diffidenza. Una di esse, la più anziana, ogni tanto entra in una stanza accanto per uscire subito con aria preoccupata. Da quella parte giunge un tenue lamento. Insospettito sto per entrare nella stanza, un po’per curiosità e per accertarmi se vi sia qualcosa d'anormale, quando la donna con amorevole insistenza, a gesti e pronunciando parole in russo che non comprendo, m'invita a desistere dal mio proposito, collocandosi infine di traverso la porta d'ingresso.

     Con un gesto deciso entro di prepotenza. Vedo adagiato sopra un letto un soldato russo con le vesti addosso, dolorante per una larga ferita al fianco. La ferita è fasciata alla meglio con una tela bianca tutta intrisa di sangue. Mi ritiro senza profferire parola, mentre la donna, sorpresa dal mio atteggiamento, accenna ad un sorriso a fior di labbra, come per sottolineare il suo consenso e il suo apprezzamento per il mio comportamento sul piano umano, timorosa d'una negativa reazione da parte mia. Sono trascorse due ore da quando anche noi, confondendoci con le numerose truppe sbandate, ci incolonniamo continuando la marcia faticosa in direzione di Nowo-Karlcowa ove, senza altre emozioni e sorprese, giungiamo verso le diciannove.

     Molte case del villaggio sono in fiamme e qua e là si notano le tracce di recenti combattimenti. Ci inoltriamo nel villaggio con le necessarie precauzioni per la sospetta presenza di partigiani. Comunque ormai, stanchi come siamo e in grave disagio per il freddo che si fa sempre più sentire, non abbiamo alternative in quanto proseguire vorrebbe dire esporsi a ben più gravi pericoli.              Entriamo in un’isba abitata da un vecchio e due donne che esitano a darci ospitalità.

     Mi corico sul pavimento e m'immergo subito nel sonno vinto dalla stanchezza. Verso le tre del mattino mi sveglio di soprassalto per l'improvviso caratteristico rumore del passaggio di carri armati; poi intorno cade di nuovo il silenzio.

 

22 gennaio 1943

     Riprendiamo il cammino per tempo. Dobbiamo raggiungere la località Krawskowa che ci era stata indicata al comando della Cuneense quale luogo di concentramento di tutti i reparti in movimento. La nostra colonna è formata da alcune slitte trainate dai muli, dai muli isolati con i loro fedeli conducenti, dagli alpini dei servizi e dagli sbandati provenienti dai battaglioni dell’8° che hanno perduto il contatto con i loro reparti negli ultimi combattimenti.

     Procediamo con prudenza e vigilanti per la segnalata presenza di partigiani e ci inoltriamo attraverso la campagna gelata per raggiungere la strada più a nord. Non vediamo truppe dinnanzi a noi. Veramente abbiamo indugiato troppo prima di partire ed ora ci troviamo isolati e maggiormente esposti alle sorprese ed agli agguati.

     Da oltre un’ora avanziamo a stento sul terreno coperto di neve quando intravediamo, a qualche centinaio di metri da noi, una strada lungo la quale si trascinano dei soldati isolati. Li raggiungiamo in breve e proseguiamo innanzi. Questi sbandati sfiniti dalla fame, dalle fatiche e dal freddo, con i piedi fasciati di stracci o addirittura avvolti nella paglia, taluni con una coperta sulle spalle in luogo del cappotto, altri con il solo cappotto sfilacciato e reso quasi inservibile che camminano appoggiandosi l’uno all’altro perché non possono più reggere sui piedi doloranti, mi suscitano un senso di pena, che non so descrivere, tanto più constatando la nostra impossibilità materiale di poter dare loro aiuto in quelle contingenze. Qualcuno si ferma, esita, barcolla e poi si abbandona sulla neve ai margini della strada. Il freddo, questo terribile e invisibile nemico, avrebbe lentamente ma inesorabilmente suggellato con la morte la loro forzata e dolorosa immobilità.

     Continuiamo lungo il nostro itinerario assistendo più avanti ad altre scene che ci rattristano. Finalmente dinnanzi a noi vediamo una colonna con quadrupedi e slitte. Pensiamo ora d'avere imbroccato la strada giusta. Siamo in marcia da oltre tre ore. Sulla sinistra dietro le colline si odono dei colpi di cannone. Il tempo si mantiene bello. Il sole alto all'orizzonte non riesce con il suo calore ad attenuare il freddo intenso che ci mozza il respiro. Per nostra fortuna non tira vento.

     Sono trascorse da poco le ore dieci e procediamo sempre in direzione nord-ovest, quando all'improvviso ci troviamo dinnanzi ad una vasta conca a forma d'anfiteatro, circondata ai due lati dalle colline che si sovrappongono come un'immensa scalinata. Lungo un dolce declivio spuntano delle isbe che si prolungano su due file simmetriche.

     Abbiamo raggiunto infine il villaggio di Krawskowa. Qui sostano scaglionate in profondità numerose truppe, slitte e quadrupedi, la divisione Cuneense al completo. Sostiamo all'aperto in attesa di eventuali ordini da parte dei comandi superiori. Il comandante Bianchini riesce ad avvicinare il generale Ricagno e gli ufficiali del comando della divisione Julia che sono giunti al seguito della Cuneense. Da loro si apprende che il comando dell’8° reggimento alpini, al completo, e parte degli effettivi dei tre battaglioni che erano riusciti a sganciarsi dal nemico, sono stati fatti prigionieri in seguito ad una veloce puntata di carri armati.

     Sono caduti prigionieri oltre al comandante Cimolino, l'aiutante maggiore Magnani, il tenente colonnello Zacchi comandante del Cividale e il tenente colonnello Leonarduzzi comandante del battaglione Tolmezzo e tanti altri. La notizia ci sorprende e ci rattrista. L’8° reggimento alpini così è scomparso dalla scena travolto dagli eventi, dopo essersi sacrificato in una lotta senza speranza e avere scritto un’altra pagina luminosa da aggiungere alla sua gloriosa epopea. La situazione sembra precipitare. Ignorasi la sorte del 9° alpini. Il comando della Julia separato dalle sue truppe, ovunque sperdute nel deserto bianco, non è orami che una entità simbolica con lo sfortunato e valoroso comandante e i pochi ufficiali che gli sono rimasti fedelmente accanto. Fra essi vi è il maggiore Fant di Tarcento (Udine ).

     La Cuneense indugia, non si decide a muoversi. Siamo fermi da molte ore, preoccupati e ignari di quanto sta succedendo.

     La stanchezza e il freddo agiscono in senso negativo sulle nostre provate energie fisiche concorrendo a rendere sempre più pesante l'attesa. Aleggia nell’aria qualcosa d’indefinibile, d'ineluttabile che immobilizza la nostra volontà. Ecco che finalmente la Cuneense si muove e prende la direzione ovest per raggiungere Waluiki. I1 generale Ricagno della Julia e gli ufficiali al seguito si affiancano al comandante della Cuneense ed agli ufficiali del comando di divisione. Noi siamo incerti e perplessi se seguire o meno questa divisione ancora efficiente, come una valutazione logica ed obiettiva delle cose ce lo consiglierebbe. Tuttavia in questi gravi frangenti ogni considerazione, anche se razionalmente ineccepibile, potrebbe tradursi negativamente sul piano pratico dato che la realtà bellica è fluida, estremamente incerta. Tutto è davvero sospeso e l'imponderabile ci sovrasta.

     A nord-ovest verso Scheljakino si trova la divisione Tridentina, ma essa è ancora lontana da noi e raggiungerla costituisce un serio pericolo perché nell’isolamento in cui ci troviamo corriamo maggiormente il rischio di cadere prigionieri. Si rende comunque urgente una soluzione per uscire dallo stato d'incertezza e precarietà in cui ci troviamo dato che ogni indugio potrebbe riuscire fatale per tutti.

     Il comandante Bianchini perciò con il coraggio e l’esperienza che lo distinguono, dopo meditata riflessione, decide senza appello, assumendone la responsabilità, di raggiungere ad ogni costo la divisione Tridentina. Iniziamo così rassegnati verso il pomeriggio avanzato la seconda fase della marcia di ritirata. Questa volta però senza particolari punti di riferimento, animati dalla sola disperata volontà di raggiungere al più presto possibile la suddetta divisione, quale unica possibilità per noi di salvezza.

     Proseguiamo seguendo una colonna di tedeschi che in fila indiana procede verso nord sopra un'altura che noi affrontiamo con i muli con qualche difficoltà. Durante le prime ore grava su di noi un pericoloso isolamento. Scende improvvisamente il buio e ci immergiamo nella notte oscura e illune rendendo più difficoltoso il già penoso cammino.

     Lungo la strada che incerta si profila sulla neve per il buio profondo che contrasta con il cielo luminoso punteggiato dal luccichio d'innumerevoli stelle, ogni tanto appaiono dei bagliori di fuoco; sono degli improvvisati bivacchi di truppe sbandate: ungheresi, tedesche, italiane che si riscaldano al calore della fiamma dei fuochi accesi.

     Ci fermiamo brevemente presso uno di questi bivacchi costituito da reparti ungheresi per riposare anche noi e riscaldarci intirizziti come siamo dal freddo. Continuiamo quindi il nostro cammino sempre in direzione nord completamente all'oscuro circa l’ubicazione della Tridentina e perciò ci affidiamo interamente alla sorte. La nostra situazione è delicata ma sarebbe estremamente più grave se non avessimo l'ausilio dei muli che ci sorprendono per la loro resistenza al freddo ed alle fatiche del traino a cui non sono addestrati.

     Finalmente, dopo lunghe ore di marcia estenuante e le soste all'aperto nella notte in quelle condizioni di clima e d'ambiente, avvistiamo verso mezzanotte circa un villaggio che sbuca dietro ad una collina e ci viene incontro come un'ombra gigantesca. L’eco delle raffiche di mitra e dei colpi di fucile isolati ci giunge all'orecchio. Entriamo con prudenza nel paese e con lieta sorpresa constatiamo che le prime isbe sono occupate dagli alpini del battaglione "Tirano". Tutta la Tridentina, finalmente raggiunta dopo tante peripezie, è accantonata nel villaggio. A fatica, dopo numerosi tentativi, riusciamo a trovare un ricovero per la notte.

     Purtroppo le forze del nostro reparto si sono assottigliate. Diversi alpini sono rimasti indietro; molti probabilmente sfiniti dalla stanchezza e paralizzati dal freddo e chi lo sa se li potremo ancora incontrare. Taluni raggiungeranno con ritardo e con grave rischio la colonna degli sbandati, ma molti saranno inghiottiti dall’immenso mare di ghiaccio che sovrasta come una maledizione questa terra ucraina.

 

23 gennaio 1943

     Mi risveglio sotto l'azione pungente del freddo. Le prime luci del giorno penetrano timidamente attraverso due aperture ovali che servono ad arieggiare e illuminare la soffitta dell'isba dove ho dormito la notte sprofondato in un cumulo di fieno.

     Sento pervenire dall’apertura del pavimento del soffitto, sulla quale si appoggia una scala fissa per accedervi, un rumore di persone che si muovono e parlano. Mi alzo, scendo al piano terra e incontro i conducenti che si stanno preparando per la partenza. Esco all’aperto e osservo il cielo che va coprendosi di nubi, mentre l'atmosfera si fa densa e grigia. Un leggero vento che rende più insidioso il freddo, mi sferza il volto facendomi lacrimare. Le membra intorpidite si sciolgono sotto l'azione vigorosa dei movimenti che io imprimo alle gambe per riscaldarmi.

     Tutti sono ora pronti per partire. Vedo distante da noi, giù nel centro del paese (durante la notte abbiamo dormito in un’isba isolata sopra un’altura) ondeggiare un’enorme massa oscura e compatta. Sono i reparti della Tridentina e dei resti della divisione corazzata tedesca, con il seguito degli sbandati, che stanno riprendendo la marcia. Lasciamo il paese di Shajewki e seguiamo passivamente la lunga colonna.  Noi non abbiamo più una meta precisa all'infuori di quella di seguire la Tridentina confusi fra gli sbandati. Ormai siamo tagliati fuori da ogni collegamento e le uniche notizie che possiamo conoscere sono soltanto quelle che vagamente trapelano fra le truppe in ritirata.

     Andiamo avanti lentamente con lunghe fermate causate dagli ondeggiamenti della colonna che ha una profondità di qualche chilometro e che va sempre ingrossandosi per l’afflusso di soldati sperduti appartenenti a tutte le armi. La strada che percorriamo si snoda nel fondo valle fra due alture fino a nascondersi entro le case di un villaggio che intravediamo dinnanzi a noi. Superato il villaggio che chiude la vallata, con le sue numerose isbe sparse dalle quali sprigionano brevi pennacchi di fumo, raggiungiamo un vasto pianoro spazzato dal vento e continuiamo in direzione nord-ovest. Sono trascorse diverse ore. Il cammino è lento e penoso. Il tempo si fa sempre più brutto.

     Nevica. I fiocchi di neve, che il vento solleva in un susseguirsi di vortici e mulinelli, tracciano nell'aria ampie volute che si dissolvono; scompaiono e ricompaiono in un gioco continuo. Intorno è silenzio. Passa il tempo e un dubbio angoscioso mi assilla, ma bisogna ad ogni costo resistere, resistere e sperare sempre fino ai limiti dell’assurdo.

     Veniamo intanto a sapere che gli alpini della Tridentina, distanti da noi forse una o più ore di marcia, hanno incontrato resistenza e dovuto cambiare per aprirsi la strada. Viene anche segnalata la presenza di reparti mobili di partigiani che si spostano rapidamente sulla neve sopra slitte trainate da piccoli e veloci cavalli siberiani, particolarmente resistenti al freddo.

     La colonna degli sbandati fluttua e ondeggia, mentre noi che siamo in mezzo dobbiamo subire le conseguenze negative di questo lento procedere senza possibilità di alternative. Questa massa parassitaria di soldati sbandati, intorno ai soli nuclei combattenti della Tridentina, costituisce per loro grave ostacolo perché s’infiltra ovunque e ne vincola la libertà di movimento. Tuttavia quell’essere abbandonati alla forzata passività non esonera dal pericolo che anzi, in certi momenti diventa serio e grave senza possibilità di difesa e bersaglio delle bombe degli aeroplani, delle granate di cannone e dell'offesa insidiosa delle mitragliere. Quell’essere poi abbandonati a se stessi, quel vedersi continuamente esposti al pericolo, al terrore di cadere prigionieri, aumenta la sfiducia e l’avvilimento.

     Procediamo sempre a stento; nella penombra al calare della sera si profilano le isbe del villaggio di Malakiewa. All'inizio del villaggio riscontriamo i segni evidenti di recenti scontri armati. Dinnanzi all’isba abbandonata, che abbiamo scelto quale ricovero per la notte, giacciono dei cadaveri di partigiani uccisi in combattimento. Nella giornata sono stati percorsi circa trenta chilometri che, aggiunti a quelli delle precedenti tappe, fanno un totale di circa duecento chilometri dalla partenza da Staro-Meinizi (Ternowka) sul Don.

 

24 gennaio 1943

     La luce del giorno indugia nel cielo nevoso. Da poco abbiamo lasciato alle nostre spalle il villaggio di Malakiewa. Nubi basse, che appaiono come tante masse oscure e grigiastre, si rincorrono, si accavallano, si urtano e si inabissano in una folle danza, percosse e travolte da un violento vento del nord che solleva la neve farinosa. La tormenta ostacola la visuale e la neve penetra ovunque togliendoci il respiro e costringendoci a camminare alla cieca. La giornata si presenta ostile. Il freddo, alimentato dal vento, raggiunge punte estreme che superano i trenta gradi sotto zero.

     Camminiamo da diverse ore sopra un pianoro vasto e aperto in condizioni precarie e procediamo faticosamente a causa del vento che ci investe con violenti raffiche. Lungo il percorso si incontrano dei soldati seduti sulla neve sfiniti; alpini che s’accompagnano sorreggendosi l’un l’altro per vincere la stanchezza, altri che procedono isolati come automi spinti dalla forza della disperazione; feriti adagiati sulle slitte, che non hanno più nemmeno la forza di lamentarsi. È una visione tremenda, una guerra disumana. Si notano adagiati ai margini dei muli e dei cavalli con il ventre gonfio, la pelle lucida e tirata dal freddo, gli occhi buoni fissi in uno sguardo implorante. Carogne di quadrupedi appaiono qua e là in parte sepolte dalla neve.

     Si va avanti spinti da una disperata volontà di sopravvivere. La giornata è favorevole agli agguati ed alle imboscate. La Tridentina a metà percorso circa è costretta a sostenere duri combattimenti per aprirsi la strada della ritirata. Non lontano dai reparti combattenti di qualche chilometro siamo sempre confusi in mezzo all'interminabile colonna degli sbandati la quale si snoda lungo il percorso obbligato a perdita d’occhi. Finalmente verso le diciannove, quando non abbiamo più la forza di proseguire, sfiniti dal freddo, dalla fame e dai disagi, avvistiamo il villaggio di Romanakova.

     Riusciamo dopo lunghe ricerche a trovare ricovero in un'isba occupata dagli alpini appartenenti all’8° e al 9° reggimento. Incontro per fortunata coincidenza i sottotenenti d’Este e Paretti ed il tenente cappellano don Bassi, appartenenti al battaglione Tolmezzo. Sono sfigurati e sfiniti, in uno stato di prostrazione e di abbattimento fisico profondi, come del resto più o meno lo siamo tutti. Il caldo dell'isba mi procura grande sollievo.

 

25 gennaio 1943

     È giorno fatto quando ci mettiamo in cammino verso nord-ovest seguendo sempre la divisione Tridentina che ora si sposta secondo ordini e segnalazioni che riceve dai comandi superiori fuori della sacca; mediante l'osservazione aerea questi controllano la dislocazione delle truppe russe in continuo movimento per sorprenderci e farci prigionieri. Da qui la necessità di seguire una direttrice di marcia lunga e tortuosa, fuori dei grossi centri abitati e delle grandi vie di comunicazione. Nonostante ciò la Tridentina è costretta a sostenere continui combattimenti con le avanguardie nemiche.

     Dopo diverse ore di cammino faticoso lasciamo il vasto pianoro e stiamo entrando in una larga valle fiancheggiata da colline uniformi, quando improvvisamente sbucano dall’alto, provenienti dal nord, a bassa quota dei grossi aerei; essi passano veloci sopra di noi lasciando cadere dei piccoli paracadute che dolcemente scendono e si posano sul terreno ghiacciato.

     Riconosciamo gli aerei appartenenti all’aviazione tedesca perché portano sotto le ali, ben visibile, la croce uncinata. Oltre ai viveri lasciano cadere dei manifestini d'incoraggiamento e dei messaggi con i quali si consiglia la colonna a deviare verso nord. Ovunque è un corri, corri di alpini verso il luogo ove si posano i paracadute. In questo frangente, come sempre, i più forti e i più decisi hanno la meglio e la spuntano sui più deboli. Assisto tuttavia a qualche commovente manifestazione di solidarietà umana. Io ottengo dalla generosità di un alpino una scatola di carne.

     Verso l’una sostiamo forzatamente in una località con poche isbe abbandonate perché la colonna degli sbandati dinnanzi a noi si è fermata e non è quindi possibile muoversi. Siamo poco distanti dal grosso centro di Nikitowka. Mi riposo intanto in un’isba con il comandante dei servizi e gli altri ufficiali e soldati, mentre i conducenti sorvegliano i muli e le nostre slitte per evitare che possano eventualmente sparire in quella infernale confusione.

     Commentiamo l’arrivo degli aerei tedeschi, rammaricandoci che nessun aeroplano italiano si sia fatto vivo durante la ritirata. Insufficienza delle forze aeree? Mancanza di aeroplani? Deficienza dei servizi? Difficoltà di carattere tecnico? Sono interrogativi che non possono ovviamente avere una risposta. Dopo una prolungata sosta la colonna si mette finalmente in moto.

     Noi indugiamo prima di proseguire. Verso le diciassette raggiungiamo le prime case di Nikitowka. Superate, siamo piuttosto preoccupati di non vedere dinnanzi a noi la solita lunga fila di sbandati. Invece di addentrarci a nord nel cuore del paese, giriamo alla periferia e ci inoltriamo al di là di un ponte in legno lunga la strada ad ovest, ritenendo che il grosso delle truppe si sia diretto verso Valuiki. Dopo avere percorso un paio di chilometri siamo sorpresi di non incontrare truppe in ritirata e perciò indecisi se proseguire o ritornare indietro, quando vediamo avanzare verso di noi un reparto di soldati che riconosciamo essere ungheresi.

     Un ufficiale si avvicina e con i gesti e qualche frase in cattivo italiano ci invita a desistere dal proseguire perché lungo la nostra direttrice di marcia a poca distanza sono attestati in un piccolo villaggio dei partigiani che loro fortunatissimamente sono riusciti ad evitare. Rientriamo così a Nikitowka e otteniamo ospitalità in un’isba all'inizio del paese dove si trovano diversi ufficiali del 9° reggimento alpini e fra essi il capitano Masarin di Udine, ammalato e febbricitante.

 

26 gennaio 1943

     Verso le sei del mattino svegliati improvvisamente per l’attacco dei partigiani, diretto contro le truppe accantonate a Nikitowka, lasciamo precipitosamente l’isba e ci incolonniamo proseguendo verso nord, fatti segno, nell’attraversare il villaggio, da un nutrito fuoco di fucileria e di mortai. Nel nostro reparto non si hanno a lamentare perdite, mentre invece in quelli che ci precedono e ci seguono vi sono dei morti e dei feriti.

     Mentre si sviluppa, secondo un piano prestabilito, l'azione dei partigiani sulla colonna degli sbandati, gli alpini della Tridentina appoggiati dal reparto corazzato tedesco, stanno sostenendo un duro combattimento fuori di Nikitowka, sulle alture in direzione nord-ovest, ove ha inizio la vasta piana che si estende per molti chilometri fino a Nikolajewka e facciamo un lungo giro in direzione nord, attraverso una palude ghiacciata, per sottrarci al tiro dei cannoni russi. Qualche colpo giunge fino a noi ma senza conseguenze.

     Dopo una logorante fatica per superare la palude coperta da alberi di basso fusto, scheletriti dal freddo, giungiamo ai piedi d'una collina lungo la quale s'inerpica una pista battuta dal passaggio di altra truppa. Saliamo a fatica e lentamente. I muli scivolano sulla neve e siamo costretti a spingere le slitte perché essi non cadano, provati come sono dallo sforzo continuato.

     Verso le dieci circa arriviamo sulla vasta piana, investiti da un rabbioso vento gelido. Il cielo è grigio. Nevica. Continuiamo adagio verso Nikolajewka, quando siamo sorpresi da una visione che ci intristisce l'animo: distesi sulla neve ghiacciata ai margini della strada, in pose diverse, immobili come addormentati, giacciono i corpi degli alpini caduti in combattimento. Si sono immolati senza speranza ed ora sono là abbandonati, mentre la neve cade li avvolge come in un bianco sudario.

     Gli alpini caduti appartenevano al battaglione “Tirano” del 5° alpini che si è sacrificato per aprire il passaggio verso nord all'intera colonna. Fra essi particolarmente segnalato l'eroico sacrificio del giovane ufficiale S. Tenente Slataper Giulio che volontariamente offertosi vince con pochi uomini audaci e decisi la resistenza di un nucleo nemico sostenuto dai carri armati e cadde alla testa dei suoi alpini, mentre il nemico sorpreso dall'audacia e dal valore degli alpini abbandonava precipitosamente la posizione.

     Ora ci troviamo a qualche chilometro da Nikolajewka. L'ondeggiare della colonna delle truppe in ritirata causa, come al solito, delle soste prolungate. Finalmente,con i primi elementi della colonna, giungiamo in vista di Nikolajewka. Sono le tre del pomeriggio.

     I battaglioni della Tridentina con i resti della divisione corazzata ci avevano preceduti di quasi due ore. Dinnanzi a noi si avverte un insolito movimento. Da un’altura al di là del grosso centro abitato di Nikolajewka, situato in basso in un’ampia conca ai margini della piana stessa, parte qualche colpo di cannone i cui proiettili sibilano sulle nostre teste e vanno a cadere con fragorosi scoppi poco lontano da noi.

     Il nemico, da quanto vagamente si apprende, ha costituito nella grossa borgata anzidetta un munito centro di resistenza e di fuoco la cui forza numerica pare si aggiri agli effettivi di una divisione con l’appoggio dell'artiglieria e dei carri armati. L'attacco allo schieramento nemico è cominciato e ad esso partecipano i battaglioni alpini Val Chiese, Vestone, Edolo, il gruppo da montagna "Bergamo " e le poche unità corazzate tedesche. Il tempo trascorre nell'ansiosa attesa e il gelo della notte incombe sulla pianura battuta dal vento.

     Le innumerevoli truppe ferme o in movimento in un’attesa passiva dinnanzi a Nikolajewka si possono valutare all’incirca a trentamila uomini. Su queste truppe sbandate grava la minaccia di una notte all’aperto, l'insidia delle armi nemiche, senza possibilità di valida difesa e il rischio della prigionia che finora è stata evitata con le estenuanti e pericolose marce di ripiegamento. In fondo al declivio, al di qua del trincerone della strada ferrata, gli alpini della Tridentina insistono nel tentativo di sfondare la linea avanzata russa situata al di là della ferrovia in una posizione favorevole e ben difesa con armi anticarro, mortai e mitragliatrici.

     Due aerei russi volano bassi sulla massa inerme e indifesa e con le mitragliere di bordo sparano ripetute raffiche causando purtroppo molte perdite fra gli sbandati. Vicino a me sono colpiti due alpini, uno dei quali è ferito gravemente. L’attacco dura poco con sollievo di tutti, perché un intervento massiccio dell’aviazione, in quelle circostanze, avrebbe provocato una catastrofe.

     Nikolajewka è ora avvolta nel primo buio e si combatte ancora con disperato vigore per superare il terrapieno difeso con accanimento dai Russi. Continuano a fischiare le pallottole traccianti, rigando l'aria di strisce di bragia. Il generale Nasci, comandante il Corpo d'Armata alpino, il quale da un autoblindo dirige personalmente la battaglia, intuita l’estrema gravità della situazione con un audace e disperato tentativo ordina di gettare avanti nella mischia, con i reparti combattenti ancora disponibili, tutto il peso delle forze sbandate. In testa sono i reparti dei battaglioni del 5° e 6° alpini, già duramente provati, con il generale Reverberi comandante la divisione Tridentina, il generale Martinat capo di stato maggiore del Corpo d'Armata, i colonnelli Adami e Signorini comandante rispettivamente del 5° e 6° alpini.

     Cadono le prime vittime sotto la violenta e rabbiosa reazione del nemico e fra esse il valoroso generale Martinat. La colonna continua a discendere trascinata dalla forza numerica; ondeggia paurosamente ed irrompe sulle difese russe; supera convulsamente il trincerone della ferrovia e vince la resistenza russa costringendo i tenaci difensori nemici ad abbandonare precipitosamente le loro posizioni e a ripararsi nelle isbe che divengono altrettanti centri di fuoco che sono successivamente conquistati ad uno ad uno dall’aggressivo impeto degli alpini animati dal successo.

     Nikolajewka è così finalmente occupata da questo grande numero di soldati, combattenti e sbandati, che ora si gettano sulle isbe senza nemmeno accertarsi se vi esistano ancora difese nemiche, spinti dalla disperata volontà di assicurarsi un rifugio caldo nella gelida notte. Dopo una lunga e snervante attesa all’aperto entriamo in un’isba gremita fino all’inverosimile di alpini combattenti, sbandati e feriti.

 

27 gennaio 1943

     Per tempo riprendiamo il cammino in direzione nord-ovest, sollevati dal favorevole esito della battaglia del giorno precedente che ci ha tenuti per tante ore con l'animo sospeso.

     Con l'ausilio dei muli che ci consentono qualche breve respiro sulle slitte quando le energie vengono meno per lo sforzo fisico continuato, risaliamo verso la testa della colonna. Si procede vigilanti perché ci troviamo in una zona controllata dai reparti russi. Un aereo da caccia nemico sfreccia sulle nostre teste senza mitragliarci. La giornata è fredda ma senza vento. Dopo qualche ora di marcia udiamo alle nostre spalle ripetuti colpi di cannone che sorprendono la coda della colonna. Gli sbandati stentano a camminare provati come sono dallo sforzo e dalla fatica.

     La colonna si assottiglia e si allunga sempre più assumendo una profondità che, più avanti, raggiungerà la distanza di tre giornate di marcia. Numerosi gruppi isolati subiranno una triste sorte per l’azione dei reparti nemici e dei nuclei partigiani. Avanziamo senza soste orientandoci sempre verso nord-ovest. Verso le diciassette siamo in vista del villaggio di Olkowa. Qui incontro il capitano Gasparini comandante di un reparto servizi della divisione Julia.

 

28 gennaio 1943

     Al mattino partiamo per raggiungere Nowi-Oscol. Lungo il percorso siamo fatti segno a ripetuti attacchi di sorpresa da parte dei caccia nemici. Ad un tratto sopra la colonna vola a bassissima quota un aereo tedesco del tipo "Cicogna " vera motocicletta dell’aria perché può atterrare ovunque e in breve spazio. Il pilota lancia dei messaggi per orientare la nostra marcia. Si evita così la località di Nowi-Oscol, occupata da reparti nemici e si sosta in località Bagati.

     Ripreso il cammino in direzione ovest, raggiungiamo una località che non si riesce a individuare e quivi alla meglio pernottiamo in una delle poche e povere isbe isolate in mezzo alla pianura.

 

29 gennaio 1943

     All'alba iniziamo di nuovo il nostro faticoso peregrinare per raggiungere il villaggio di Bodgonowka sempre in direzione ovest.

A metà percorso un aereo del tipo "Cicogna" atterra presso di noi.

     Il pilota scende dall'aereo e ci comunica l'ordine di deviare verso sud per evitare il nemico. Apprendiamo che molti soldati che ci hanno preceduto sono caduti prigionieri. La deviazione mette per il momento al sicuro di sorprese e così nel tardo meriggio, dopo un lungo giro vizioso per eludere il nemico, giungiamo a Bodgonowka.

 

30 gennaio 1943

      Senza indugiare alle prime luci dell’alba partiamo fiduciosi di poter uscire quanto prima dalla sacca. La giornata è serena. Vi è una grande calma ovunque. Nulla ci mette ora in allarme e finalmente non si ode più il cannone. Pare proprio che la guerra sia lontana.

     Poco prima di raggiungere il villaggio di Nowo-Troskoie richiama la mia attenzione un autoblindo fermo ai margini della strada sul quale vedo distintamente il comandante del Corpo d'Armata Alpino in piedi rincuorare le truppe superstiti e comunicare loro che finalmente è stato superato l’accerchiamento nemico.

     Rivolgo mentalmente una grazie sincero a questo valoroso e sfortunato generale che vittorioso sul campo di battaglia si è visto sgominare le sue truppe da circostanze avverse, ma che tuttavia ha saputo, nel limite del possibile, controllare la situazione anche quando pareva irrimediabilmente senza scampo.

     Unitamente all’orgoglio del comandante che ha condiviso la sorte dei suoi alpini e ne ha guidato per tanti giorni la loro ritirata, in mezzo a innumerevoli pericoli e difficoltà naturali; in questo suo comportamento premuroso e quasi paterno, che ora si concreta nell’atto significativo di annunciare personalmente ai suoi soldati la notizia tanto attesa, intuisco l’emozione che deve provare, sopratutto sul piano umano, per avere contribuito con la sua esperienza ed il suo coraggio di soldato (decisiva è stata la sua azione di guida e di comando nella disperata e vittoriosa battaglia di Nikolajewka) a sottrarre le truppe superstiti alla morte bianca o violenta e ad evitare loro la terribile prigionia negli sconfinati campi della lontana Siberia.

     Il freddo mi sembra ora meno opprimente sollevato come sono nel fisico e sopratutto nello spirito, anche se la nostra fatica non è ancora finita ed i pericoli, insiti nella natura dei fatti di cui siamo partecipi, non sono del tutto fugati per le incognite che ci sovrastano, tuttavia il peggio ormai l'abbiamo superato, anche perché non siamo più attanagliati dall'angosciosa incertezza che pesava come un incubo continuo sul nostro animo.

     A Nowo-Troskoie, approfittando del tempo a disposizione e liberati da ogni immediata preoccupazione, i reparti superstiti della divisione Julia danno inizio a un certo riordinamento. Assume il comando della divisione il colonnello Moro comandante dell'artiglieria divisionale. All’ultimo momento ci giunge la notizia che davvero ci sorprende e ci fa pensare alla provvidenziale decisione del tenente colonnello Bianchini: la divisione Cuneense, ad eccezione di un esiguo numero di scampati, è stata fatta prigioniera al completo a Valuiki, sopraffatta da soverchianti e agguerrite truppe cosacche. Anche il generale Ricagno ed il suo seguito hanno subito la stessa sorte.

 

31 gennaio 1943

     Senza storia, ma senza ambascia, in otto ore raggiungiamo il villaggio di Nhesegol. Durante la marcia incontriamo una divisione corazzata tedesca che procede in direzione degli avamposti.

L’affaticato procedere innanzi con passo strascicante, lo sguardo stanco, le vesti logore, consunte, sporche e in disordine, con quello strano copricapo russo dalle forme più svariate, le facce smorte, le barbe incolte che invecchiano, con quelle calzature di tutte le fogge dai calzari di panno russi, agli stracci che avvolgono i piedi doloranti, ci fanno sembrare degli esseri liberati da una terribile condanna e usciti da un cancello dell’eternità.

     I feriti, i congelati e gli ammalati vengono trasportati con automezzi dell’ARMIR presso i treni ospedale per essere avviati sollecitamente in Italia. Sono stati percorsi nella sacca complessivamente circa quattrocento chilometri a piedi durante il periodo di quindici giorni. Qui a Nhesegol incontro il capitano Palumbo, ammalato e con un principio di congelamento ai piedi. Egli con altri invalidi con l’autoambulanza raggiungono il treno ospedale italiano. Incontro gli ufficiali superstiti del Tolmezzo ed il capitano medico Gonano direttore dell'Ospedale da Campo della divisione Julia.

     A Nhesegol dobbiamo fermarci qualche giorno, subordinatamente all'andamento generale delle operazioni belliche in corso e per attendere l’arrivo degli ultimi sbandati e per riordinare i reparti combattenti e gli stessi sbandati i quali dovranno necessariamente riprendere i perduti vincoli organici e inserirsi nelle varie unità d'origine.

     La grande e dolorosa avventura è finita e posso chiamarmi veramente fortunato di essere uscito sano e incolume dalla sacca. Le vicende vissute in queste terribili e interminabili giornate, l’inverno russo con il suo gelido clima, il dolorante peregrinare lungo gli itinerari delle estenuanti marce per sottrarsi alla prigionia, l’incubo degli agguati, l’ossessione delle immense distanze, dei panorami sconfinati senza orizzonte, le fatiche sostenute fino ai limiti estremi delle possibilità umane, sono orami un ricordo. Tuttavia un ricordo sempre vivo e presente nella memoria e che il tempo, con le sue alterne vicende, mai potrà cancellare.

     Ora ci attende un ordinato trasferimento a tappe, con i propri mezzi, per raggiungere la località di partenza per l’Italia.