“Vita vissuta” |
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Antonio Ferrante di Ruffano è nato a Firenze l’11 luglio 1914, abita in Belgio a Bruxelles dove nel 2004 (a 90 anni) ha dato alle stampe “Vita vissuta”, un’opera autobiografica che rievoca una successione di situazioni, persone località e circostanze al punto dal farla sembrare incredibile. Un libro scritto, “Dai Vinti” che non hanno mai rinnegato il giuramento fatto in gioventù. Sopravvissuto all’affondamento del Galilea e amico fraterno di Luciano Papinutto (di San Floreano di Buja), Ferrante fa ritorno a Buja in occasione della commemorazione per i caduti, che ogni anno si svolge a Muris di Ragogna. (Vedi racconto “Con coerenza” in “Buje Pore Nuje!” n. 20/2001). Nel libro di Manlio Barilli “ALPINI IN RUSSIA” edito nel 1954 a pag. 160 sotto la foto che ritrae Antonio Ferrante la didascalia recita: “Un comandante sul serio: A. Ferrante di Ruffano: i suoi «81» fecero miracoli.” .......................................................................................... Mio nonno, discendente di una delle famiglie napoletane più in vista presso la nobiltà del Regno, era stato ministro ciambellano dell’ultimo re Borbone delle Due Sicilie, Francesco II, e poi del fratellastro, Alfonso, Conte di Caserta, e si era trasferito in Francia seguendo il destino di quest’ultimo. Mio Padre, si sposò con mia Madre, Mummy, in Francia, a Cannes, nel 1913, dopo averla conosciuta ad Atene. In questa città, lui era da poco stato nominato vice console d’Italia. Nacqui nel 1914 quale primo di cinque figli. La nostra famiglia si trasferì in Brasile, precisamente a Riberao Preto vicino a S. Paulo, quindi a Malaga. Mentre mio Padre partì per Versailles, per partecipare alla firma del Trattato di Pace, io rimasi con mia Madre. Nel frattempo (1919) Papà ottenne il posto di Console negli Stati Uniti. Durante quegli anni mio Padre insisteva molto nel fatto che mi rendessi conto della sua posizione che, anche se privilegiata, aveva i suoi doveri. Ricordo che avevo 13 anni quando lo stato del Massachusetts venne mondialmente scosso dal caso “Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti”: i due italiani, uno calzolaio analfabeta e l’altro pescivendolo, meridionali ambedue, vennero arrestati nel 1920 per omicidio. Il tribunale non riuscì mai a provare il loro reato, ma vennero ugualmente condannati alla sedia elettrica nel 1927. Per volere dello stato italiano mio Padre seguì i vari processi. Mio padre mi portò a trovarli in cella, dichiarando: “Vedi? Poveracci, non sanno proprio nulla, e tanto meno di politica. Io non li avrei voluti come amici, ma sono italiani, sono immigrati come Al Capone e Lucky Luciano, ma totalmente ignoranti!”. Nel 1924 mio Padre decise che avrei dovuto continuare i miei studi in Italia. Arrivato con mia Madre a Roma da Boston, la famiglia quivi residente, fui lasciato in lacrime davanti al rettore del collegio. Oggigiorno i diplomatici italiani scelgono per i loro figli un’istruzione francese, inglese o tedesca di preferenza a quella italiana. Ritengo personalmente inaccettabile in diplomazia avere un figlio “non italiano”, sia per la vita famigliare sia per sentimento nazionale. Immaginare l’avere vergogna di un paese che si è chiamati a rappresentare all’estero! Non appena ottenuta la maturità classica, presi la nave da Napoli per New York e Philadelfia, mio Padre lì in quanto Console Generale, per ricongiungermi con i miei famigliari. Il nostro viaggio verso l’Australia iniziò nell’estate 1932 (dove mio padre era stato trasferito) con un lungo tragitto in treno, con tutta la famiglia riunita, da Philadelphia, Chicago, il Gran Canyon in Colorado, ed infine a Los Angeles, e da lì sulla nave “Monterey” fino a Sydney. Mio Padre, quale Console Generale, in quella città era stato chiamato per ricoprire la carica di responsabile diplomatico dell’Australasia: Australia, Nuova Zelanda, Tasmania ed isole del Borneo, Nel 1935 mi iscrissi all’università di Napoli, facoltà di giurisprudenza. Lì entrai a far parte del GUF (Gruppo Universitario Fascista) locale. A Napoli vivevano i miei nonni. All’Università mi iscrissi immediatamente ai pre-Agonali sportivi (competizione antecedente a quelle interuniversitarie), con preferenza tennis. Fin da piccolo, in America, ero cresciuto con spirito sportivo: nuoto, boxe, baseball, football americano, tiro a segno, tutto appreso fra i sette ed i nove anni, oltre all’andare a cavallo, insegnatomi da mio Padre all’età di solo tre anni in Turchia. Mia Madre, campionessa di tennis, mi insegnò quello sport che perfezionai talmente che all’età di quattordici anni arrivai alle finali junior a Ottawa in Canada. Naturale, quindi, che io fossi tutto concentrato sul tennis. Il caso volle invece che per amicizie e conoscenze universitarie, presi prima parte alle gare di atletica leggera. Ed ecco che, pur presentandomi alle gare solo con le mie scarpe da tennis, riuscii facilmente a vincere eliminatorie e finali. Così vinsi gli “Agonali” napoletani dei 400 metri, divenendo in seguito Campione centromeridionale italiano anche per gli 800. Presentarmi col gruppo a Berlino, in calzoni bianchi, maglietta blu, con al petto lo stemma italiano, fu un evento indimenticabile! Non presi parte alle gare in quanto ero riserva, ma ero comunque ospitato nel villaggio olimpionico, dove incontrai l’atleta americano Jessie Owens, che era per tutti noi un idolo avendo vinto ben 4 medaglie d’oro: 100 metri, 200 metri, salto in lungo e staffetta 400 metri. Divenni amico di Owens in quanto ero uno dei pochi a parlare inglese. Presenziai anche al momento in cui Hitler gli diede la mano, avvicinandolo, al contrario di come alcuni dissero in seguito. ... Anche io fui e sono Littore. Lo sono sempre, nel senso cioè come non ammetto mai che “fui” Alpino: Alpino lo sono tuttora, ... Mi fregiai di quella “M” solo quando, vestito in uniforme da allievo ufficiale, con il cappello da alpino, mi presentai a Firenze per conseguire la laurea in legge. I Littori, il “fiore della gioventù fascista” erano giovani ben noti. Specialmente ricordo Bosco e Calamandrei a Firenze; Fanfani, Gui, Taviani, Moro a Milano, Roma e Napoli. E non sorprende che, con il mio temperamento goliardico, entusiasta di rappresentare l’Italia all’estero in quegli anni di euforia, dove l’America ci invidiava e l’Inghilterra ci rispettava, vi sia oggi in me un certo risentimento nel sapere come tanti rinomati, eccellenti colleghi “camerati” siano passati dalla parte opposta. E mi rattrista non solo il noto “Armiamoci, e partite!”, ma l’insolente audacia di alcuni membri famosi in tutta Italia, che da prototipi del Regime divennero successivamente esempi di tradimento verso la nazione! Le ragioni che mi fecero scegliere il corpo degli Alpini devono essere ricercate nella passione che avevo maturato in Australia per il volo. In quel paese avevo quasi ottenuto il brevetto di pilota di aereo e dunque avrei voluto entrare a far parte dell’Aviazione, ma ne venni scartato a Napoli a causa di una diottria di miopia ad un occhio! Quindi pensai che, non potendo volare nei cieli, il punto più vicino erano le montagne. Da Sydney in Australia, nel 1935 la mia famiglia si trasferì a La Valletta, isola di Malta. Mio Padre, dopo essere stato costretto a lasciare Malta nel 1936, ed aver passato un breve periodo al Ministero a Roma, venne trasferito in Germania a Francoforte sul Meno, con la carica di Console Generale dal 1937 sino al 1940. Si trattava di un corso accelerato riservato agli studenti universitari per diventare Allievo Ufficiali. Nel Febbraio 1939, quale Aiutante Maggiore del Btg. “Verona”, in una temporanea assenza del comandante Magg. Gagliotti, mi giunse l’ordine dallo Stato Maggiore Esercito di Roma per la formazione di un reparto da inviare nella Guerra Civile di Spagna. L’ordine fu trasmesso dal Comando Superiore Alpini per immediata diffusione. Per quanto riguardava il nostro settore, i reparti del 5°, 6° e 7° reggimento dovevano formare il “Primo Corpo Alpino” destinato “Oltre Mare” per appoggiare le truppe del generale Franco nella penisola Iberica. Non esitai nel fare richiesta scritta per partire “Volontario”. ... Il nostro gruppo venne in seguito rimpatriato senza essere stato mai davvero impiegato. Il 5 Aprile 1940 con gran sorpresa venni congedato con licenza illimitata straordinaria. Immediatamente mi recai in famiglia, a Roma, dopo che mio Padre era stato trasferito da Francoforte al Ministero degli Esteri. Lì inviai la seconda domanda di “Volontario” al 6° Alpini per essere riammesso in servizio.
... presso il ponte Dragoti, incontrai seduto il Ten. R., anch’egli ufficiale effettivo, che si dirigeva verso l’ospedale: era scivolato e mostrava un’escoriazione al ginocchio. Lo ritrovai in seguito in Russia, dove faceva bella mostra della decorazione per il coraggio nell’aver scampato il macello sul Golico! Poteva camminare ma si defilava come tanti altri. Perché tanta paura? Eppure tutti ci stavamo giocando la pelle, constatando che la vita non contava nulla. La speranza, la fede, il credere ci spronava a proseguire. Era sufficiente non essere colpito alla pancia o perdere un arto, che sarebbe stata la peggiore sofferenza! Quell’esempio da parte di un ufficiale che se ne partiva per la paura era disastroso per il nostro morale. Un Ufficiale Effettivo! ... Il 3 Marzo il “Cividale” era ormai completamente distrutto. Rimanevano un centinaio su 1000 di appena due giorni prima. La guerra vissuta alle basi, come Berati, Tirana, Elbasan, era tutt’altra cosa rispetto a questa che si viveva in linea. Se fossi ancora malato di retorica, penserei che lì, fra quelle cime, si stava concludendo un complicato processo per giungere a distillare il combattente puro: questo prodotto raro e singolare viveva in un mondo ignoto agli altri, lontani e vicini; un mondo semplice ed illetterato, dove si ignorava la parola “eroe” di cui erano pieni i giornali e le retrovie; un mondo in cui la guerra era rappresentata dalla scatoletta se c’era, e dalla diarrea che comunque non ti lasciava mai; dai pantaloni che non si lavavano mai e dai pidocchi che era inutile levare; ma soprattutto dalle schegge che schizzavano rabbiose da ogni parte; dai ta-pum sordi o dal ronfo del colpo che sfiorava; dall’Alpino che ti era vicino e diceva “Mamma mia Sor Tenente”, e poi non avrebbe mai più parlato; dal sangue dei compagni e dei nemici. La guerra, era inutile dirlo, si imparava a farla in linea, fronte al nemico. ... Il Col. Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione Nazionale, prese il comando del Battaglione Vicenza del 9° Alpini si iniziò a parlare non più del Btg., ma del “Ministro che attaccava” o che “aveva fatto prigionieri”; con lui a guidarli i suoi alpini stavano bene, soprattutto si nutrivano a sufficienza. Bottai dormiva con loro nella tenda rischiando la vita come gli altri e riceveva ordini da superiori, che in Patria si mettevano sull’attenti nel salutarlo; dunque dimostrò di essere un vero ufficiale alpino a dispetto di molti altri. ... Fino a tutto Marzo i combattimenti rimasero duri. Un’enormità di alpini, Bersaglieri, Fanti arrivavano e subito sparivano: morti, feriti, ma soprattutto dispersi, dilaniati dalle bombe, o caduti feriti sotto la neve. Il sole si faceva vedere un po’ di più, e cominciava anche a fare caldo. Il puzzo dei cadaveri diveniva indicibile, che al contrario dell’odore della carogna di animale che si sopportava, quello che emanava un uomo restava insostenibile. In Grecia ed Albania, come poi in Russia, solo i corvi si cibavano dei cadaveri. Chi lo ha sentito quell’odore difficilmente lo può scordare. Le emanazioni che venivano dal Canalone della Morte, sul costone del Golico, erano dunque inesprimibili. Io stesso ho avuto modo, prima con il Btg. “Trento”, poi qui sul Golico, di vedere i corpi dilaniati sparsi sul terreno. Ma anche per il nemico maturava lo stesso sentimento. Non vi era astio, non si poteva considerare che il povero greco là giacente si meritasse l’appellativo di infame, poiché moriva per il dovere verso la sua Patria. Anche lui Eroe, anch’egli con una famiglia che lo aspettava, ed inoltre combatteva per difendere la terra che noi avevamo deciso di invadere! Questa guerra, voluta dall’Italia, era stata affrontata con deplorevole improvvisazione, con forze inadeguate, impreparate, già logorate in parte dalla malaria e sottoposte all’inclemenza del tempo e, specie, dall’insufficienza delle predisposizioni logistiche. L’esercito uscì da questa guerra forse spiritualmente depresso, ma moralmente indenne di fronte al paese, conferendo a soldati ed ufficiali, particolarmente quelli della “Julia”, un alone di leggendario eroismo che resistette ad ogni esame critico. Ma quanti morti, quanti congelati e feriti, quanti dispersi si dovettero contare! Quella che era stata vista come una “passeggiata” in una terra accogliente si era rivelata per l’Italia come una delle pagine più tristi e cruenti dell’intera seconda guerra mondiale. ... Avevamo tre giorni per lavarci, spidocchiarci e riposare. La divisione venne passata in rivista dal Generale Carlo Rossi, Com.te del XXV C. D’Armata, alpino ed ex combattente del “Cividale”, che portava il saluto di Mussolini e l’ammirazione della nazione. Terminò col dire “...e penetrando ora in Grecia abbiate la mano libera per vendicarvi e godere finalmente di un meritato riposo!”. Il Generale Cavallero, per volere del Duce, ordinò all’esercito: “La Julia per prima deve penetrare in Grecia a marce forzate il più speditamente possibile”. Le truppe tedesche erano già arrivate al centro della nazione, aggirando anche settori lasciati all’alleato italiano. Ma Hitler aveva i panzer, e Mussolini si accontentava di noi alpini, “motorizzati a piè, la piume sul ciapel, lo zaino affardellato “, era sempre la stessa storia, e la povera Italia qui si dimostrava ancor più povera. Incontrammo anche dei piccoli cavalli lasciati liberi, senza custode e legati due per due alle zampe anteriori. Ne liberai parecchi, poi ne scelsi sette, su cui feci caricare gli zaini e armi dei miei Alpini provati dalla marcia. Non feci a tempo a riprendere la marcia che ecco comparire il Col. Camosso sul suo cavallo; vestito come sempre con guanti neri, giacca e cravatta, impeccabile, in contrasto con noi, in maniche di camicia e tutti sudati, Infuriato, chiedeva chi avesse rubato quei cavalli. Camosso si infuriò ancora di più, liberò i cavalli. Parve pure arrabbiato dal fatto che noi ufficiali marciavamo senza cravatta e per di più in maniche di camicia. Da Tepeleni aveva preso in macchina la strada in fondo valle e tranquillo era arrivato su da noi sempre in maria, a cavallo! I miei alpini erano gente semplice, schietta, aperta. “Cos’è un eroe?”. “Ma, Sior Tenente, l’eroe é solo a Roma se é vivo; se é morto é disperso sul Golico. Sola differenza: a Roma non ha mai visto la guerra; se é sul Golico, sua fortuna che mai andrà a Roma, Dio Canaglia! Vero Sior Tenente?” Finalmente sul lago di Gianina terminò la nostra incessante marcia. Ci accampammo a nord-est del lago: un magnifico prato verde, ondulato, con foreste di faggi, accolse le nostre tende. Poco più di una settimana prima, per gli stessi campi era passato l’esercito tedesco. ... Nel frattempo continuavano le istruzioni, i miei Alpini orgogliosi per essere stati scelti come migliori! Il Cap. T. del Regg. era tra questi, e indicava l’uso del mortaio 81 mm quando s’impigliò nel suo puntamento. Osai interpellare i presenti chiedendo che il mio Alpino Papinutto (Luciano), già esperto attivo sul Golico, mostrasse semplicemente l’uso del goniometro e del congegno di tiro e “falso scopo”. Puntata l’arma, al secondo colpo l’obiettivo a 3800 metri venne preso in pieno. Per tenerci attivi svolgevamo altre attività. Eravamo sul mare ed il pesce era buono. Pescare con bombe a mano dava scarsi risultati. Così si escogitò come pescare con bombe di mortaio, con esito dieci volte migliore, e tutti, greci compresi, ne erano entusiasti. Una mattina fece il suo arrivo sulla strada presso il nostro traghetto una grossa macchina tedesca, con tanto di bandierina. L’autista comandò al nostro Caporale sul traghetto, in maniera autoritaria, di traghettare sulla sponda opposta il suo generale. Glielo domandò in tedesco ed ottenne questa risposta in friulano: “I documenti?” Il generale tedesco scese dalla macchina ed urlò l’ordine di voler passare sulla sponda opposta. Ma le nostre disposizioni superiori erano perentorie: non passava nessuno, nemmeno il Padreterno, se non vi era regolare ordine di permesso. Mentre il nostro Caporale chiedeva nuovamente i documenti, i due alpini sul traghetto puntarono i fucili. Così la macchina col generale fu costretta a continuare la sua strada. Due giorni dopo arrivò dal comando tedesco una nota di encomio e plauso al reparto italiano di Istmia, nota che venne letta pubblicamente a tutta la truppa. Un giorno, appena uscito da una delle migliori farmacie, il proprietario mi rincorse per chiedermi di fargli arrivare da qualche nostro militare un po’ di pane perché la famiglia, con due figli piccoli, non aveva di che nutrirsi! Faceva molta pena tutta questa povera gente, e potevamo fare poco per assisterla, mentre noi avevamo tutto il necessario. Era ovvio che nei grandi centri come Atene ed il Pireo si viveva ben peggio che in campagna. I congelati ed i feriti certamente provenivano dal nostro fronte. La popolazione sapeva sicuramente chi eravamo noi Alpini; appena arrivati ci guardavano con scherno e disprezzo, ma col passare dei giorni il greco si era accorto che il montanaro alpino era simile a lui: semplice, schietto, che nulla aveva mai nutrito contro di lui, che odiava la guerra come lui e che non ne aveva alcuna colpa. Divenni amico di un armatore greco che abitava in una villa lungo il mare, e da lui ottenni un cambio fantastico in lire italiane per i miei dollari, fatti venire da Roma tramite mio zio. A Corinto il 10-3-1042 il Gen. Geloso Comandante Superiore delle truppe in Grecia, veniva sostituito. Nel salutarci con espressioni di grande elogio, solennemente proclamò ad alta voce che fra pochi giorni tutta la Divisione sarebbe rimpatriata, perché l’Italia voleva vedere la sua “Julia” eroica dopo la campagna nei Balcani. Si stentava a crederlo; ma pochissimo dopo, nel prendere un caffè in casa del greco armatore di navi a Lutraki, assieme al mio Capitano Bonello (che sarebbe morto nell’affondamento), l’amico ci disse che prima della fine del mese tutto il reparto sarebbe partito per l’Italia. “Ad Atene così si dice” aggiunse, quando gli chiesi come lo sapeva. Nella mia relazione sull’affondamento della “Galilea”, fatta nel Dicembre del 1987, feci notare con quanta leggerezza fosse stato trattato il segreto dello spostamento di truppe in guerra; era questo poi un segreto particolarmente importante in un periodo di mare “sporco” nello Ionio fra l’Italia e la Grecia, e quindi fu particolarmente colpevole l’autorità che lo trasgredì! Svegliato di soprassalto da un cupo boato, vidi il Ten. Vet. Campese, che divideva con me la cabina, già in piedi mentre stava per uscire. Da questo momento in poi, ognuno ebbe la propria storia, ognuno visse momenti allucinanti ed interminabili assolutamente diversi gli uni dagli altri. Non posso che rendere conto dei miei, di cosa avvertii, di cosa sentii, sia fisicamente che emotivamente. “Esci, fai presto “mi rispose” La nave è stata colpita!”. Così feci, ma di Campese non avrei avuto più notizie; l’avrei riconosciuto ore più tardi fra i morti ritrovati in mare, disteso in una piazzetta a Prevesa, dove poi sarebbe stato sepolto nel cimitero locale con altri 42 alpini annegati. Senza badare ad altro, e visto che la nave aveva già cominciato ad inclinarsi pericolosamente proprio sul fianco della nostra cabina, mi precipitai in pigiama, senza salvagente ed a piedi nudi, lungo i corridoi interni. Secondo la successiva Relazione Ufficiale, la stiva venne colpita sul lato destro, verso prua, immediatamente sottostante il Ponte di Comando provocando una larga falla, e l’acqua entrando fece inclinare subito la “Galilea” dalla parte opposta, a sinistra. Ma, per quanto sbandata, le macchine rimasero illese e la nave fu in grado di continuare la sua corsa. Quando si sentono estranei parlarne, inevitabilmente l’episodio ritorna alla mente ancora più chiaro, ma il più delle volte con giusto risentimento, essendo molti di questi, appunto, completamente estranei ad esso. ... Salpammo allegramente, tutti, truppa ed equipaggio, con l’entusiasmo di poter finalmente fare ritorno in patria, rivedere le proprie famiglie e le proprie case. Un ufficiale di bordo mi fece sapere che quasi tutto il personale dell’equipaggio aveva già avuto un incidente in mare. “Si sa” mi disse, “che se capita qualcosa, solo quelli che riescono ad abbandonare la nave nei primissimi istanti si possono salvare perché una nave colpita si inabissa in pochi istanti”. Lui non aveva nessuna paura: era un olimpionico di nuoto a distanza. Purtroppo anche lui scomparve in mare quella notte. ... Così come i motori, anche la luce elettrica funzionava, ed avvenne immediatamente la chiusura automatica di tutte le porte stagne: tutti coloro collocati nelle quattro stive si trovarono inesorabilmente senza uscita! Una porta in ferro si era chiusa per sempre davanti a loro. Potevo sentire il panico, il terrore di quei poveretti. Un sentimento così travolgente lo può comprendere solo chi lo ha provato in simili frangenti; autorità o uomini illustri, declamazioni di oratori o scrittori sono nulla al cospetto di un semplice essere umano che è sopravvissuto a quell’energia soverchiante: il panico. La confusione, le urla, la paura nell’impotenza di fronteggiare la morte nel trovarci soli, isolati, in un momento a noi Alpini estraneo: il mare, nero, burrascoso, con pioggia, vento e foschia, terribile e temibile accentuava l’angoscia e la disperazione. Ore 23.00 circa La “Galilea” continuava a navigare anche se più lentamente. All’improvviso i motori si fermarono. Divergo dalla Relazione Ufficiale, poiché nessun Ufficiale “si prodigava per ristabilire la calma, tentava di far tacere la truppa e di illustrare il modo di salvarsi...”. Neppure mi risulta che il Comandante della nave abbia “tentato di portare la nave a terra e possibilmente arenarla andando contro vento”. Nessuno degli Ufficiali superiori si salvò, molti di essi persero la testa, compresi gli ufficiali di bordo. Inoltre nemmeno uno di essi tentò minimamente di assistere i militari, le donne ed i detenuti civili che erano a bordo. Mentisce questa relazione! ... Regnava una totale bolgia di uomini e urla, che livellava ogni autorità e grado, di fronte al quale ognuno risultava eguale e soltanto intento alla propria salvezza. La convergenza della gente sul Ponte di Barche per utilizzare le scialuppe di salvataggio risultava essere un disastro. La disorganizzazione prodotta dal panico nel precipitarsi alle scialuppe le rese inservibili. Davanti a me vidi una, troppo piena, di schianto cadde in mare sfasciandosi; un’altra, poco sopra di me, anch’essa colma di gente, venne tenuta a prua da una fune che rimase fìssa, mentre quella attaccata a poppa venne di colpo rilasciata; così appesa in verticale, la scialuppa lasciò precipitare in acqua tutti quelli che vi erano saliti. Un’altra ancora legata da una fune alla nave, sbatteva contro la fiancata di questa ancora in moto, schiacciando inesorabilmente quanti vi si trovavano in mezzo. Nel tumulto il Cap. della mia Comp. Comando, Bonello, perse la testa pure lui: si sporse dal parapetto e si gettò in mare tenendosi per una delle funi che vi pendevano. Ma la nave essendo ancora in moto lo fece sparire fra le onde, probabilmente trucidato dalle eliche. Sulla stessa passeggiata si trovava anche il Ten. Col. Boccalatte, del Comando 8° Alpini; anch’egli sopraffatto estrasse la pistola e si sparò alla testa. Era uno di quelli che, alle pendici del Monte Golico, durante i combattimenti, si celava sotto la tenda per la paura. Anche i Maggiori Savore ed Ubaldi, ambedue del Comando Divisione, sparirono, il primo con la testa fracassata nel mare tra una scialuppa e la fiancata della nave. Ore 23.20 circa La “Galilea” era oramai irreparabilmente ferma; era trascorsa poco più di mezz’ora dal colpo, momenti lunghissimi, terribili, interminabili. D’un tratto sentii dietro di me uno dei miei alpini, Luciano Papinutto: “Sior Tenente, cosa facciamo?” Gli risposi che avevamo il dovere di salvarci e di abbandonare tutta questa confusione. “Anzi” gli dissi “vieni con me! Ho lasciato in cabina la torcia ed il pugnale: possono servirci per fare una zattera! Devo prenderli”. Nel ritornare, costretti a reggerci alla ringhiera dei corridoio a causa della continua pendenza, con terrore scoprimmo che la porta a stagno si era chiusa davanti a noi! Fortunatamente benché pesante non era stata azionata dalla chiusura automatica; solamente l’inclinazione aveva fatto sì che si fosse liberata dai cardini. Riuscimmo in due a forzarla quel tanto per passarvi, risalendo la scala principale ci ritrovammo nuovamente all’aperto. Furono momenti di indescrivibile incubo e di folle sconsideratezza che accentuarono per noi i terribili istanti dell’affondamento, il cui effetto contrastava assurdamente con il caos circostante. Sempre in compagnia di Papinutto mi avviai a poppa, dove sapevamo che si trovavano alcune zattere di salvataggio. A noi si unì, solitario e smarrito, un’altro nostro alpino, Angelo Forte. Arrivati ci accorgemmo che il lancio delle scialuppe era impossibile per il mare ed il vento. Forte ci lasciò, resosi vano quel tentativo, per cercare in giro nella nave altro scampo. ... Rinvenendo mi trovai steso sulla cuccetta del Comandante, Capitano Girolamo Delfino. Papinutto mi era innanzi, e mi annunciò che la “Galilea” era affondata attorno alle ore 3.50 di quel mattino del 29 Marzo, scomparendo tra i flutti con quanti si trovavano ancora su di essa. Indossava mutande e farsetto a maglia ed aveva sempre il mio pugnale. Il “Mosto” aveva continuato a navigare attorno raccogliendo molti naufraghi. Arrivai a Dresda qualche giorno dopo. Tutta la famiglia era in euforia nel rivedermi a nuova vita. In Germania la vita era del tutto concentrata sul militare in linea. Tutti sacrificavano quanto potevano affinché la Wehrmacht ottenesse il necessario per arrivare alla vittoria. Per me era tanto più sorprendente nel far paragone con quanto accadeva in Italia ove, a Torino, Roma ed Udine avevo visto che il popolo non sacrificava un bel nulla, vi era ancora di tutto, a prezzi forse più alti, ma la gente sembrava ignorare che si combatteva su vari fronti. Fatto che disgustava chi tornava dal fronte! A Dresda noi a casa avevamo il sufficiente o quasi, ma gli altri soffrivano. Mio padre mi introdusse ad una visitatrice, la “Frau Mein Bruder” la chiamava: era la sorella di Hitler, e veniva da noi ogni settimana per avere a sufficienza da mangiare! Ripeteva sempre “Mein Bruder sagt”.. .ma era semplice, una brava donna e per nulla montata per le sue relazioni di famiglia, e molto semplice, come per Mussolini e famiglia. Da S.Giovanni al Natisone, presso Udine, il treno passò per Tarvisio. Ad Halle, la sera, la mia famiglia, avvertita per telegramma, venne in stazione a salutarci nella breve sosta con sigarette per gli Alpini e l’ikofot che lo stesso Colonnello Dall’Armi aveva richiesto a mio padre per la sua macchina fotografica; in seguito chiese anche 10 carte topografiche 1:500.000 del sud Russia, come la mia, inesistenti in Italia. “Motorizzati a piè - la piume sul ciapel - lo zaino affardellato - l’Alpino è sempre quel” diceva la nostra canzone, come in Albania ed in Grecia, ora anche qui in Russia. Ed ora vi erano varie centinaia di chilometri da fare! Ma come poteva un esercito moderno essere disorganizzato a tal punto? Quei 20 km al giorno pesavano, e negli ultimi giorni avanzavamo a soli 15 km circa sulle 24 ore e, negli ultimi 10 km che precedettero il nostro arrivo a Rossoch, sede del Corpo d’Armata Alpino, il 16 Settembre, l’ordine fu quello di caricarci in camion perché si vedesse che saremmo giunti motorizzati. Sfacciataggine ma anche insulto alla povera truppa da parte delle nostre autorità che si prendevano gioco di noi, come in Albania ed in Grecia, così anche qui! ... poco prima mi ero permesso di reclamare le 10 carte tedesche da 1:500.000 di tutto il fronte russo, inesistenti in Italia. Da Dresda mio padre me le aveva spedite al Comando Battaglione su mia richiesta, notificandomi il fatto. Poiché ne avevo ricevute, in una busta aperta, solo sette, avevo richiesto che mi fossero date le mancanti tre, e che poi io stesso avrei consegnato al comando “Gemona” in quanto io possedevo già la mia. ... Intanto a Krasnij Partizan mi sistemai per il meglio. Per prima cosa, avendo saputo che i tedeschi avevano rinchiuso nell’isba adibita a prigione coloro che avevano rifiutato di andare a Oligowatka a lavorare nella fabbrica di valenki, a 20 km, decisi di aprire la prigione liberando tutti gli internati, fra cui anche il pope del villaggio. Il povero pope, costretto dai sovietici a fare il carrettiere, tale era rimasto anche con i tedeschi. Gli riferii che gradivo che riassumesse le sue funzioni. Per celebrare tale avvenimento tolsi il coprifuoco ai 7 cholcoz, e diramai alla popolazione l’invito a venire da noi al Comando ex-scuola locale, alle 4 di sera con le balalaike, che, accompagnati dalla nostra fisarmonica, si avrebbe ballato tutti assieme! Questo provocò stupore ed entusiasmo in tutta la popolazione, specie del pope, che fece ritorno alla sua famiglia. Tutti erano entusiasti che gli italiani erano venuti per rimpiazzare i tedeschi. Un nuovo inatteso evento capitò. Una mia pattuglia, con alcuni della polizia, catturarono nel bosco un partigiano: Ivan. In quel periodo arrivavano nel nostro territorio elementi della nuova Div. “Vicenza”, appena giunta dall’Italia. Tutti rimanemmo increduli nel vederli. Il reparto, nell’insieme, nell’insieme, era privo di omogeneità e coesione, veramente scadente, il personale proveniente da tutte le armi e corpi, senza nessun addestramento; equipaggiamento peggio del nostro, avevano ancora l’uniforme estiva! Gli scarponcini chiodati provenivano dai depositi, alcuni dall’aeronautica, altri dalla marina. Venne spontanea una domanda: ma come inviare in Russia una grande unità in tale stato di deficienza? La Divisione, inoltre, mancava totalmente di artiglieria! Di fatti, in seguito, venne chiamata spregiativamente “Divisione Brambilla”! Le notizie dal fronte erano quanto mai demoralizzanti.... Eravamo alle dipendenze del 24° Corpo d’Armata tedesco, ora al comando del Generale Weibl, ma il nostro “Gemona” aveva subito terribili perdite. Così, sempre su slitta, ma per molti tratti a piedi per il freddo, nel passare da un posto a un altro, mi rifeci lo zaino dei generi più svariati ed utili nei magazzini che erano stati abbandonati e giunsi dove si trovava il Btg. “Cividale” a Nova Kalitwa , in linea, sul Don. Strada facendo vidi sulle piste cadaveri nostri e tedeschi. Di questi ultimi ne vidi anche un paio castrati! Era il 5 Gennaio. Il Comando della “Julia” mi aveva già notificato l’avanzamento di grado a Capitano col 15.1.1943. Sulla Quota 176 di Nova Kalitwa, chiamata dai tedeschi “Quota Signal” e da essi stessi cambiata in “Quota Cividale”, trovai il Ten. Giovannella sopravvissuto della 20°, e stringemmo subito amicizia benché il nostro incontro durasse poco. La famosa “Quota” era contrastata in quei giorni tra il nemico e noi. Tenuta prima dal XXIV C. D’Armata tedesco e contesa da superiori truppe nemiche per la sua posizione dominante, la “Julia” riuscì a riprenderla dovendo poi riconsegnarla ai tedeschi. Per la terza volta, benché i nostri fossero ridotti all’estremo, si riuscì a conquistarla e tenerla. Il “Cividale” era decimato, non solo per il numero di feriti e morti, ma piuttosto per il freddo, che provocava per tutti congelamenti di 2° e 3° grado con -30° C. Fra i tanti morti attorno e sopra la Quota, trovai fra i numerosi russi molte donne. Me ne accorgevo nel cercare documenti e piastrine sui cadaveri, e rimanevo allibito accorgendomi delle loro mammelle!
Non mi risulta ad oggi che i russi indicarono quanti dei loro lasciarono la vita in tale zona. Anni dopo il rimpatrio appresi che sulla Quota “Cividale” oggi c’è una lapide in memoria dell’ecatombe russa sacrificatasi in quei giorni, senza nomi né cifre. Mi sorprese notare come i sovietici non si curavano dei loro caduti, lasciandoli perire per il freddo. Come dolorosamente avremmo appreso in prigionia, l’indole, la mentalità primitiva del povero popolo russo era permeata di materialismo e di fatalismo. L’ingente numero inviato a combattere l’invasore, gente inconscia della malvagità della guerra, veniva inviata al macello timorosa dei Politruk (Agente di polizia di Stato), razionalmente onnipotenti, con tale mentalità fatalista. Raro quindi che un loro ferito fosse assistito, in particolare in un gelido inverno come quello in cui ci trovavamo. Tanto, il freddo porta l’estinzione finale al dolore. Per evidenziare ancora meglio questa mentalità, durante la prigionia, nel Gennaio-Maggio ‘43 a Podgornoje, dove da ferito mi trovai, i nostri morti venivano per lo più lasciati a decomporsi a fior di terra, ove non si potevano gettare in fosse comuni. “Serve da concime”, ci dicevano. Ogni critica risulta oggi essere superflua. Anche se difficile, bisogna cercare di comprendere. ... Il 16 Gennaio mattina ricevetti l’ordine dal Col. Zacchi di retrocedere con tutti gli uomini alle ore 24 sulla linea immediatamente dietro la nostra Quota, mossa tattica molto comprensibile. Ivi, immediatamente dietro, vi era una batteria di artiglieria tedesca, affiancata un po’ più a sud dalla nostra batteria del Ten. Bedeschi. La tedesca ippotrainata era comandata da un Oberleutnant ai miei ordini, che si trovava nel mio medesimo buco, e che telefonicamente indicava i dati di tiro ai suoi. Dopo aver ricevuto gli ordini di Zacchi, per caso scorsi che l’artiglieria tedesca veniva portata via. “Come mai?” chiesi all’ufficiale. Mi rispose di aver ricevuto l’ordine di partire, aggiungendo che obbediva solo a quanto comunicatogli e che non aveva nulla a che fare con noi. Mi arrabbiai e, gli feci notare che, essendo io il comandante del settore, avrei dovuto ricevere ordine superiore, e che quindi gli davo 3 minuti per riportare i suoi pezzi sulle posizioni abbandonate. Altrimenti lo avrei steso morto con la mia pistola, che avevo estratto. Ero calmo, e lo avrei fatto. Se ne avvide subito, e col binocolo scorsi i suoi pezzi tornare. La linea telefonica si era interrotta allora decisi di uscire da solo all’aperto per individuare il filo troncato e riattivarla. Trovato il punto, riparai i due fili. In quell’istante mi accorsi che a circa 800-1000 m a sud un grosso carro armato russo era fermo, rivolto verso di noi. Vidi di colpo come un gran fuoco d’artificio sopra di me. Sentii un forte colpo alla testa e caddi. Ricordo solo che fui caricato su uno slittino a due sci, e di sentire un ufficiale medico, forse il S. Ten. Marzuttin, che diceva: “Penso che non sia nulla di grave, gli do un’antitetanica...”. Poi svenni. Per me era finita la guerra.
Mi limito a descrivere quel che vidi e vissi quale combattente in linea, e con me coloro che vi furono, morti molti, pochi poi quelli che fecero ritorno. L’essere militare è la Naja, e trovarsi in guerra è ancor più Naja. Gli ufficiali, per la maggior parte eterogenei, per gli Alpini non sono dei superiori, sono dei padri, amici che con loro fanno la stessa vita. Quanti sono venuti da me per chiedere assistenza nello scrivere a casa, nei piccoli e semplici personali problemi! “Cara mamma, io sto bene come spero di te salutami tutti i miei frati la sora Rosolina il passamontagna e arrivato. Saluti da tuo figlio.” E guai se non scrivevo come dicevano. Si sacramentava la guerra perché si era lontani da casa, dalla morosa. Nei confronti del nemico, là di fronte, non vi era astio né risentimento. Se del soldato francese, sbruffone e tutto fumo, si aveva poca stima, del greco invece se ne aveva di più, sapendo che combatteva per la sua terra e, se si era stati a scuola, si sapeva che aveva dato civiltà e cultura al mondo. Del russo, povero cristo, condotto al macello, con carri armati americani, armamento americano, proiettili americani, e commissari e politruk comunisti, da Mosca: non ci era nemico. Si sapeva anche che si era mandati a combattere per una sporca politica. Sempre più ci si accorgeva che i nostri dirigenti a Roma non si preoccupavano del soldato in linea il quale, al contrario di tutti gli eserciti al mondo, mancava di munizioni, armamento, viveri ed indumenti. Questo nostro continuo mancare di tutto, se all’inizio della guerra poteva essere imputato non solo all’impreparazione ma all’ignoranza di Roma, fini poi ovviamente per l’alleato tedesco ad essere un vero tradimento. Dei russi si distingueva il combattente che andava incontro al macello, all’attacco tutti in fila come nel periodo napoleonico, con i loro politruk ed ufficiali dietro, per mitragliarli se non avanzavano come li vidi io stesso, morti o feriti a centinaia. Il popolo era tutta povera gente, tenuta volutamente sotto il più basso livello di civiltà, ma erano simili a noi, poveri cristi. Prima di cadere prigionieri, e sulle zone del Fronte, li avevamo aiutati quando si poteva, e ci amano come noi li amiamo. Quante volte ho sentito “Italianski kharosci” (Italiani buoni) da quelle povere donne. Ma i dirigenti politici che governavano sulla massa di contadini erano tutt’altra cosa. Per essi noi prigionieri non avevamo diritto di vivere e eravamo trattati di conseguenza, peggio anzi, in barba ad ogni convenzione internazionale. Coloro, quei pochi che uscirono dalla tremenda prigionia, continueranno per tutta la vita ad odiare profondamente il sistema sovietico, e con esso i famosi alleati, tra questi particolarmente gli Stati Uniti che, nell’assistere il comunismo, avevano fornito di armi, munizioni, aerei e viveri il povero Gran Padre Stalin in Russia e, in Italia, avevano fatto arrivare da Odessa ed immesso nel nostro governo Togliatti. Sporca politica americana. Prima grande amica del Comunismo, suo alleato, poi sua nemica acerrima nel ‘47-’55 nell’immediato dopoguerra, poi nuovamente amica con Gorbachev. Chissà in futuro... E’ amica di chi, l’America? Solo del dollaro, di sé stessa! Occorre sottolineare che, di tutte le campagne di guerra che ho provato, in Spagna, Francia, Albania-Grecia, Russia, di gran lunga la più terribile, sia fisicamente che moralmente, fu quella dei Balcani. Sul Fronte Balcanico infatti, il combattente si era trovato solo contro il nemico, non tanto il greco, quanto l’italiano stesso che non ci aveva assolutamente assistito. L’essere inviati su quelle brulle montagne, senza il necessario che ogni combattente esigeva, in vestiario, in viveri come in armamento, ed il dover perdurare per mesi in quello stato era, a mio ed unanime avviso, una vergogna ed un’infamia che avrebbe pesato sulle generazioni future nel nostro paese. Immagini il lettore di trovarsi in linea ed, aprendo una cassetta di bombe a mano per lanciarle, ultime risorse contro il nemico incalzante, trovarvi solo pietre; o essere mitragliati dai nostri stessi aerei; o il dover nutrirsi del mangime dei muli lanciato dalla nostra aviazione che pare ignorasse che anche il povero combattente moriva di fame!
Dopo essere stato ferito in linea sulla Quota “Cividale”, il 16 Gennaio ‘43, Venni dichiarato ufficialmente “Disperso di guerra” dalle autorità italiane. Nei primi mesi divenni sancito “morto” o “moribondo” a seconda di quanti mi videro. Non potevo masticare, ma solo succhiare. Le poche patate congelate e nere che i maiali di villaggio rifiutavano, furono il mio unico cibo a quanto ricordo. Qualcuno le tagliava a fettine, e dopo essere state messe sulla stufetta in camera, ci venivano somministrate. A me solo due o tre fettine al giorno. Prelibate, ottime! Le tenevo a lungo in bocca e poi le inghiottivo. Non potevo aprire la bocca normalmente, poiché la scheggia mi aveva frantumato parte della mascella sinistra, né potevo masticare. Dopo vari giorni venni colpito dal tifo petecchiale esentematico. Per varie settimane non mi ricordavo chi ero, quanti anni avevo, né il mio nome, né quello dei genitori, né di mia sorella a cui ero tanto affezionato. Per giorni tentai di ricordarmi, ma mi era impossibile. Persino non sapevo in quale anno stavamo. Persi tutti i capelli, e rimasi completamente calvo. Poi venni a sapere che quel tipo di tifo era mortale in proporzione allo stato fisico. Io non crepai perché ero “più di là che di qua”. Non avevo fame, sete sì, sempre sdraiato col grosso buco nella faccia in continua suppurazione, ed i piedi che mi facevano molto male. Avevo vicino il pappagallo, che mi diventò molto amico, ed era sempre pieno di urina, e penavo per trovare chi me lo vuotasse... Il 24 Maggio, non so perché ricordo perfettamente la data, venimmo caricati su vagoni bestiame alla ferrovia, e mi sentivo peggio che mai. Eravamo una sessantina. Ricordo che stavamo molto stretti. Non stavo per niente bene, la testa era tutta fasciata, con la ferita in continua suppurazione. Dopo un tempo indefinibile il treno si fermò e fui caricato su una piccola carriola. Arrivato in un luogo boscoso pieno di interrati, forse magazzini di patate o stalle, venni adagiato sulla nuda terra. Il giorno dopo, all’entrata, un russo mi chiese “Kak imia? (Come ti chiami?) Offìzier? (Ufficiale?) Da (Si?) cui risposi “Da” (Si). Alla domanda “Kristiania?” dissi “Da”. Sono cristiano io? Sì, Ostia! Sapendo che in russo “kristiania” significa “contadino”. Fu soltanto ora che Camino mi informò che tale Campo si chiamava Nikrilowka, dove rimanemmo 1 o 2 giorni, per poi riprendere il treno per il lungo viaggio verso Vietluskaja. Ma notai, nel partire da quel campo, un foglio inchiodato su un albero, un “Prikaz” (Comando) firmato da Stalin, con cui si vietava ai militari italiani di morire. Sul pavimento della nostra stanza i pidocchi camminavano in fila indiana come le formiche. Quando si allontanavano da un mucchio di stracci, voleva dire che il titolare di quel mucchio era morto, e loro ne cercavano uno “a sangue caldo”. Quando i russi si decisero a fornirci una patata a testa pro die, esclusa la domenica, iniziammo a contarci ogni giorno. Nel conto facevamo includere anche i morti, non da più di 5-6 giorni, cioè che non puzzavano o si gonfiavano con troppa evidenza. E’ necessario precisare lo stato dei prigionieri di guerra nei primi mesi tra Gennaio e Maggio del 1943. In tale periodo la mortalità di essi era causata sia dalle ferite per nulla curate, dalla mentalità fatalista russa per cui un morto serviva soltanto da concime, incrementata dal sentimento che queste persone erano venute a combattere contro il popolo russo e dunque non avevano diritto di vivere. Ma soprattutto tale mortalità era dovuta alla mancanza di cibo, piuttosto che dal clima gelido o dalla totale deficienza ed ignoranza di cura medica. La fame e la sete, soprattutto, erano le cause della morte di coloro fra noi “sfortunati” che non erano stati uccisi con raffica di parabellum o di fucile nemico quando presi, o nelle terribili ed interminabili marce del davaj. Sfortunati perché destinati a protrarre l’agonia anziché ad avere la vita di colpo stroncata. All’infuori di noi, si ignorava come il corpo umano fosse dotato dalla natura di una forza e di una resistenza incredibili. Il rimanere 3-4 giorni senza cibo provocava fame. Dopo 10-14 giorni si avevano crampi allo stomaco e deperimento fisico. Ma si sopravviveva. Ma dopo una ventina di giorni si entrava in uno stato comatoso, e l’individuo diventava bestia. In questo stato si poteva arrivare a perdere la ragione e si avevano casi di cannibalismo. Nel subcosciente si sapeva che il cibo già morto era cattivo, meglio dunque ammazzare un moribondo, staccandogli il cervello e il cuore. Era di un sapore quasi dolciastro e, se fatto con altri compagni come sempre avveniva, non vi era rimorso. Si soffriva, ma almeno si viveva! Venivano preferiti cuore e cervello per il fatto che il resto del corpo umano era talmente deperito da offrire ben poco nutrimento: erano due parti corporee che non subivano mutazioni. Per non parlare della sete? La sete, per chi la ha provata, è una tortura più terribile, più raffinata della fame. L’agonia che ne risultava la sapeva solo chi la provava. Il corpo ha assoluto bisogno di liquido. Si arrivava a mettere in bocca qualsiasi cosa per appagare questo bisogno. La bocca, la lingua, le labbra divenivano tumefatte. Se si tentava di bere l’urina, la si sputava essendo contraria all’organismo. Si cercava qualche goccia di neve, una foglia, anche il sangue era buono se puro; e faceva schifo se mischiato col pus. E, stranamente, i russi ci davano gallette salate “suchari” cioè pane salato e secco. La distrofia, la febbre del tifo esantematico, la dissenteria, cause prime della nostra mortalità, andavano combattute con liquidi più che col cibo. Mi ricordo in quel primo periodo, tra Aprile e Maggio, che i denti incisivi mi si erano allentati, ballavano. Eppure, piano piano le gengive si rassodarono e non li persi. Per quanto tempo si continuava a vivere variava per ognuno: la tenacia nel persistere; il fisico che offriva differente resistenza in ciascuno; circostanze personali; lo spirito ed il morale che si manteneva o perdeva. Tutto era estremamente rilevante ed era base di sopravvivenza o di morte. E lo strano era che in circostanze dove si era in linea, di fronte al nemico, e si avevano attorno amici e compagni che cadevano, il morire non assumeva importanza, non ci si pensava neppure. ... Partimmo (eravamo più di 60) verso il 25 Maggio per arrivare a Vietluskaja, a nord, non distante dagli Urali e dalla Siberia, il 12 o 13 Giugno, uscendone solo in 12. Che viaggio!! Nelle infinite fermate, i soldati di scorta aprivano una delle porte, lasciando passare finalmente un po’ d’aria!: “Skolko kaputt!”, quanti morti? E prendevano per braccia e gambe i deceduti gettandoli nella scarpata della strada ferrata, Di giorno un caldo intenso; di notte si gelava. L’aria dal finestrino coperto di filo spinato sopra di me mi permetteva di respirare meglio degli altri, perché si soffocava veramente, ed il tanfo della dissenteria e dei cadaveri diveniva insopportabile. Ben ricordavo in Albania e Grecia il freddo dei cadaveri. Ma dormirci accanto, ed il contatto con quel freddo cereo era troppo. Avevo intanto già cominciato ad avere male alla schiena, disteso come mi trovavo su quelle panche di legno. Con le dita trovai di avere due grosse piaghe al decubito; erano gonfie e mi procuravano un male indicibile. Usando le fasce sporche che m’ero portato dietro, riuscii con le dita a pungermi ed a far uscire un incredibile mucchio di pus, e per vari giorni e notti continuai a premermi. Le fasce non bastavano; usai qualsiasi tessuto, anche quello dei morti...Non distante di fronte v’era uno che gemeva, e che tentava qualsiasi cosa per il suo piede congelato, dove dal pus uscivano grossi vermi bianchi. Non era la prima volta che vedevo cose di questo genere; quante volte, con profondo disgusto, avevo visto sangue e pus uscire da feriti congelati. All’ospedale di Vietluskaia ci davano da mangiare due volte al giorno, un mestolo di kascia con, in qualche rara occasione, alcuni pezzetti di lardo. La mattina, acqua calda e compote, cioè frutta cotta, una meraviglia! Ma aveva già fatto legge il famoso “Prikaz” di Stalin: era vietato ai militari italiani di morire, e di conseguenza ci davano doppia, tripla razione di kascia, col risultato che la mortalità fra noi aumentava incredibilmente. Il fisico, abituato a mangiare poco o niente, con lo stomaco pressoché atrofizzato, si ribellava a quell’eccesso. Si continuava a crepare. Si moltiplicavano i decessi. Io, però, piano piano, col tempo, riuscii a muovermi e ad andare al gabinetto con due bastoni, ed anche da solo, non accompagnato. Ritrovai l’amico Camino finalmente, zoppicante per il suo tallone. Dal Policlinico di Mosca arrivò una dottoressa, professore e capo reparto di oculistica. Visitandomi le dissi che avevo una diottria di miopia, ma anche un po’ di astigmatismo. Mi rispose: “Cos’è l’astigmatismo? Da noi in Russia non esiste. E’ una malattia capitalista”. Mi feci accompagnare ad un tavolo, dove un russo mi prese il nome, il cognome, la data di nascita, registrò il mio tipo di ferita, e tornai a letto. In questo ospedale, intanto, ci avevano fatto sapere la razione giornaliera per i prigionieri: 300 g di pane (il pane russo era di segala o orzo, mischiato talvolta a fieno, mal cotto e molto pesante, che ci venne dato durante tutta la prigionia); 30 g di grasso, sunja, sovente sostituito con cera o paraffina; 20 g di zucchero; 5 g di tabacco o sigarette (il tabacco russo era makhorka: foglie, steli e legno di una pianta, triturati e seccati, dall’odore simile al pesce andato a male. A breve ci si abituò). Per fumare si arrotolava in carta di giornale. Avevo detto che il tabacco veniva fumato solamente, a meno che non si avesse una pipa, in carta di giornale. Incominciando da quel periodo, ai prigionieri italiani venne distribuito il giornale “L’Alba” ogni 15 giorni. Un giornaletto pieno di propaganda comunista redatto da italiani a Mosca, il cui redattore principale era il fuoriuscito Palmiro Togliatti, coadiuvato da soldati ed ufficiali italiani convertiti al comunismo contro qualsiasi sentimento nazionale o religioso, di cui il capo era il Cap. Diego Cadeddu. Scopo: distruggere spiritualmente e moralmente l’individuo e renderlo buono per propagandare il comunismo in patria. L’Alba, in quel primo periodo, era a due foglietti, 35x25 cm, e dato uno ogni 8 prigionieri, lo dividevamo. La porzione doppia veniva estratta a sorte: serviva per sigarette e “bisogni personali”. Questo avvenne per tutta la prigionia. In seguito, a Suzdal ed al 27-A, a Krasnojegorsk, presso Mosca divenne settimanale, più grande, ma veniva sempre diviso per quei due usi. Ma prima di proseguire con questi ricordi indelebili, vorrei precisare che nel periodo a Vietluskaja acquisii e compresi molte cose sulla popolazione russa. Cose che mai avevo immaginato e che mi fecero rendere conto in che ignoranza noi in Europa eravamo tenuti. Appresi, per esempio, che Verdi e Puccini, di cui i russi sapevano bene molte arie, erano russi, e solo noi, poveri capitalisti, credevamo fossero italiani. Il primo treno a vapore venne inventato da Petrov, un russo; e molto prima di Marconi fu il Prof. Popoff a inventare il telegrafo. Ma guarda in quale ignoranza il fascismo ed il capitalismo ci avevano tenuti! Grazie al popolo russo, ed al Gran Padre Stalin, ora potevamo sapere. E quella gente si meravigliava, in più, che noi sapessimo le opere di Verdi e di Puccini, loro storiche personalità. Dopo Natale fui trasferito al campo di Suzdal. All’inizio, uscito dalla quarantena avevo scorto, proprio vicino a quella stanza, un altro locale in cui viveva isolato da tutti un Generale tedesco, che, contrariamente ai suoi colleghi, portava ancora sul petto l’aquila della Wehrmacht. Era il Gen. Artur Schmidt, vice-comandante della celebre VI Armata tedesca che combatté a Stalingrado (comandante era von Paulus) ed assieme ad altri valorosi generali dopo il combattimento venne fatto prigioniero nel Febbraio ‘43. Portato al Campo 160, i russi vedevano in lui un ostinato nemico alla loro propaganda. Pertanto viveva isolato dai colleghi sui quali ovviamente esercitava ancora molta influenza. Un giorno per caso mi salvò la vita. E fummo amici. Venne rimpatriato nel Dicembre ‘65 per intercessione di Adenauer, dopo essere rimasto sempre isolato nei campi di Siberia, al contrario del Gen. von Paulus che si piegò al Comunismo. A questo piccolo gruppo, che visitavo nel loro Corpus, riuscivo a dare lezioni di conversazione in inglese ed essi contraccambiavano con lezioni di tedesco. Tuttavia rimasi solo per un breve periodo al 160 di Suzdal dal Natale ‘43 a fine Gennaio ‘44, quando d’un tratto fui mandato vicino Mosca al Campo 27, Krasnojegorsk, campo di punizione ed indagine. Tornato a Suzdal dal Maggio ‘44 all’Aprile ‘45, mi accorsi presto, anche assistito da alcuni buoni amici quali Paolozzi, Fiocchi, Camino e Bracco, di trovarmi in un ambiente in cui era necessario rimanere molto cauti. Per dare un’idea di quanto accadeva a Suzdal, degli ufficiali italiani prigionieri con me, ho i nomi di 26 “delatori” conosciuti, di altri 28 apertamente comunisti convertiti, e a quanto mi risultava, almeno 9 prettamente di ideologia comunista e ovviamente protetti dalle locali autorità. Tra i circa 600-650 che là eravamo, era un computo puramente personale. Altri colleghi potrebbero aggiungerne...! Il campo 27 era di punizione e di indagine, i russi vi concentravano i prigionieri più interessanti nel tentativo di averli dalla loro parte. Vi erano passati nomi illustri, fra i quali Ana Pauker, che ben ricordo, in seguito dirigente del governo comunista in Romania! Due ingegneri tedeschi delle V2. Anche Major Mueller, eroe aviatore, che dopo aver abbattuto più di 300 apparecchi fra inglesi, americani e russi, venne fatto fuori con le mitragliate da terra. Ed altri di cui non ricordo. Dal campo 27 A partii di sera, in camioncino, per cui già mi preparai a nulla di buono. Quando finalmente il furgoncino si fermò, sentii scorrere un grosso cancello, o aprirsi un portone. Nello scendere mi accorsi subito di trovarmi nel cortile della grande Lubjanka, prigione di stato. Venni condotto in una cella nei sotterranei. Ma dopo pochissimo tempo una guardia mi condusse in una stanza ove trovai un personaggio in abito civile seduto dietro un tavolo, ... L’ufficiale disse, con un mezzo sorriso che la guerra stava per terminare, e dell’Italia sarebbe rimasto ben poco, grazie alle democrazie capitaliste dell’America e dell’Inghilterra. Cosa avevo intenzione di fare? “Non ne ho ancora idea” risposi. “Ho fatto tutti gli studi pre-universitari sotto i Gesuiti”. “Ah!” aggiunse “Sono i diplomatici della Chiesa, che è la peggior nemica della Democrazia Sovietica! Ma può essere certo che Mosca ha già penetrato il Vaticano e che nel prossimo futuro la Chiesa sarà neutralizzata dal suo interno. Tutto il mondo cambierà nella politica”. Risposi che ne ero certo. ...
Le poche ore passate alla Lubjanka mi rimasero molto impresse, non per il breve periodo passatovi; ad altri era successo lo stesso, soprattutto a Jovino del 27 A e Piazza anche, benché più volte riportativi. Ma perché un’accoglienza così strana? Tutti ne erano tornati con un marcato terrore. Una cella stretta, ove sotto fortissima luce veniva immessa dell’acqua che gradatamente saliva di livello sino alla gola del detenuto; o quella ancor più stretta, ove, con luce ugualmente abbagliante, al prigioniero era vietato coricarsi e dormire. Tutte le torture più raffinate, tutto per ottenere confessioni di atti e fatti per lo più mai accaduti. Appresi ancora al 27 C, dove ero stato trasferito, che il mio carissimo amico, Joe Schmidt, era stato preso nel tentativo di fuggire dal 27 A e rinchiuso in prigione di rigore per alcuni giorni. Essendo io partito, non aveva voluto cambiare idea. Da solo era riuscito ad eludere le guardie, ma dopo meno di un’ora i cani lo avevano trovato. Povero Joe, aveva perso la testa! Da parte mia, avevo completamente messo da parte tutto il programma così ben studiato con l’amico, tutte le speranze e l’entusiasmo per la nostra fuga. Dopo pochi giorni fui informato che Joe, uscito di prigione, era stato nuovamente preso nello scavare con altri un tunnel sotto il reticolato del Lager 27-A, di fronte al piccolo stagno oltre il quale alloggiavano giovani spagnoli presi dall’esercito russo nella Guerra di Spagna per indottrinamento. Giudicato recidivo, fu rinchiuso in un carcere sotterraneo, dove gli vennero posti carboni ardenti nelle mani, poi chiuse e legate..! Qui si suicidò impiccandosi. Ad assistere gli antifascisti ed i delatori, oltre al nostro fuoriuscito vi era ora Paolo Robotti (Kommissario del N.K.V.D.), di livello superiore e parente prossimo di Palmiro Togliatti. Al 160 prese il posto di Prokuranof. Essendosi l’Italia dichiarata “cobelligerante” a fianco degli Alleati (Russia, Stati Uniti, Inghilterra) nel 1943, da vari mesi l’autorità sovietica tentava di spingere i prigionieri italiani in tutti i Lager a sottoscrivere petizioni per promuovere un contingente italiano per combattere contro i tedeschi. Anche se non riuscì mai a creare tale contingente, il soggetto provocò una scissione ancora più sentita e grave tra i delatori antifascisti e coloro che rimasero ligi al giuramento ed agli ideali nazionali. Ma, io pensavo, perché metterci contro i tedeschi di cui eravamo alleati? E se fosse vero che in Italia vi erano le distruzioni ed i bombardamenti aerei tanto propagandati dai russi e le invasioni del nemico dal Sud, non era possibile che tanti italiani passassero ora a fianco degli anglo-americani tradendo l’Asse Roma-Berlino, tradendo quindi tutto l’esercito nazionale che combatteva su ogni fronte a fianco dei tedeschi. No, non era possibile! L’italiano non era nato traditore. E se alcuni di costoro venivano presi dai tedeschi, era cosa ben naturale il sentimento di disgusto mondiale nei nostri confronti. Per fortuna era tutta propaganda!...se così non fosse, il mondo intero non ci avrebbe mai perdonato. Ed il mio pensiero era ben chiaro e preciso: anziché formare reparti che sarebbero andati a combattere ora contro i nostri alleati tedeschi, sarei andato piuttosto in Italia a fucilare al muro tutti i compaesani traditori, chiunque e dovunque, che si erano affiancati agli anglosassoni contro di noi! In che girone dell’inferno Dante metteva i traditori della Patria? Non vi era al mondo gente più abietta. A noi ufficiali l’autorità sovietica consegnava mensilmente 10 rubli, mentre ai generali 50, per fare osservare forse che si adeguava alle modalità di trattamento dei prigionieri di guerra in vigore nelle altre nazioni. Tuttavia era vietato spenderli, come pure impossibile. Come? Dove? Il popolo russo non spendeva, tutto riceveva gratuitamente. Poiché era pure vietato al prigioniero di avere più di 50 rubli con sé, nelle periodiche perquisizioni i russi ci toglievano quanto ci avevano dato...Mentalità russa. E le perquisizioni erano minuziose...
Arrivai alla Lubianka di notte. Cosa volevano da me questa volta? Fui fatto entrare in un ufficio con la solita lampada abbagliante rivolta contro di me. “Pajuluska” (Prego) fui invitato a sedere. Da?” (Ferito? Sì?). Quindi la conversazione proseguì in italiano. Si era indagato tutto su di me, e si sapeva che non ero come i miei compagni. Sì, mi dicevano, la Russia era dura contro quelli che la combattevano, ma si vedeva che io non ero fascista come i miei amici; che avevo una mentalità più aperta, più democratica e che la sola vera democrazia si trovava in Russia e non in un paese capitalista. Era stato notato che più volte avevo detto di amare il popolo russo. Poi continuavano: “Ora noi russi abbiamo bisogno all’estero di gente che ci comprenda. Una volta che questa guerra sarà finita, tutto il mondo sarà cambiato”...Io rispondevo che ne ero convinto, avendoci più volte pensato. Il vecchio proseguiva: “Se sei d’accordo, la Grande Russia ti potrà aiutare più che la tua Italia odierna, e forse più dell’America. Si sta costituendo una grande organizzazione internazionale che avrà il nome di Organizzazione delle Nazioni Unite, ONU, alla quale prenderanno parte tutti i paesi civili e che si piazzerà negli Stati Uniti. Tu saresti qualificato per entrarci. Ti possiamo assicurare un ottimo posto quale italiano, basato sui tuoi studi e conoscenze, la tua famiglia. Se tu ora accetti, come agiresti in tale eventualità?” Ed intanto, al comando del bottone sul tavolo, ecco arrivare un vassoio con tre stakan di bella maiolica ed un piatto fondo di caviale grigio. ... Nel silenzio che seguì, i miei interlocutori lo notarono. Il più giovane, con un sorriso mi disse: “Devi crederci. Siamo l’autorità più alta, ed è eccezionale che il nostro governo prenda un passo simile. Si desidera sapere come agiresti in tale eventualità”. La mia risposta era semplice: ovviamente sarei rimasto amico dell’URSS, ma che in nessun caso, per meglio assisterla, volevo esser preso apertamente per un comunista. I due dell’NKVD erano perfettamente d’accordo! Era tutto inteso, perché io, in tale impiego altolocato, non dovevo che allinearmi alle istruzioni che da Mosca mi sarebbero pervenute. Per il rimanente periodo di prigionia non dovevo assolutamente mostrarmi pro-comunista, ed agire, come sin’ora avevo fatto, senza timore. Notai che i due amici erano soddisfatti ed il discorso cambiò...sull’utilità del caviale, i vari tipi, le vitamine che contenevano. Venni congedato con una forte stretta di mano. Noi tutti vi andavamo per la mensa, per studi, per leggere. Ma la quasi totalità dei libri trattavano di politica, pochi altri, sempre a ruba, in francese o tedesco. Eravamo serviti (!) da militari tedeschi, e si mangiava sempre la kascia di frumento o miglio, ma in piatti di vera porcellana. Su tutti regnava il Col. Csimatis, terrore del Campo, ex-aiutante del ministro Goebbels, che era diventato fervido comunista e qui fungeva da commissario! Si potevano avere un block notes ed un lapis (sempre “karandash Sakko y Vanzetti”), con cui prendevo note di una lezione di economia da una conferenza tenuta dal Col. Csimatis, cui presenziavano i generali tedeschi. Strani, costoro: quasi tutti si erano tolti l’aquila della Wehrmacht dalla divisa, spogliati della loro superbia e prestanza di super-uomini militari, agivano come bambini sperduti. A tavola si tagliavano a pezzettini il pane, ci spalmavano sopra un po’ di kascia, lo mettevano da parte per poi portarselo in camera su tavolette. Giocavano molto a scacchi o dama. Su di un foglio del solito tabacco “Machorka”, che ancora oggi conservo, annotai i nomi di alcuni che, in quest’ultima guerra, rimasero storici: Gen. d’Armata Hell; Gen. Bosch, con i baffi; Gen. Brandt; Gen. Troger; Gen. Buschenhagen, comandante generale delle truppe tedesche in Norvegia; Gen. Lilienthal; Gen. Franklin; Gen. Fredeck, austriaco, Gen. Von Dewitz, chiamato “il Siluro”, anche di corporatura; Gen. Bayer; Gen. Stingel, campione di scacchi; Gen. Bòme; Gen. Mueller, comandante delle truppe tedesche a Cassino e che qui venne chiamato “Rigoletto”; Gen. Postel, che aveva sette ferite. Ciò che mi destava più meraviglia, disgusto, forse, era che si bisticciavano fra loro come se avessero 10 anni, per una fetta di pane “più grossa a lui che a me!”, “Quella sedia è mia e non tua!”...e si ritrovavano sottomessi e terrorizzati alla presenza di Csimatis, che li trattava da pecore. Si ribadiva ancor più il concetto che i tedeschi se avevano un capo nessuno li poteva battere, e mancandone erano distrutti. Malgrado i compagni che mi stimolarono a partecipare, non ci andai. Al contrario, uscii dalla camera e con il bastone mi incamminai a fare il giro del giardino, girando la Dacia nel senso contrario all’orologio. Verso di me, nel senso opposto, vidi arrivare il Gen. Hell, solo. Fermandomi, gli dissi: “Voi siete l’unico qui. Perché non con gli altri, mio generale?” Mi guardò fisso negli occhi mettendomi affettuosamente una mano sulla spalla: “Anche voi, mio amico”, mi rispose, “Qui siamo i soli a non celebrare la nostra sconfitta”. E davanti a lui, piansi...! Era la prima ed ultima volta che mi uscivano le lacrime. Era tra i generali di grado più alto, e mantenne sempre l’aquila sulla giacca. Senza più una parola, ognuno proseguì il proprio cammino. Il giornale “L’Alba” era pieno di idee sovversive per demoralizzare il prigioniero. Parlava anche di rimpatrio. Come crederci? Erano gli stessi che ritenevano Marconi un farabutto, che aveva rubato a Popoff l’invenzione del telegrafo; che, come diceva il commissario NKVD Prokuranov, il nostro Crocefisso non era che un “croce-fesso”, prodotto per gli ignoranti capitalisti...Il Gran Padre Stalin avrebbe istruito con profonda pietà i popoli su queste incredibili falsità.
Nell’ultima metà del Settembre 1945 partii con altri 5 colleghi dal “160”, lasciando definitivamente Suzdal. Nel precedente pomeriggio ne ero già stato avvisato da Pio Paolozzi che partiva anche lui e l’aveva appreso dalla Kommendatura, desolato che suo fratello, il Ten. Toio non l’avrebbe accompagnato. Per dove? Non si sapeva. Chi altro era con me? Il Ten. Mare, vecchio e malandato; il Ten. Palmieri, divenuto matto in seguito alla detenzione alla Lubjanka, ove più volte venne davanti al plotone di esecuzione, per poi accorgersi che le armi non lo avevano colpito...! Con cui poi divenni molto amico.
Chi torna dalla guerra non è la stessa persona di prima, ma un individuo totalmente diverso, un altro uomo. Parte per solidarietà, per non sentirsi un vigliacco; vergognoso di rimanere a casa mentre amici, parenti e conoscenti, anche sposati, vanno al fronte. Parte adempiendo ad un dovere preciso al quale non ci si può sottrarre. Vi sono anche coloro che vanno in guerra furiosi e perplessi, perché obbligati a farlo. Quasi tutti vengono ripagati con la stessa moneta: delusione. La guerra è un frantoio implacabile che stritola ed annienta la personalità individuale, trasformando uomini in robot da cui tutto si può ottenere. È una enorme macchina che polverizza i caratteri più forti, piegando i più ostinati, annullando qualsiasi volontà di protestare. Completamente indifferente a esigenze fisiche, morali e sentimentali, demolisce miti ed ideali; distrugge ciò in cui si crede, sconvolge abitudini, provoca la perdita di compassione, di decenza e di onestà. Sviluppa solamente un talento: l’acquiescenza totale. Deve ubbidire ordini anche incompetenti, ingiusti, intimati da parte di superiori. Deve battersi in combattimento anche se atterrito, realizzando che le probabilità di uscirne vivo sono minime. Inoltre, se si tortura il cervello in mille modi per non soccombere, si rende conto che il momento inevitabile della cattura è sempre vicino. La morte, la mutilazione e la sofferenza gli sono costantemente intorno ed hanno luogo ogni giorno. In lui queste finiscono con il perdere il senso del tragico, dell’emozione provata da un uomo normale. Ha imparato ad uccidere, o meglio a sparare contro uomini verso i quali non prova rancore, senza pensare che in quell’attimo li sta uccidendo. La differenza tra questi due sentimenti egli la scopre dall’orrore che lo pervade quando per caso incontra lo sguardo del nemico morente. L’odio contro il nemico è raro. Può pensare di provare questa emozione quando soggetto alla propaganda che mira a disumanizzarlo. Io non credo all’abolizione delle guerre, perché la storia della razza umana ci insegna che questa è utopia. E non voglio neanche discutere se coloro che le vogliono giustificare possano avere motivi superiori. Voglio solo menzionare alcune delle loro conseguenze sugl’infelici che sono chiamati a combatterle in prima linea, sul campo di battaglia, e non nelle retrovie, vicino al quartiere dello Stato Maggiore. Questi soldati, se la sorte consente loro di poter ritornare a casa, sono quelli che chiamo i “RIMPATRIATI”. Poiché ho sottomano un esemplare di uno di loro - ME STESSO - cercherò di tracciare il suo profilo. E’ un uomo che ha perso la capacità di provare emozioni reali. Nessun disastro, nessun massacro, nessun evento raccapricciante riesce a commuoverlo veramente, perché ha acquisito termini di paragone così anormali da negargli un confronto. E questo si manifesta non solo quando non è coinvolto personalmente. Calamità, malattie, gravi eventi che affliggono lui o la sua famiglia sono, certamente, provati con irritazione o disappunto, ma senza vero dolore, in quanto ha imparato che le vere sventure sono di natura più grave. Ha un carattere tollerante, fatalista, quasi indifferente. Non si dispera se la casa è stata svaligiata dai ladri o se ha perso il portafoglio, né reagisce come gli altri quando l’automobile subisce un incidente, se la burocrazia si burla di lui e gli fa perdere tempo prezioso, se la promozione o il successo negli affari non ricompensano il duro lavoro, se la pensione non arriva, se i figli non sono cresciuti come sperava o se la vacanza diventa un disastro. Ha imparato dai Russi, forse, un po’ del loro fatalismo e come loro ha capito che non è solo perfettamente inutile opporsi al proprio fato, ma altrettanto inutile perdersi in recriminazioni contro di esso. È un uomo che non perde la calma in una discussione, perché diventa comunque noiosa dopo pochi minuti; che non da’ molta rilevanza a dichiarazioni politiche, economiche o persino morali, avendo imparato che tutto è relativo, che una netta separazione tra buono e malvagio, ragione o torto, vero e falso, è inesistente. Tali sono le impressioni ed i ricordi di uno che ha dato molto di sé, volontariamente, con l’orgoglio di aver compiuto il proprio dovere là dove altri hanno preferito mancare. |