INDIETRO

Un ricordo per 

Gilda Barnaba  

di Andreina Nicoloso Ciceri

 

 Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non ne sogni la tua filosofia.

Amleto (A. I. Sc. V)  

La memoria del viso sorridente e degli occhi vivaci di Gilda ritornava con insistenza nel mio ricordo, ma ora che ho l’opportunità di parlarne mi accorgo che è passato troppo tempo: tante cose sono accadute lungo gli anni ed i protagonisti sono tutti morti. Altre disgrazie (e il terremoto!) hanno allontanato ed in parte rimosso lo scenario dell’ultima guerra; hanno sbiadito anche le passioni, rivolte a sempre nuovi mali della società. Per quanto mi riguarda è certamente l’età avanzata che mi fa considerare ormai con certo fatalismo vinti e vincitori, vittime e colpevoli.

L’ultimo anno di guerra fu durissimo: moralmente e materialmente. Gli eventi bellici non permettevano trasferimenti in città per la scuola, perciò ospitammo in casa una seconda media (nota 1)  composta di sei allievi. Io insegnavo italiano e latino; tutto il resto era impegno di mia madre. Quei ragazzi erano tutti simpatici e alla fine sostennero l’esame da privatisti con esito positivo. Voglio ricordarli uno per uno, in ordine alfabetico: Gilda Barnaba era la più giovane (n. Strambons nel 1933) ed era anche la più allegra e scherzosa; Giuliana Caramaschi, figlia di due colleghi della mia mamma, è l’unica che ab­bia poi conseguito il diploma di maestra e si è trasferita per matrimonio a Camino di Codroipo dove vive col marito; Enzo Forte, dopo varie traversie, vive ad Avilla; Lietta Minisini era la più dolce e timida ed oggi è sposa e madre in un paese del Veneto; William Nicoloso era intelligente e pieno di inventiva, fece fortuna in Venezuela, ma fu stroncato anzitempo da incidente; Maria Polizzi, figlia di una maestra e del notaio che fu anche Sindaco di Buja, era di gran lunga la più colta e preparata del gruppo ed oggi vive in Liguria.

Io insegnavo anche alla Scuola di Avviamento di Santo Stefano, ma la nostra scuoletta privata mi faceva trascorrere quasi allegramente quei giorni bui. Era un po’ l’incoscienza della gio­ventù. Infatti mia madre era assai più angosciata. Era anche ossessionata dal continuo passaggio di bombardieri che lasciavano lunghe scie nel cielo, perciò si trasferiva spesso con gli allievi in una casa di Sottocolle, dove si sentiva più tranquilla per la vicinanza di un rifugio scavato nella collina, ma così poco affidabile che io non ci volli mai mettere piede. L’episodio più drammatico però accadde proprio alla vigilia della liberazione: 24 aprile 1945. In quella mattina stavo con i ragazzi nella piccola aula allestita al primo piano della nostra nuova casa (poi spazzata via dal terremoto!) e ignoravo che intanto Avilla era messa sottosopra da tedeschi e da cosacchi, perché erano stati rubati alcuni cavalli (nota 2). A mezzogiorno accompagnai i ragazzi all’uscita, ma, mentre inforcavano le loro biciclette, un ufficiale tedesco venne verso di noi gridando e puntando una pistola. I ragazzi gettarono a terra le biciclette e rientrarono in casa, mentre io andavo verso il tedesco per spiegare che si trattava di un gruppo scolastico e non di altro. Ma, siccome tutti oramai sentivano che si avvicinava la resa dei conti, i tedeschi erano più che mai rabbiosi e questo era un SS di stanza ad Osoppo. Entrò in casa e prelevò mio padre; lo portò sulla piazza dove c’era già un gruppetto di ostaggi sotto una leggera pioggia. Mia madre era disperata, per cui io portai a mio padre i suoi medicinali e stetti con lui fino a sera, quando, trovati i cavalli, il gruppetto di ostaggi poté rientrare a casa.

Il giorno dopo, mentre facevo lezione a S. Stefano, fecero irruzione nelle aule i partigiani, ordinando di andare di corsa tutti alle nostre case, perché era imminente l’attacco finale al presidio tedesco. Mentre correvo ad Avilla per un viottolo sotto il bosco, sentivo sibilare le pallottole... Il re­sto è storia che tutti conoscono. Ma anche l’euforia della fine della guerra doveva portare i suoi guai!

Fu in questa temperie, e in certo disordine di quella sorta di interregno, che accadde la disgrazia in cui morì la povera bambina. Nel Registro dei Morti della Pieve di Buja, la morte è annotata in questi termini:

“Anno Domini millesimo non gentesimo qua­dragesimo quinto die 23 mensis funii Hermenegil­da Barnaba filia q. Ismaelis et Angelinae Tissino, aetatis 12 annorum, de paroecia hac, in loco Stram­bons, confessano probato confess. X, SS. Viatico re­fect. X, 5. Olei unctione roborata, et Apostolica Benedictione donata, in comunione 5. Matris Eccì.animam reddidit, eiusque corpus die 25 lunii sepultum est in Coemeterio S. Bartolomae:. Adnotationes: necata fuit ob gra­vem et culpabilem imprudentiam quo­rundamjuvenum.    Sac. Joannes Chitussi Archipresbi­ter”.

Dunque: fu uccisa per grave e colpevole imprudenza di alcuni giovani (nota 3) .

Ho avuto la possibilità di parlare con l’unica testimone oculare del fatto: Edda D’Orlando (nota 4) , nata a Stram­bons nel 1930; viveva proprio di fronte ai Barnaba. Racconta che era un dopocena e che, sentendo delle sparatorie nei boschi, eludendo il controllo dei rispettivi famigliari, lei, Gilda e la sorella Bice (maggiore di un anno), tenendosi per mano e spinte dalla curiosità, si inoltrarono per la strada che conduce da Strambons al cimitero. Racconta che furono più volte ammonite dai giovani perché si togliessero di mezzo, ma la curiosità l’ebbe vinta! I giovani erano eccitati perché provavano un nuovo modello di mitraglietta. Proprio quando stavano riponendo il tutto e far festafinita, non si sa come, partì un colpo forse rimasto in canna. Gilda mollò la presa delle sue manine e si afflosciò al suolo. Le bambine si misero a gridare e poi fu tutto un accorrere di gente...

Alessandra Locatelli, figlia di Bice, che vive a Thiene, mi scrive che Gilda morì “presso l’Ospedale di Udine, dopo inutile tentativo di salvaria”. Secondo Edda, invece, la portarono all’Ospedale di Gemona, ma forse mancò prima di arrivarci (nota 5).

Edda mi riferisce pure di essere stata chiamata due volte a testimoniare nel processo che si tenne a Tolmezzo, ma non ha un completo ricordo d’insieme. Cercai dei cinque giovani coinvolti nel fatto, ma pare che oramai siano tutti morti (nota 6) . Riuscii invece a parlare con la sorella di uno di loro: Neva Eustacchio, vedova Revelant, attualmente residente ad Artegna. È una faconda parlatrice e mi narra che le fu messo il nome Neva (nota 7) perché sia il padre che il nonno erano stati a lavorare sulla ferrovia Transiberiana. Mi racconta della sua famiglia di Giorgiòn che si trasferì da Solaris a Monte. Mi racconta della vita breve dei suoi due fratelli ed in particolare di come fu avventurosa e tragica quella di Italo, natò nel 1924 e arruolato volontario nella Milizia a 18 anni, poi passato nell’esercito badogliano; presente alla battaglia di Montecassino, alla fine della guerra, arrivò a Buja al seguito dell’armata americana. Poiché era coetaneo ed amico di molti partigiani, andò con loro nel Bosc dal Band (c. Ponzale) in quel disgraziato 23 giugno. Nei giorni precedenti erano stati affissi ovunque manifesti con l’ordine di consegnare ogni arma che fosse in giro. Riporto uno stralcio dell’ordinanza (nota 8) : “Detenzione non autorizzata di armi da fuoco. Il Governo Militare Alleato ha diramato il seguente ordine provinciale N. 11:

1) Entro il 24 giugno 1945 tutte le formazioni ed organizzazioni di Patrioti della provincia di Udine dovranno essere disarmate e disciolte. Dopo la suddetta data tali formazioni ed organizzazioni avranno cessato di esistere.

2) Tutti gli automezzi...

3) Tutte le armi da fuoco, munizionz esplosivi e simile materiale di carattere bellico in possesso od in uso delle formazioni Patriottiche o di qualsiasi membro di esse entro la data del 24 giugno 1945 si considereranno cedute in custodia alle Forze Alleate non oltre tale data.

4) Chiunque dopo tale data...”.

È comprensibile che i giovani volessero per l’ultima volta usare le armi. Così accadde la disgrazia di cui parliamo. Neva dice che, mentre tutti gli altri giovani spaventati scapparono, Italo accorse a raccogliere la bambina, tanto che poi rientrò a casa con le vesti insanguinate. Pianse molto e voleva chiedere perdono alla madre, ma l’incontro non ci fu perché il dolore era ancora troppo cocente (nota 9).

Seguirono tempi di miseria e, per trovare lavoro, bisognava emigrare:   Neva ed altri famigliari andarono in Svizzera (in quei tempi era come la Terra Promessa), ma Italo non poteva avere ancora il passaporto, perciò, con altri, ricorse all’espatrio clandestino (gennaio 1946). Neva ricorda che i passeurs del Monte Bianco, verso la Francia, ricevevano solo pagamenti in oro, cosicché i famigliari dovettero raggranellare tutti gli oggetti di famiglia. Da ra­gazzo Italo aveva lavorato come aiutante nel panificio di 5. Stefano; ora invece dovette fare qualunque mestiere di fatica e soprattutto il muratore, nella zona disastrata dove c’era stata la linea delle fortifica­zioni Maginot. Si formò una famiglia, ma un incidente di motocicletta lo colpì nel 1954: “Tragico incidente ne stroncò l’esistenza... “. Sono le parole che i famigliari fecero stampare per ricordo sotto la sua fotografia, e non mancano di richiamare l’altro tragico incidente che fu perno doloroso anche della sua breve vita.

 Ringraziamenti

Ringrazio vivamente le persone citate nel mio scritto ed inoltre: m. Pier Angelo Gaiotti, Gianandrea Barnaba, Efrem Cattarino, Mirella Comino, Armando Miani, Eligio Piemonte, Egidio Tessaro, Anna Maria Tissino.

 

INDIETRO