NEL TURBINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Quando nel dicembre del 1938 veniva benedetto il secondo gagliardetto del Gruppo Alpini in congedo di Buja, sul cielo d’Europa già si addensavano le nubi fosche e minacciose che, a distanza di pochi mesi, avrebbero gettato il mondo nel cataclisma della seconda guerra mondiale. Guerra micidiale e spaventosa, seguita dal crollo della dittatura, dalla invasione, dalla lotta fratricida ed alla lotta di liberazione. Non è compito di questo scritto elencare le battaglie sostenute, il valore e l’audacia, lo slancio e la dedizione degli Alpini, i sacrifici inenarrabili, i morti fra il gelo della steppa o nei campi di sterminio.I morti bujesi durante il secondo conflitto mondiale assommano a 166, uniti fra militari e civili; gli alpini erano 69. L’elenco delle vittime ci dà un quadro della tragedia che aveva squassato l’umanità; esse caddero in Grecia, in Jugoslavia, in Albania, in Africa, in Spagna; in conflitto con i Tedeschi, con i partigiani e con i Cosacchi; chi stritolato sotto i bombardamenti aerei, chi scomparso nei campi di concentramento in Germania, chi fucilato dalle fazioni, chi affogato in mare...
Gli Alpini alle armi in quel tragico periodo, come sempre, si distinsero per il loro slancio, per il loro eroismo...
Ma la « passione » più tragica degli alpini, soprattutto friulani, resta legata all’affondamento della nave « Galilea » e alla ritirata della Russia.
All’uno ed all’altro avvenimento furono presenti in numero imprecisato anche gli alpini di Buja.
A rievocare i due tragici episodi riferiamo alcune pagine magistrali tratte dal volume di Giulio Bedeschi: « Centomila gavette di ghiaccio »
L’affondamento della « Galilea » avvenne nella notte del 28 marzo 1942. Gli alpini dalla Grecia rimpatriavano dall’Albania per essere inviati in Russia.
«Le navi salparono ad una ad una... faticosamente nel mare in tumulto.
Gli Alpini sapevano che la notte minacciava agguati, circondando di insidie la Julia. Sapevano pure che la radio nemica aveva minacciato di sterminio la Julia quando fosse stata sul mare. Ma non temevano — gli Alpini — volevano solamente rivedere la madre, la famiglia...
Le navi si riunivano, poi si ridistanziavano in gran furia, frettolose e preoccupate. Allora gli Alpini su ogni nave si guardavano e si chiedevano dove fossero andate le altre, se fosse successa qualche disgrazia; tendevano l’orecchio perchè con i sibili del vento sembrava ogni tanto che giungesse anche l’ululato di una sirena, a dire che una nave andava a fondo.
Stavano in pena perché sulle navi era frazionata una intera, una sola famiglia, di un unico ceppo, divisa a battaglioni e gruppi sulle singole navi, e io avevo un cugino nel battaglione Tolmezzo e un fratello nel gruppo Udine, e tu avevi uno zio nel Conegliano ed il marito di tua sorella nel Gemona... Tutti di una stessa razza, degli stessi paesi, perchè così è, fra gli Alpini. Se fossero stati sui monti non ci sarebbe stato da darsi gran pena per gli altri, perché un alpino sa sempre dove mettere i piedi. Ma se la nave va a fondo, dove lo mette il piede, sul mare?...
Ma quando la notte è più fonda, la tempesta più furiosa, il freddo più intenso, l’acqua più insidiosa, un boato rintrona nella caligine e si diffonde sulla superficie del mare... I siluri sfrecciano tra nave e nave, una è stata colpita in pieno. Quale? Quali fratelli sono in pericolo? Cosa si fa per salvarli?
Non fanno nulla, per la prima volta non possono far nulla, essi che si sono sempre difesi a vicenda con le unghie e coi denti. Secondo gli ordini di navigazione, le navi devono invece spingersi a tutta forza lontano dalla zona infestata dai sommergibili, alle operazioni di soccorso può provvedere soltanto il naviglio di scorta.
“Quale nave è stata colpita?” vogliono sapere gli Alpini mordendosi le mani nel sentirsi impotenti.
“Il Galilea!”.
Un urlo, che per ogni nome di nave sarebbe stato uguale, sorge dalle labbra contratte. A bordo del Galilea, oltre il comando di reggimento e un ospedale da campo, sta un intero battaglione, il Gemona, forte dei mille alpini che lo compongono. Hanno sentito lo schianto del siluro che dirompeva il fasciame della loro nave... Il naviglio sottile di scorta tenta di accostarsi e iniziare l’opera di salvataggio ma il mare lo respinge, vuole intatta la sua preda. Nessuno deve poter avvicinarsi ai mille alpini aggrappati al relitto che dondola nella tempesta e nel buio... affonderà, alla fine affonderà, tutto apparterrà al mare.
La lotta contro il mare ferve attorno alla nave squarciata... I primi plotoni vengono calati in mare sulle scialuppe, ma subito gli uomini annaspano nell’acqua gelida.., le imbarcazioni si rovesciano disseminando nel mare i giovani alpini. Qui non c’è roccia, né terra, né ghiaccio per poggiare il piede e dare punta d’appoggio alla forza dell’alpino; di tanto sasso calpestato non un briciolo rimane sotto i piedi che agognano affannosi un sostegno nella mollezza dell’acqua; di tante incredibili vicende non resta che quella, l’ultima, buona solo per dibattersi ancora un poco, mentre si inghiotte l’ultima amara acqua di quella vita che, con gli ultimi sorsi e sussulti, se ne va...
Sul « Galilea » che affondava, fra quei rampolli di una sola famiglia, di un unico ceppo affogarono cinque alpini bujesi, altri riuscirono miracolosamente a salvarsi.
Dopo la tragedia della nave Galilea, ai reduci della Julia venne concesso un mese di licenza.
« Avevano avuto il tempo di riabbracciare i vecchi, la sposa o la fidanzata, la parentela; di conoscere i nuovi venuti nella famiglia, i nati durante l’assenza; avevano fatto il giro del paese a salutare, a bere un bicchiere qua, un bicchiere là, nelle case, all’alpino che venuto in licenza e alla sera tornava in famiglia la mamma diceva tentennando il capo che il suo Toni le sembrava un po’ allegro; erano andati a salutare il parroco che domandava se avevano ancora quella medaglietta della Madonna avuta in dono il giorno della partenza per la guerra. E il parroco diceva: bravi, bravi, lo sapevo che vi siete mantenuti buoni ragazzi... Erano entrati, ed era un brutto momento, nelle case dove si mettevano a piangere al vederli, per via del figlio morto.
E poi i trenta giorni erano passati; licenza finita.
Si erano ritrovati tutti, quindi, nelle caserme; meno i mille del Gemona. Ma però il Gemona era ancora in piedi ricostituito, perchè quando muore un alpino c’è sempre un altro alpino che prende il suo posto, e magari è il cognato o il cugino o il fratello. E se ne mancano mille, la montagna ne può dare mille, perchè nessuno si tira indietro... Avevano ripreso a fare brusca-e-striglia, a lucidare i finimenti, a rivedere i materiali e i muli e tutto, perchè questa era la volta di andare in Russia... Un giorno avevano saputo che era stata loro decretata la medaglia d’oro. SI, a tutti loro, vivi e morti della Julia per quello che avevano fatto insieme in Albania...
La divisione alpina Julia si era tutta schierata lungo il Don, secondo gli ordini. Per vari chilometri di fronte, sfruttando sapientemente il terreno i due reggimenti alpini e il reggimento di artiglieria alpina facevano la guardia all’acqua, allineandosi nelle trincee che sempre più numerose e profonde solcavano la riva del fiume... Il Don scorreva argenteo e sornione fra i due schieramenti nemici... Sulla riva sinistra i Russi operavano nottetempo compiendo qualche sortita al di qua del fiume... Di giorno la presenza dei soldati russi era quasi celata dalla quasi ininterrotta striscia di bosco che fasciava la riva... Ma se un Italiano incauto si esponeva anche per pochi secondi, una solitaria fucilata ben presto lo freddava... I Russi avevano disposto infallibili tiratori appollaiati sugli alberi. Sulla riva destra, dalle prime postazioni d’arma automatica mimetizzate, agli osservatori, alle trincee, alle compagnie, alle batterie, un’unica rete di minutissima organizzazione e di appassionata volontà rendeva temibile lo schieramento alpino...
Dall’alto, il cielo di ottobre guardava e accoglieva la sfida aggrottando a minaccia l’immensa fronte nuvolosa...
Tutta l’armata italiana, duecentotrentamila uomini, era allineata sul grande fiume. Tridentina, Julia, Cuneense, sessantamila alpini costituivano l’ala nord dello schieramento italiano che stendeva verso il sud, affiancando le divisioni Cosseria, Ravenna, Pasubio, Torino, Celere, Sforzesca, e la Vicenza di rincalzo. Tutte si apprestavano ad affrontare l’inverno russo e s’erano affondate nella terra... A fine ottobre, settanta centimetri di neve seppellivano nel bianco il caposaldo. A cento passi di distanza non si distingueva altro che steppa russa; ma tre metri sotto la steppa ferveva la vita degli uomini della ventisei
Gli Alpini della Julia fecero il viso incredulo, a mezza mattina di quel sedici gennaio 1943. Bisognava ripiegare! “Statemi a sentire [disse il capitano] ... Lo so anch’io che la Julia non è stata battuta in nessun modo... Qui è stata quasi completamente circondata da lontano... Se non se ne va di qui cade prigioniera, per aggiramento a largo raggio, senza neppur potersi difendere e combattere...”. La Julia prigioniera senza combattere?! Solo l’idea esasperava gli alpini che si buttarono sulle opere di riparo e con poche mazzate le distrussero. Caddero le misere assicelle, i tetti di paglia e di neve...».
Si era iniziata la spaventosa ritirata nelle vastità della steppa russa.
«La colonna marciava affondando fino al ginocchio nella bianca vastità del proprio sepolcro».
I soldati a migliaia cadevano sul desolato biancore della steppa, immensa come il cielo, cadevano dopo sofferenze inenarrabili, « blocchi di ghiaccio »... Soltanto nella primavera veniente la neve sgelata avrebbe restituito le loro ossa sconosciute Lassù, in Russia, lasciarono la loro vita gagliarda quarantadue alpini di Buja!
Fra i pochi fortunati superstiti bujesi ricordiamo il sergente Luciano Papinutto, che ha rivissuto la sua dolorosa esperienza in alcune pagine che Giulio Bedeschi ha inserito nel volume: «Nikolajewka c’ero anch’io»