Momenti di guerra di Giovanni Ragagnin |
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«Perdio, nessuno vuol venire!». Quasi protestai verso il comandante, che, avvolto in una coperta se ne stava rannicchiato in un angolo, tra i piedi degli uomini del suo battaglione. Batteva i denti ed aveva la febbre, come del resto la maggior parte degli uomini: dopo cinque giorni di combattimento e marcia continua, nessuno poteva più resistere. Forse anche perché la guerra, ormai, era finita. «La Germania ha firmato la resa», ci avevano detto nel pomeriggio e, da quel momento, ognuno aveva sentito dentro sè il peso del grande avvenimento. Il comandante, sfinito, sentiva la stanchezza dei lunghi mesi di montagna, ma era anche soddisfatto per i risultati ottenuti. Sdraiati sul cemento, nello squallido magazzino, i più dormivano, gli altri sognavano con lo sguardo fisso al soffitto, ma in tutti quei volti, invecchiati dalle barbe lunghe, dalle rughe anzitempo venute, v'era una piega di tristezza: non così se l'erano immaginata la fine della guerra. Questa doveva essere improvvisa, colmarli di una grande gioia, non una conquista lenta che li aveva decimati da borgo a borgo. Il nemico non doveva più esistere alla fine della guerra, mentre ancora esisteva, anzi era più accanito che mai. Anch'io provavo i loro stessi sentimenti. Lo stesso odio per tutto ciò che si chiamava guerra: eravamo stanchi di morire e rischiare la pelle, ora che si profilava una nuova vita, non garbava affatto. Questa era la realtà. Io facevo da collegamento fra i vari battaglioni, alloggiati nei paesi che circondavano la città, attendevamo la notte per dare l'assalto ad uno degli ultimi baluardi nemici. Non avevamo alcuna nuova di ciò che stava tramando il nemico: in lontananza si udiva nitido un frastuono di motori, come una colonna che avanzasse lentamente: forse era il nemico che tentava la fuga. «Qui tutti dormono, - continuai - e se ci sorprendono, cosa faremo? ». Il comandante strinse le mascelle per troncare il tremito, poi disse:«Andiamo, verrò io con te». Si stropicciò gli occhi e, guardandosi un istante intorno, mi porse una mano perché l'aiutassi ad alzarsi: «Ho paura che stasera andrà male!». «Lo temo anch'io» risposi. Scavalcando gambe e piedi, uscimmo all'aperto. Imbruniva, il cielo che ad oriente era ricoperto di nubi, a ponente era rosato. Attraversammo il paese, non scorgemmo alcuno nelle vie: tutto era coperto con silenzio d'attesa. Salimmo su un camion che avevamo nascosto in una delle ultime case e partimmo verso la città. Solo allora, da alcune finestre apparve qualche faccia spaurita. Scorsi una ragazza e la salutai festoso; ella alzò la mano e, continuando a stringere la corona del rosario, mi fece un cenno d'addio. «Mai pregato tanto 'sta gente!». Feci al mio compagno che, nervoso, guidava con gli occhi sbarrati. Cercò di rispondermi, ma la raucedine gli trattenne la voce. Imprecò un po' tra sé, poi si schiarì la gola: «Sai, quando si ha paura di morire» - tacque un istante - «però, se domani siamo vivi, a quest'ora ci faremo una bella bevuta ... questa sera si rimarrà in pochi, però, domani ci piglieremo una bella sbornia». Sorrisi, anche lui apparteneva a coloro che non potevano mai morire. Misi i piedi sul cruscotto e, con lo sguardo, viaggiai nella pianura piena di gelsi rosei di tramonto. Corremmo per vari minuti assorti nelle nostre riflessioni, quando il mio compagno disse:«Guarda quella nebbia» ed accennò col capo alla bruma che, a qualche chilometro, si ergeva pigra. Io l'avevo già notata: era la solita bruma del crepuscolo. «Sì, perché? » chiesi. «Guarda come avanza, un minuto fa appena si scorgeva». Era vero, avanzava lenta, ma decisa. Corremmo ancora un po', poi ci arrestammo. Il rumore dei motori continuava in lontananza e la nebbia, avanzando, diventava sempre più spessa. «È nebbiogeno - disse - tu attendimi qui, sarà meglio che vada da solo a vedere come stanno le cose» e, sceso dall'autocarro, s’avviò lesto sulla strada. L'osservai allontanarsi e mi sentii preso dalla nebbia consistente e da quei rumori che portavano sino all'estremo il fascino del momento che precede la battaglia. Udii alle mie spalle un mormorio lieve: mi sporsi dal cristallo della portiera. Una vecchia dall'abito nero si era posata con una mano al parafango e muoveva le labbra come se pregasse. L'osservai un istante: aveva la faccia gialla, completamente tagliuzzata da rughe e due occhi grigi cerchiati di nero, che sembrava fuliggine. Riguardai il mio amico che stava scomparendo nella nebbia, attendendo che la vecchia mi rivolgesse la parola. Ma ella, ferma nella sua posizione, continuava a mormorare, forse a pregare, guardandosi, di quando in quando, i polsi e le dita sporche. C'era qualcosa di strano in lei e mi misi a parlare:«Avete visti i tedeschi?», le chiesi. Ella mi volse solo un rapido sguardo ed annuì col capo.«Cosa fate, pregate?» ritornai a chiedere. Solo allora sembrò prendermi in considerazione. Con gli occhi fissi nei miei, si avvicinò lenta, radente al camion, con la stessa pigra decisione che ha il gatto quando sfiora un muro per sentirsi accarezzare. Attaccò ambedue le mani al cristallo, poi disse:«Gli hanno tagliato per metà le dita, tutte..... prima, però gli avevano dato da bere acqua, quasi un secchio». La osservai un po' stupito. Le sue pupille erano incollate al centro dell'orbita e sembrava che mai avessero saputo muoversi. «Di che cosa parlate?», ma le mie parole non la interessavano affatto e la sua voce afona riprese: «Perché lo hanno ucciso, non era mica partigiano mio figlio. Mio figlio accudiva le pecore, falciava, certe giornate mi faceva anche arrabbiare, ma con loro era sempre stato buono». «Vi hanno ucciso il figlio?» feci e stavo per dirle che anch'io avevo visto morire parecchi figli, ma non l'avrebbe certamente consolata. «Perché lo hanno ucciso?» e il suo sguardo attonito si posò di nuovo sulle dita. Poi continuò, come se sentisse il bisogno di condividere la pena con qualche altro: «A mia nuora hanno ucciso anche tre pecore». Io annuii muto, guardando sempre sulla via ove più nulla si scorgeva. La sera ormai si era chinata su ogni cosa. «Ora dove andate?» chiesi.«Vado al fiume anch'io: lui lo hanno ucciso sul fiume» e con una mano indicò verso la campagna. «Quando lo hanno ucciso?» «Prima, nel pomeriggio.» Trasalii e chiesi insistente:«Ma voi dove abitate?» «Sul bivio del ponte. Lassù.» Rispose sempre nella sua calma assente. «E dopo aver ucciso vostro figlio dove sono andati i tedeschi?» «Non so» fece priva di interesse «gli hanno tagliato le dita e lo hanno ucciso sul fiume: gli chiedevano tante cose che lui non sapeva.» «Ma dove sono andati?» insistetti.«Oh, in nessun posto: lui accudiva solo le pecore: sono rimasti lì, in casa e mi hanno mandato via. E adesso io vado al fiume». Disse ancora qualcos'altro, ma io non l'udii finchè, abbracciato l'automatico, abbandonai il camion e mi avviai rapido sulla strada: i tedeschi, dunque, non erano neppure ad un chilometro di distanza e forse, da un momento all'altro, avrebbero continuato ad avanzare. Per un momento pensai di ritornare indietro ad avvertire il grosso del battaglione perchè si tenesse pronto per un eventuale attacco. Ma non riuscii a convincermi d'abbandonare il mio compagno che ignaro, forse, camminava verso la morte e mi misi a correre, chiamandolo ad alta voce. Non avevo fatto che pochi passi quando, in lontananza udii la caratteristica rapida scarica del «mascin» tedesco. Mi arrestai. Un bengala d'allarme brillò nel cielo e la sua luce, trasportata vieppiù dalla nebbia, inondò d'un rosa allucinante tutto il paesaggio. Scorsi un'ombra che ad un centinaio di passi avanzava cauta. Mi gettai nel fosso che fiancheggiava la strada e puntai l'automatico. Subito, però, sentii chiamare il mio nome in lontananza: era il comandante, come avevo immaginato appena scorta l'ombra. Di corsa lo avvicinai e subito m'accorsi che era ferito. «Ho trovato i tedeschi» disse «mi hanno intimato l'alt». Mi chinai sulla sua gamba zoppicante: una pallottola di striscio gli aveva strappata la carne per vari centimetri: «Non è nulla!» lo rassicurai «corriamo» e, sostenendolo, dopo qualche minuto raggiungemmo l'autocarro. Con una rapida manovra lo girammo e, veloci, ritornammo al paese. La notte stessa, nonostante la stanchezza, fummo noi ad attaccare ancora una volta, forse il nemico oppose una leggera resistenza perché sopravvalutò le nostre forze. All'alba entrammo in città con un solo ferito e con una grande contentezza in cuore. Quando nel pomeriggio fu ristabilita la calma, presi in magazzino due bottiglie di cognac e mi avviai verso il vicino ospedaletto. Trovai il mio amico steso su un letto con la gamba fasciata. Appena mi vide si alzò e mi venne incontro raggiante: osservò un istante le bottiglie: «Te l'avevo detto che oggi ci saremmo pigliati una bella sbornia. Andiamo all'aperto; questo puzzo di medicina non mi va!» Disse e pose una mano sulla mia spalla. Uscimmo verso il giardino; arrivati sul piccolo atrio scorsi sul lastricato una grande coperta stesa su qualcosa di voluminoso. Subito pensai fosse un morto. «Chi è?» chiesi.«Oh, sono un uomo e una vecchia» disse un po' compunto il mio amico; «li hanno rinvenuti nel fiume che passa qui, vicino alla città. Li hanno portati già da un po'». Mi avvicinai e alzai un lembo della coperta: due pupille, fisse al centro dell'orbita, mi guardarono assenti, mentre le labbra pallide di un uomo stavano per baciarle. Tornai a stendere la coperta. «Andiamo, andiamo a berci questo goccio» m’invitò l'amico. Certo, aveva ragione: la guerra era una brutta cosa. |