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L’odissea di Piedicolle

(giugno 1942 – aprile 1944)

di Diego Canciani

 

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Sono stato assunto nelle Ferrovie dello Stato ai primi di giugno 1942, non ancora 17enne, per coprire i posti liberi lasciati vacanti dai ferrovieri che venivano richiamati alle armi.

L’impianto assegnatomi è stata la stazione di Pontebba (UD) e, siccome era la prima volta che mi allontanavo dalla casa paterna, ricordo di aver incontrate notevoli difficoltà a trovare una sistemazione decorosa e ad abituarmi a vivere da solo.

Dopo il superamento degli esami di abilitazione, mi destinarono al centralino telefonico, al posto di un collega che era stato trasferito alla stazione di Tarvisio Centrale.  Lì eravamo in tre e dovevamo fare un turno di servizio che permettesse la copertura di tutte le 24 ore.

Ero stato assunto come “straordinario”, e le regole di allora non mi permettevano alcun riposo settimanale, congedo o ferie. Non avevo nemmeno i biglietti chilometrici gratuiti per poter raggiungere, dopo smontato dal servizio di notte, la stazione di Artegna da dove, in bicicletta, raggiungevo poi Mels di Colloredo di M.A. dove risiedevano i miei genitori.

Devo dire però che, se da un lato il sacrificio di 57 ore medie settimanali di servizio, mi riservavano ben poco tempo libero, ciò nonostante tutte le volte che mi si offriva la possibilità, mi trattenevo presso l’ufficio telegrafico di stazione per imparare la telegrafia Morse. La stanza del centralino telefonico in cui operavo e l’ufficio telegrafico, per ragioni di servizio, erano collegati attraverso uno sportello e così, dopo breve tempo era nata una reciproca simpatia coi colleghi telegrafisti, con i quali condividevo anche gli stessi orari di servizio.

Più il tempo passava e più mi sentivo attratto da quel ticchettìo frequente delle apparecchiature telegrafiche che ricevevano i dispacci di servizio, con punti e linee, che poi venivano registrati su di un nastro di carta telegrafica.

Avevo convinto i due telegrafisti, Croppo e Bergagna, che le lezioni teoriche che mi avevano impartito, avevano sortito in me un ottimo risultato e così mi permisero di passare alla pratica, ossia all’uso vero e proprio del tasto in trasmissione, prestando molta attenzione alle raccomandazioni che avevo ricevuto nel corso delle suddette lezioni.

Nel frattempo, gli avvenimenti bellici che si succedevano di giorno in giorno, erano motivo di preoccupazione per tutti.

Si vedevano arrivare dal Fronte russo, per una breve sosta, alcune tradotte militari dell’ARMIR che trasportavano materiali sinistrati, soldati feriti diretti in ospedali attrezzati per le cure, mentre alcuni di loro, più fortunati, ci facevano dei cenni affinché ci avvicinassimo per offrirci, in cambio di poche lire, caffè, zucchero, sale ed altro materiale.

Dopo la visita di leva della mia classe, avvenuta il mese di maggio 1943, il Capo Stazione Titolare di Pontebba, un certo Morandi, detto “Sciarpa Littorio”, pretese che tutti i ferrovieri in servizio della nostra età, frequentassero il pomeriggio del giorno in cui smontavamo dal turno di notte, un corso premilitare inventato da lui. Spesso tuonava per convincerci: “In questo momento solenne tutti devono sacrificarsi per il bene della nostra amata Patria”…

Era una pretesa che ritenevamo assurda: tutti avevamo problemi in famiglia a causa della guerra, lo stipendio era molto basso e la lontananza da casa propria ci costringeva purtroppo a varie spese che alla fine del mese incidevano parecchio. Nel mio caso poi i miei genitori erano soli e attendevano sempre ansiosi il mio rientro da Pontebba per poter avere da me un aiuto ogni qual volta le esigenze familiari lo richiedevano, visto che l’unico mio fratello, della classe 1920, era stato richiamato alle armi e inviato in zona di operazioni.

La mia decisione di non partecipare al corso premilitare, fece andare su tutte le furie “Sciarpa Littorio” per cui, come ritorsione, propose una punizione esemplare e mi fece trasferire immediatamente in un impianto dove venivano inviati tutti quei ferrovieri che si macchiavano di insubordinazione.

Così nella prima decade di giugno 1943, pochi giorni dopo i fatti di cui sopra, mi venne comunicato ufficialmente che mi avevano assegnato alla stazione di Piedicolle (ora Podbrdo), che si trova nel tratto di linea ferroviaria “Transalpina”: Nova Gorica, B. Bistrica, Jesenice, Villach.

La notizia mi colse di sorpresa e creò grande apprensione anche nei miei genitori perché avevano sentito dire che quella località era particolarmente pericolosa.

A nulla valsero gli elogi ricevuti dai superiori per il mio impegno e senso di responsabilità che avevo dimostrato tutte le volte che ero stato chiamato a svolgere mansioni superiori.

Al momento di prendere commiato dalla stazione di Pontebba, il segretario del C.S. Titolare sig. Pesamosca, persona comprensiva e umana, con un atteggiamento che definirei paterno, mi fece i suoi personali auguri, poi mi consegnò una busta di servizio sigillata dentro la quale c’era tutta la documentazione personale necessaria per presentarmi, entro 48 ore, alla stazione di Piedicolle.

Venne così il momento di partire: ricordo ancora oggi quel triste giorno, quando salutai e abbracciai i miei genitori con le lacrime agli occhi, presi la valigia, la sistemai alla meglio sulla bicicletta e mi diressi verso la stazione F.S. di Udine.

Mentre mi dirigevo in treno da Udine verso Gorizia Centrale, un conduttore addetto al controllo dei biglietti di viaggio, al quale mi ero rivolto per chiedere alcune informazioni, mi informò che alla stazione di S. Giovanni al Natisone era salito un ferroviere diretto anche lui alla stazione di Piedicolle.

Conobbi così il collega Tarcisio Braida che mi diede le prime informazioni sul posto verso cui ero diretto.

Appena scesi dal treno a Piedicolle, pochi minuti prima di mezzogiorno, mi fermai un attimo e, come un po’ smarrito, mi guardai attorno osservando quel luogo che, definire lugubre, non era affatto eccessivo. Intanto, l’amico con il quale avevo condiviso il viaggio, mi attendeva in disparte per accompagnarmi dal segretario della stazione, un certo Princic, che era in attesa della mia documentazione.

Dopo i convenevoli di rito, Princic mi presentò al C.S. Titolare Ippolito Gueze, una persona dall’aspetto paterno e pacato che mi mise subito a mio agio e volle che gli raccontassi in sintesi quanto mi era accaduto a Pontebba.

Dopo aver risposto alle sue domande, il sig. Gueze mi disse che era mio dovere accettare ormai la situazione esistente e che dovevo cercare di ricambiare con tutto l’impegno possibile, la fiducia che sentiva di poter riporre nei miei riguardi.

Dato che avevo la necessità di sistemare le cose personali portate da casa, il Titolare diede disposizioni affinché mi venisse assegnato subito uno stipetto e un posto letto nel dormitorio del personale di stazione, situato a circa 150 metri oltre il recinto ferroviario.

Il caso volle che mi assegnassero in una camera a tre letti dove dormivano già i colleghi Braida di S. Giovanni al Natisone e un certo Giuseppe Grattoni di Buttrio.

Per quanto riguardava invece il vitto, tutti i ferrovieri che facevano parte della Stazione F.S., si servivano della mensa posta al primo piano della stazione; avevamo l’obbligo di versare al responsabile della mensa, i talloncini della Tessera annonaria che ciascuno di noi possedeva.

A differenza della stazione di Pontebba, quella di Piedicolle era allora una stazione di confine con l’Austria e formata su una linea a semplice binario, però a trazione con locomotive a vapore e si trovava in una zona montuosa e in una gola stretta che non permetteva ulteriori espansioni, né al fabbricato viaggiatori (stazione), né tanto meno allo scalo ferroviario.

Era posta su un pianoro ricavato quasi ai piedi della montagna, mentre, più a valle, c’era un torrente che scorreva parallelo alla strada principale che portava al paese poi, a breve distanza, riprendeva a salire l’altro versante della montagna.

A quell’epoca, lo scalo ferroviario di Piedicolle era composto di sette binari, due cabine A e B in cui operavano gli addetti alla manovra degli scambi, mentre a sud c’era una piattaforma mobile che veniva utilizzata per girare le locomotive.

Sul versante nord, dopo l’ultimo scambio, c’era un ponte in ferro lungo circa 12-15 metri sotto il quale passavano la strada principale del paese e il torrente che scendeva da nord-est.

Oltre il ponte ferroviario, aveva inizio una galleria della lunghezza di quasi sette chilometri e a circa metà della quale una targa indicava il confine di Stato Italia-Austria, poi, a poco più di un Km. fuori della stessa galleria, c’era la prima stazione austriaca: Feistritz Wocheinersee.

Il fabbricato vero e proprio della stazione di Piedicolle, era disposto da nord a sud, era di forma rettangolare e, a causa delle sue scarse dimensioni in larghezza, certi uffici non rispondevano appieno alle reali esigenze di spazio per svolgere tutti quei compiti che ci venivano assegnati, per cui molte volte eravamo costretti a lavorare con evidenti difficoltà.

Trattandosi di un transito secondario, i treni merci provenienti dall’Austria arrivavano spesso con carri (vagoni) carichi prevalentemente di legname, carbone e merci varie.

Dopo i gravi eventi dell’8 settembre 1943, questo genere di trasporti si interruppero improvvisamente lasciando spazio invece a sempre più frequenti trasporti militari provenienti dalla Germania e diretti verso l’interno dell’Italia.

Appena libero dal servizio, insieme a un collega della mia età, andai a fare un giro a piedi in paese, che allora contava circa 200 abitanti, capimmo subito però che la gente del luogo gradiva a malapena la nostra presenza in quel territorio. Mi sorprese che lassù non esistesse un cinema e neanche l’usanza di fare festicciole domenicali, come accadeva in Friuli con musica ed altre occasioni di svago. Non esistevano inoltre insediamenti industriali, né attività commerciali, salvo qualche iniziativa privata che si prendeva cura dell’abbattimento di abeti, larici, ecc. nei boschi circostanti, i cui tronchi venivano poi spediti, tramite la ferrovia, in varie località dell’entroterra italiano. Concludemmo infine la passeggiata recandoci alla caserma della G.a.F. (Guardia alla Frontiera) che si trovava a circa 5-600 metri a valle dell’abitato di Piedicolle, lì prestavano servizio militare tanti friulani tra cui un certo Minini di S. Eliseo di Majano che conoscevo molto bene.

Durante i primi mesi di servizio, dovevo rispettare un orario di ben 57 ore medie settimanali, se mi inserivano in un turno (che si diceva “in terza”), altrimenti le ore potevano essere talvolta anche di più, senza mai percepire alcuna maggiorazione di stipendio.

Trascorsi l’estate del 1943 in modo abbastanza tranquillo, ero riuscito a stabilire un buon rapporto con gli altri colleghi, ed ero apprezzato dai superiori con i quali avevo lavorato.

Come ho già accennato, quando eravamo liberi dal servizio, io e gli altri colleghi non avevamo molta scelta sul come trascorrere qualche ora in allegria in quel povero paese.

Pertanto, una domenica di agosto, d’accordo con Mario, un Dirigente al Movimento treni che parlava correttamente la lingua tedesca e conosceva molto bene alcuni colleghi austriaci della stazione di Feistritz W., organizzammo una gita che ci permettesse di trascorrere alcune ore tutti insieme oltre confine. L’idea era quella di andare a pescare in un lago poco distante dalla stazione austriaca.

Ad una certa ora di quella domenica però, Mario venne informato che il Comando militare tedesco, proprio sulla tratta Piedicolle-Feistritz W., avevano fatto sopprimere alcuni treni merci e viaggiatori. Non sapevamo più come fare per poter andare di là del confine, ma, dato che questa breve gita era già stata programmata da un po’ di tempo, non volevamo assolutamente rinunciare a questa occasione.

La giornata era magnifica, in più c’era il desiderio di vedere le novità e quant’altro poteva offrire quella località oltreconfine. L’idea ci aveva veramente entusiasmato e così Mario, che era una persona molto dinamica, riuscì a far mettere in ordine un quadriciclo a pedali che veniva utilizzato dagli operai addetti alla manutenzione della linea ferroviaria e a farlo portare sul binario di partenza. A quel punto dovevamo decidere chi doveva partire, poiché dovevamo essere non più di cinque e tutti in grado di pedalare. Prendemmo gli accordi coi colleghi di oltre confine e, verso mezzogiorno, partimmo alla volta di Feistritz W. su una linea in leggera salita.

Pedalando a tutta forza lungo tutti gli otto Km. circa, arrivammo finalmente a destinazione, dopo oltre un’ora. Appena scesi dal quadriciclo, tutti i ferrovieri austriaci presenti vennero incontro a salutarci chi in italiano e chi in tedesco, ci fecero gran festa e poi ci offrirono uno spuntino con dell’ottima birra.

Dopo un po’, cominciamo a guardarci intorno e notammo con stupore com’era diverso il paesaggio, le case e la gente del luogo in confronto di Piedicolle. Ad un certo punto notammo Mario, che con aria preoccupata, discuteva con alcune persone di cui due in divisa militare.

Qualcosa di grave era accaduto in quel giorno a Monaco di Baviera: era stata bombardata da aerei anglo-americani. Noi però non potevamo capire ancora quali conseguenze un’azione del genere potesse avere nell’ambito del trasporto ferroviario e specialmente in Austria, per cui la nostra permanenza a Feistritz W. si interruppe bruscamente.

Dopo aver ringraziato e salutato i colleghi austriaci, tornammo indietro velocemente.

Col trascorrere dei giorni, ci accorgevamo che stava aumentando un certo fermento politico-militare e c’era perfino un atteggiamento mutato nei confronti della popolazione italiana a seguito della destituzione di Mussolini decisa dal Gran Consiglio fascista il 25.7.1943.

Dalla Germania era iniziato un certo movimento di materiale militare strategico difficile da individuare in quanto i trasporti in transito erano sempre coperti di teloni mimetizzati e quasi sempre scortati da soldati armati e ben equipaggiati che non permettevano assolutamente di avvicinarsi, fatta eccezione quando nei pressi dovevamo controllare ed etichettare carri con  merci dirette a ditte italiane.

Nel frattempo, anche i soldati della G.a.F. in libera uscita, che venivano spesse volte a fare le passeggiate in stazione, si vedevano sempre meno. Noi ferrovieri pensavamo che questa minor presenza di militari, con i quali avevamo un ottimo rapporto, era un segnale poco rassicurante.

Un pomeriggio dei primi giorni di settembre ’43, mentre io ero andato a dormire per il turno di notte, mi dissero che era venuto a cercarmi il soldato Minini il quale, con un permesso di qualche ora, desiderava sapere quando sarei andato a casa, per il cambio di biancheria, perché, in quella occasione, mi avrebbe portato alcuni arnesi di falegname da consegnare ai suoi genitori a S. Eliseo di Majano. Ci siamo poi incontrati due giorno dopo e mi disse, tra l’altro, che in caserma “regnava” un’aria pesante e una preoccupazione generale a causa della situazione in cui era venuta a trovarsi l’Italia in quel momento.

L’8 settembre 1943, ero di servizio dalle sette del mattino, e mentre il tempo passava, avevo notato  un po’ di confusione e un certo nervosismo da parte di tante persone.

In stazione si vedevano di tanto in tanto soldati tedeschi armati e ben equipaggiati che andavano e venivano a piedi e con ogni mezzo. Questa situazione continuò fino alle ore 13 e cioè fino a quando andammo alla mensa a pranzare. Tutti i colleghi commentavano quello che avevano visto, e ognuno di noi temeva che qualcosa di preoccupante dovesse accadere da un momento all’altro. Verso le ore 14.30 mi recai nella mia camera a dormire alcune ore poiché dovevo affrontare il turno di notte.

Non riuscivo però a prendere sonno, sentivo in lontananza rumori strani di camion e autoblindo e di tanto in tanto voci concitate provenienti dalla strada che passava poco distante dalla finestra della mia camera da letto. Capivo che la situazione stava precipitando, pensavo che qualcosa di grave poteva succedere da un momento all’altro e mi preoccupavo per la nottata da affrontare quando avrei ripreso servizio.

Poco dopo le ore 18.30 arrivarono in camera gli altri due colleghi Braida e Grattoni, mi informarono che “qualcuno” del luogo, munito di apparecchio radio, stava seguendo l’evolversi della situazione politico-militare dell’Italia e che più tardi ci avrebbe informati in merito. Infatti, verso le ore 20, il dirigente Ezio Schiesaro fu informato che il maresciallo Badoglio aveva annunciato alla radio che l’Italia aveva chiesto e ottenuto l’armistizio con le Forze anglo-americane creando, di conseguenza, una prevista e inevitabile reazione tedesca che avrebbe messo il nostro Paese nel caos.

Per tutta la notte dall’8 al 9 settembre notammo movimenti di soldati della S.S. tedesche: noi ferrovieri avevamo l’obbligo di prestare la massima attenzione ogni qualvolta dovevamo uscire sul piazzale a svolgere quei compiti che il servizio prevedeva.  Verso le  4 del  mattino, sentimmo alcuni colpi di arma da fuoco che provenivano dalla caserma della G.a.F. e, poco tempo dopo, alcune raffiche di mitragliatrici e lo scoppio di bombe a mano che si susseguirono per diversi minuti fino a quando non sentimmo più nulla.

Alcune ore dopo, siamo venuti a conoscenza che i nostri ufficiali non si aspettavano una reazione tanto repentina da parte tedesca. Dopo aver accerchiata la caserma, gli assalitori avevano chiesto al nostro Comandante della G.a.F. la resa incondizionata di tutta la guarnigione, ma l’incertezza sul da farsi o forse il panico fece sì che, alla scadenza del tempo prestabilito i nostri soldati si trovassero allo sbaraglio senza sapere quale decisione prendere.

Intuita la confusione che si era creata dentro la caserma, i tedeschi ricorsero subito all’uso delle armi, penetrarono a forza nell’edificio e disarmarono la maggioranza degli uomini.

Tutto il contingente della G.a.F. che si trovava in caserma, venne fatto prigioniero e trasferito a piedi con scorta armata, verso la vicina stazione ferroviaria. Tutti tranne quattro soldati di cui racconterò la vicenda.

La sera precedente, questi quattro soldati italiani appartenenti alla G.a.F. erano giunti a Piedicolle con l’ultimo treno viaggiatori da una breve licenza; avevano saputo dell’armistizio pronunciato da Badoglio e prevedendo qualcosa di brutto, non si erano presentati in caserma.

Vedendo poi alla stazione numerosi soldati tedeschi della S.S., armati fino ai denti, decisero di rimanere nascosti tutta la notte oltre la cancellata sud dello scalo ferroviario.

Il mattino seguente, quando i quattro soldati udirono i primi spari attorno alla loro caserma, contattarono il nostro collega della Gabina A addetto agli scambi, e lo pregarono di trovare loro un rifugio d’emergenza e, se possibile, di fornirli di qualunque abito civile. Tutti noi allora, approfittando del fatto che i tedeschi erano occupati a soffocare le resistenze della guarnigione, ci prodigammo per rifornire quei quattro di tutto quello che avevamo trovato e poi li aiutammo a fuggire e mettersi in salvo.

Dopo smontato dal servizio notturno, mi fermai a commentare i fatti accaduti durante la notte con alcuni colleghi ed altre persone accorse nel frattempo. Ero esausto, dato che il pomeriggio del giorno prima non avevo potuto dormire e la notte appena trascorsa era stata alquanto movimentata, ma non potevamo fare a meno di condividere l’ansia e la preoccupazione di quei tragici momenti.

Ad un tratto, arrivò un collega tutto trafelato: ci informò di aver visto a poche centinaia di metri dal luogo della sua osservazione, i prigionieri della guarnigione G.a.F., scortati dai soldati della S.S., che si dirigevano verso la stazione ferroviaria. La notizia si sparse in un baleno fra tutta la gente che, nel frattempo, si era radunata per capire cosa fosse realmente successo.

Poco dopo i nostri soldati arrivarono nei pressi dello scalo ferroviario, inquadrati per quattro e ben scortati dalle guardie, dopo un lungo parlottare tra un tenente della S.S. e, alcuni graduati subalterni, vennero sistemati provvisoriamente vicino al fabbricato viaggiatori in attesa di ulteriori decisioni.

Noi osservavamo preoccupati quei poveri ragazzi dal viso impaurito che ci imploravano di aiutarli perché immaginavano di andare incontro a un destino crudele, visto che avevano opposto una resistenza armata contro i tedeschi. Io ed alcuni colleghi, pensammo di metterci in testa il berretto di servizio, e di indossare la giacca con le insegna “F.S.” su bavero, per tentare di avvicinarci un po’ ai prigionieri, ma le guardie armate ci allontanarono minacciosi.

Allora cercammo Franz, un ferroviere austriaco che in varie occasioni aveva manifestato grande simpatia per noi italiani ed era l’unico che sapeva parlare benissimo la nostra lingua.

Quando il tenente delle S.S. si fu allontanato, Franz riuscì a convincere un sottufficiale delle guardie a farci avvicinare ai nostri prigionieri per ascoltare i loro desideri e ricevere i messaggi. Io raccolsi ben 44 foglietti di carta sui quali ognuno di loro aveva trascritto, tra l’altro, l’indirizzo della propria famiglia, così fui in grado di inoltrare ai familiari quelle missive e di raccontare quella triste avventura a voce o per lettera.

Ad un certo momento, tra gli altri, vidi anche il soldato Minini che con le lacrime agli occhi, mi consegnò alcuni attrezzi da falegname pregandomi di portarli ai suoi genitori e di raccontare loro quanto era accaduto a Piedicolle. Mi disse che, fra loro militari, serpeggiava la voce che sarebbero stati internati in qualche campo di prigionia tedesco.

Dopo circa mezz’ora, arrivò il tenente della S.S., noi ferrovieri eravamo già stati allontanati dalle guardie e così raggiunsi in fretta il dormitorio, dove depositai tutto quello che mi avevano consegnato quei poveri soldati.

Poi, nonostante la stanchezza, ritornai in stazione a vedere quello che stava accadendo. Dopo circa un’ora, arrivò da Gorizia M. Santo un treno merci composto di carri chiusi e aperti vuoti, che venne fatto fermare all’altezza di un marciapiede. Le guardie di scorta ai prigionieri dopo aver effettuato una veloce ispezione nell’interno, fecero salire i nostri prigionieri. Da quello che riuscivamo a capire però, il numero dei prigionieri non risultava … in base agli elenchi dei soldati presenti, nel contingente sembrava mancare qualcuno.

Il tenente della S.S. urlando a squarciagola sollecitava i suoi uomini a cercare nei dintorni della stazione eventuali prigionieri fuggiti, non si è mai capito però se si trattava dei quattro soldati arrivati dalla licenza la sera precedente, che noi avevamo aiutato a nascondersi, oppure se altri fossero riusciti a fuggire durante il trasferimento dalla caserma alla stazione ferroviaria.

Da dietro la grata dei finestrini dei carri chiusi, si vedevano agitare le mani di quei poveri ragazzi in cenno di saluto, altri imploravano e imprecavano perché si ritenevano vittime di colpe altrui. Per noi fu un momento veramente straziante.

A pochi minuti di distanza, arrivò da Feistritz W. una locomotiva isolata che, dopo le opportune manovre, venne agganciata in testa a quel treno diretto al nord, carico di prigionieri italiani.

Stavamo ancora lì con un gruppo di ferrovieri e altre persone a commentare sconvolti l’accaduto e a chiederci il perché di questi misfatti, quando d’un tratto venne verso di noi il tenente della S.S. con alcuni graduati, indicando con la mano i cinque ferrovieri presenti nel nostro gruppo. Dopo un vivace scambio di parole fra loro, in tedesco, l’ufficiale ordinò ai suoi uomini di far salire anche noi su di un carro: improvvisamente ci trovammo in una situazione tragica e disperata, non sapevamo che fare. Fortunatamente a poca distanza, un nostro collega in borghese aveva notato ogni particolare, decise così di andare subito da Franz, il ferroviere austriaco nostro amico e spiegargli l’accaduto.

Franz si recò subito dal tenente della S.S. per convincerlo della nostra estraneità ai “fatti”, dopo una lunga estenuante attesa, ci fecero scendere dal carro e ci permisero di allontanarci.

Mezz’ora più tardi, il treno con i nostri prigionieri partì verso l’Austria, destinato ad un campo di concentramento in Germania, da dove, alla fine della guerra, ben pochi di loro tornarono a casa.

Nei giorni che seguirono, la nostra situazione di lavoro cambiò notevolmente, non arrivavano più nemmeno le scorte dei viveri per la nostra mensa e il cibo cominciava a scarseggiare.

In quei giorni si sparse poi la voce che i ferrovieri giovani delle classi 1923, ’24 e ’25 sarebbero stati trasferiti d’ufficio in altri impianti ancora più pericolosi.

A questo punto, il segretario Princic che era del 1923 ed era quindi coinvolto nella situazione, decise di informarci su quello che stava accadendo e propose a me e ad altri sei colleghi, di lasciare il servizio in attesa di precise valutazioni da parte della Sede di Trieste.

Dopo un altro incontro per accordarci sul da farsi, si decise di partire tutti otto insieme utilizzando un treno viaggiatore con bagagliaio, che arrivasse dopo l’imbrunire alla stazione di Canale d’Isonzo, anziché Gorizia M. Santo occupata in parte dai partigiani di Tito.

Decidemmo di seguire il consiglio del collega Princic, per cui partimmo da Piedicolle verso le ore 18.30 di domenica 12 settembre.

Ci nascondemmo nel bagagliaio dietro alcuni scatoloni e materassi militari diretti a Gorizia.

A Canale d’Isonzo, per fortuna, c’era poca luce che illuminava il piazzale e solo due soldati tedeschi di guardia.

Favoriti da questa opportunità, scendemmo dal treno dalla parte opposta e dopo aver scavalcato la cancellata, ci incamminammo a ritroso verso un casello ferroviario disabitato, dove trascorremmo la nottata, vigili e in silenzio assoluto. Alle prime luci dell’alba, ci dirigemmo verso i rilievi del Canale del Kolovrat, cercando di evitare centri abitati.

La nostra meta era Cividale del Friuli, da lì avremo preso il treno che ci avrebbe portato a Udine, dove io avevo una bicicletta in deposito che mi serviva per raggiungere Mels di Colloredo M.A..

Verso le ore 11 ci trovavamo nei pressi di S. Leonardo, eravamo stanchi, affamati con le vesciche ai piedi che ci impedivano di camminare sicuri e di fretta. Giunti vicino a Merso, sentimmo una campana suonare: era mezzogiorno. A poche centinaia di metri c’era  una casa isolata dove decidemmo di fermarci e a chiedere al proprietario l’opportunità di farci riposare per circa un’ora. Lui ci accolse molto volentieri, affrendoci un pezzo di formaggio, che accompagnammo con galletta militare che avevamo di scorta con noi, e poi anche un buon bicchiere di vino. Poi, riprendemmo con più vigore il cammino, percorrendo sempre vie secondarie.

Giunti a pochi chilometri da Cividale, lungo una strada fiancheggiata da alcuni platani, sentimmo degli spari di fucile che provenivano da una distanza di circa un centinaio di metri, o più, diretti verso di noi perché, dopo un po’, sentimmo fischiare le pallottole sopra di noi costringendoci a distenderci a terra cercando protezione dietro i platani.

Il nostro segretario Princic, che era il più anziano e il più navigato di tutti, gridando verso la provenienza degli spari disse: “Siamo ferrovieri friulani e non siamo armati, stiamo andando a casa attraverso questa strada perché a Gorizia non possiamo passare”.

Il messaggio, ripetuto più volte, ebbe successo perché gli spari cessarono e dopo un’attesa di circa mezz’ora, riprendemmo il cammino indenni per Cividale, non riuscimmo però mai a capire chi fossero gli autori di quegli spari.

Arrivai a casa verso le ore 19, ero stanchissimo, affamato e avevo le suole delle scarpe e i calzetti completamente consumati. La gioia provata nel riabbracciare i miei genitori fu però talmente grande da farmi dimenticare per un po’ quello che avevo vissuto negli ultimi giorni.

Mi preoccupava tuttavia il pensiero che la mia libertà e quella degli altri sette colleghi, sarebbe stata probabilmente di breve durata.

Infatti, mercoledì 15 settembre, mi giunse un telegramma dalla Direzione Compartimentale F.S. di Trieste, con il quale mi si ordinava perentoriamente di presentarmi presso l’impianto di Gorizia M. Santo per comunicazioni urgenti. Inizialmente avevano deciso di farmi riprendere servizio presso quella Stazione, ma poiché la parte sud di quello scalo risultava ancora parzialmente occupato dai partigiani di Tito, così nel frattempo giunse un contrordine che imponeva a me e ad altri cinque colleghi di ritornare a Piedicolle.

Ci ritrovammo così in sei alla stazione di Gorizia M. Santo, dove rimanemmo al riparo dentro la stazione in attesa di salire sul treno verso la sede che avevamo lasciato pochi giorni prima.

Dopo oltre due ore di snervante attesa, finalmente arrivò il convoglio, prendemmo posto con molta circospezione e la raccomandazione, da parte del personale addetto, di rimanere accovacciati fino a quando il treno non avesse varcato il ponte di Salcano. Era ormai sera quando arrivammo a destinazione, lungo la linea, sui ponti e nelle stazioni, ci avevano impressionato i notevoli servizi di guardie armate disposti un po’ ovunque dal comando tedesco, Piedicolle compresa.

Prendemmo visione dei turni di servizio e delle variazioni avvenute nel frattempo, quindi, tornammo nelle nostre camere dove, quanto avevamo lasciato, era rimasto tutto sorprendentemente intatto.

Ci rendemmo conto che, nello spazio di una settimana, la situazione era completamente capovolta e, di conseguenza, dovevamo adattarci alla presenza costante della sorveglianza militare tedesca e delle nuove regole che dovevamo rispettare a seguito dello stato di guerra in cui l’Italia era venuta a trovarsi.

 La situazione si aggravò ancora dopo il 13 ottobre 1943, quando Badoglio dichiarò guerra alla Germania. Quella data decise un allargamento del fronte anche da parte dei partigiani di Tito che, con impeto e coraggio si scagliavano contro i tedeschi, impegnandoli a tutto campo.

Più tardi si affiancarono ai tedeschi gli uomini della R.S.I. (Repubblica Sociale Italiana), noi li temevamo più dei tedeschi poiché, seppure italiani come noi, si dimostravano talvolta violenti e spietati contro chiunque si fosse trovato, malauguratamente, in una situazione poco convincente. Con queste premesse, era iniziata purtroppo una nuova situazione all’insegna di continui pericoli ed insidie di ogni genere.

Piedicolle, infatti, come del resto altre stazioni, in particolare i ponti lungo la linea, era un obbiettivo primario per i titini i quali ingaggiavano talvolta sanguinosi combattimenti contro i tedeschi messi a guardia di queste opere per assicurare il normale transito dei treni.

Capitava spesso, quindi, che la linea ferroviaria da Piedicolle a Gorizia M.S. venisse interrotta a causa di qualche ponte fatto saltare in aria durante la notte, oppure per altri atti di sabotaggio lungo i tratti di linea, dove non c’erano guardie armate di sorveglianza.

Quando eravamo di servizio notturno (una notte ogni tre), dopo le ore 23.30 e fino le 05.00 del mattino, difficilmente c’era traffico di treni, per cui stavamo dentro gli uffici con le luci oscurate. I tavoli o le scrivanie venivano sistemati in modo tale che ci fosse sempre un muro di protezione verso l’esterno, infatti, ogni tanto da un pianoro sovrastante il piazzale della stazione, arrivavano i titini sparando all’impazzata e lanciando bombe a mano contro i sottostanti posti di guardia tedeschi e repubblichini. A loro volta questi ultimi sparavano con veemenza per vari minuti verso la direzione di provenienza dell’attacco creando in tal modo un vero pandemonio.

Una notte avvenne uno scontro talmente violento tra le due fazioni che, alla fine, risultarono colpiti da proiettili la stazione ferroviaria e alcuni fabbricati compreso il nostro dormitorio. Poco prima di mezzanotte, una pallottola di 8 mm. penetrò attraverso la finestra e, dopo aver sfiorato il mio ginocchio destro, andò a conficcarsi nel materasso, proprio sotto il sedere del collega Grattoni che dormiva nel letto vicino al mio.

Stavamo vivendo in una situazione di continua paura: non ci sentivamo più sicuri di muoverci come prima dell’8 settembre, e anche quando dovevamo utilizzare il treno per andare a Gorizia a fare la spesa, o per andare a casa (una volta al mese per il cambio di biancheria), capitava di dover fare un trasbordo lungo la linea, qualche volta anche due, a causa di un ponte fatto saltare durante la notte dai soliti partigiani di Tito.

Spesse volte, passando col treno, si vedevano sul terreno dei morti a seguito delle incursioni partigiane, mentre se i tedeschi riuscivano a catturare qualcuno di questi lo impiccavano ad un albero e poi lo lasciavano appeso per parecchie ore, affinché la gente guardasse e meditasse su quanto accaduto.

Quando venivano a mancare i collegamenti tra la nostra mensa e i suoi fornitori, si presentava la necessità di dover andare a prendere il pane, per cui a turno due ferrovieri muniti di un sacco ciascuno, dovevano andare a rifornirsi in un forno convenzionato di Gorizia.

Una volta questa incombenza toccò anche a me!

Appena riempiti i nostri sacchi di pane, io e il mio collega uscimmo dal forno, ma mentre facevamo ritorno alla stazione di M. Santo, suonò l’allarme aereo: la gente in strada cominciò a correre, chi andava da una parte e chi dall’altra, mentre noi due non sapevamo dove andare a rifugiarci. Ad un tratto, un signore anziano ci disse: “Perché non andate a suonare il campanello al numero “X”, lì hanno un sotterraneo che può accogliere benissimo anche voi due”. Io e il collega senza esitare, andammo a suonare il campanello al numero indicato: era una casa di tolleranza!  Alla signora anziana che ci aprì il portone, spiegammo la nostra situazione e lei, molto comprensiva e senza ulteriori indugi, ci disse di entrare, di mettere i sacchi di pane nel sottoscala e poi di scendere giù di sotto dove, oltre alle “ragazze” c’erano anche altre persone, tra le quali un signore distinto che raccontava barzellette di vario genere.

Finito l’allarme e appena usciti all’aria aperta, riprendemmo il nostro cammino con i sacchi sulle spalle, diretti alla stazione per raggiungere Piedicolle.

Con l’arrivo dei militari della R.S.I., i tedeschi avevano potenziato la difesa dello scalo, della stazione ferroviaria e aumentato il numero dei posti di vedetta.

Erano aumentati anche i posti di controllo dei viaggiatori in arrivo e in partenza coi rispettivi bagagli: questo nuovo sistema di controllo, provocava a tutti molto disagio e soprattutto tanta paura, specialmente quando si doveva uscire dalla stazione verso sera e si doveva passare proprio davanti i posti di controllo.

Il più temuto era il posto di blocco dei “repubblichini” poiché a differenza dei tedeschi, si avvicinavano sempre minacciosi e puntavano il mitra alle costole. Per evitare che questo sistematico controllo si estendesse anche ai ferrovieri in servizio, la nostra Amministrazione F.S. aveva provveduto a richiamare i Comandi locali affinché i militari di guardia tenessero un comportamento civile nei confronti dei lavoratori della ferrovia.

Tuttavia, non sempre questi accordi venivano rispettati da parte dei militari in servizio ai posti di blocco; spesse volte trovavano scuse per perquisirci, avanzavano sospetti e talvolta ci impedivano di lavorare con tranquillità.

Così verso le ore 21 circa, quando io uscivo dalla stazione diretto al dormitorio, dovevo affrontare il primo posto di controllo che era quello tedesco. Quando mi vedevano con una lanterna a petrolio a una distanza di circa 15 metri dalla loro postazione, uno di loro mi gridava: “halt!” ed io prontamente rispondevo: “Eisenbahner!” (ferroviere!). A questo punto bisognava fermarsi e attendere l’ordine di proseguire verso la postazione dove esibivo sempre i miei documenti di riconoscimento. Dopo il controllo, attendevo che mi dicessero: “gut” (bene) e poi mi dirigevo verso la seconda postazione.

Quella dei repubblichini si trovava invece una ventina di metri più avanti, vicino il cancello d’uscita dello scalo ferroviario. Questi, mi lasciavano avvicinare fino a 10 metri circa e poi uno di loro gridava: “Chi va là!”, io rispondevo “ferroviere!”  e quindi specificavo a voce alta dove andavo a quell’ora e soprattutto il motivo; a quel punto mi davano l’ordine di avvicinarmi a loro coi documenti in mano. Spesse volte accadeva che, mentre uno controllava attentamente i miei documenti, l’altro militare mi tenesse d’occhio con la punta del mitra puntato al mio fianco e mi rivolgesse domande sulla mia vita privata.

Avevo svolto il mio servizio con tutti i dirigenti al movimento treni, ma ricordo che una persona mi aveva colpito per la sua serietà e professionalità: questi era Ezio Schiesaro di Udine, Dirigente al Movimento treni. Egli mi fece ottenere l’autorizzazione dal C.S. Titolare ad essere inserito stabilmente nel suo turno di servizio. Era stato informato che sapevo usare il telegrafo e fatto il centralinista alla stazione di Pontebba e così volle che svolgessi, tra l’altro, questi compiti anche a Piedicolle.

Tra noi due era sorto un rapporto spontaneo di fiducia e confidenza e ricordo che, quando ci toccava il turno di notte insieme, ci scambiavamo pareri ed impressioni sui fatti e le vicende che ci vedevano coinvolti in quel periodo così difficile.

In molte circostanze i consigli preziosi avuti da Schiesaro, mi salvarono sicuramente da situazioni pericolose, tutte le volte che dovevo uscire a qualunque ora della notte a verificare alcuni segnali sul piazzale antistante, oppure quando dovevo andare di notte ad accompagnare il personale dell’ultimo treno al dormitorio, lui mi suggeriva sempre come comportarmi, insomma, mi faceva mille raccomandazioni alla prudenza.

Da parte mia, ancora oggi sento veramente il dovere di ringraziarlo, in quelle circostanze, fu per me come un padre e anche i miei colleghi Braida e Grattoni che mi furono vicini come fratelli.

 Questa situazione proseguì fino alla fine di febbraio del 1944, poi, ai primi di marzo arrivò la conferma che il Comando militare tedesco e quello della R.S.I., negarono alle Ferrovie dello Stato l’autorizzazione a mantenere in servizio i ferrovieri appartenenti alle classi 1923, ’24 e ’25. Così, oltre al disagio in cui si viveva, ai rischi, alle paure, al vitto scarso e scadente, arrivò questa notizia che aumentava l’angoscia per il nostro futuro.

Nel frattempo giunse anche la triste notizia della scomparsa del Dirigente al Movimento Mario, colui che aveva organizzato la gita in quadriciclo a Feistritz W., ma furono ancora altri colleghi che scomparvero oltre a Mario senza un’apparente motivo.

Sparirono senza lasciar traccia, il più delle volte per andare nei casolari alla ricerca di qualcosa di mangiare: uova, burro, ecc. per sé e la propria famiglia. Ricordo che andai  anch’io un paio di volte, ma poiché c’era molta diffidenza verso di noi, non andai più.

Pochi giorni dopo, venne diffuso un proclama emanato dal Comando militare tedesco e della R.S.I. che ordinava perentoriamente ai dipendenti delle F.S. appartenenti alle classi ’23, ’24 e ’25, di presentarsi spontaneamente presso i loro comandi, pena  la fucilazione. Venuti a conoscenza del proclama, tutti noi otto ferrovieri dipendenti della stazione di Piedicolle, che facevamo parte delle tre classi, ci incontrammo segretamente col collega segretario del C.S. Titolare Princic per decidere come ci dovevamo comportare. Sapevamo che la nostra Amministrazione F.S. non ci avrebbe mai inviato una lettera di esonero dal servizio, poiché eravamo considerati come “militarizzati”. Alla fine di una lunga e animata discussione, prevalse l’opinione di rimanere tutti in servizio, in attesa che da qualche impianto pervenissero informazioni più precise in merito alle decisioni delle autorità militari.

Nel frattempo il nostro collega Princic avrebbe cercato di mettersi in contatto segretamente e a suo rischio, con persone che avessero notizie riservate da trasmetterci.

Intorno al 20 marzo ’44, ci informarono che, durante la notte, gruppi di repubblichini si erano presentati in vari impianti a prelevare ferrovieri delle suddette classi; era evidente che si stava delineando anche per noi una situazione pericolosa e preoccupante.

Tentammo di chiedere qualche notizia in più a Franz, il collega interprete austriaco che si era sempre dimostrato un amico, ma neanche lui poté esserci di aiuto.

Dopo alcuni giorni di trepida attesa, ci dissero che altri colleghi erano stati prelevati dalla stazione di Gracova Serravalle; era la penultima stazione prima di arrivare a Piedicolle. Stavamo riflettendo sulla decisione da prendere, quando ci giunse, inattesa, una “soffiata” da parte di Franz: ci avvertì che stavamo correndo un pericolo imminente.

Tutti d’accordo, informammo subito il nostro Capo impianto sig. Gueze che, appena possibile, avremmo abbandonato il servizio per sottrarci alla cattura dei repubblichini.

Venerdì 31 marzo del 1944, dopo aver concordato tra di noi un piano, io e gli altri sette colleghi ci allontanammo inosservati dalla stazione di Piedicolle, nascondendoci nel bagagliaio di un treno viaggiatori in partenza per Gorizia M. Santo.  Qui, appena scesi dal treno, ci viene incontro un agente della milizia ferroviaria che, evidentemente informato della nostra partenza, voleva controllare se eravamo tutti otto. Poi, prima di lasciare quella Stazione, ci disse di presentarci presso il Comando della milizia ferroviaria di Gorizia C.le, dove fummo costretti a dichiarare che, essendo stati sempre insieme, volevamo andare anche insieme a presentarci presso un comando della R.S.I. di Udine. Devo dire che in quell’occasione fummo veramente fortunati perché il graduato che ci interrogò credette a tutto quello che dichiarava il nostro loquace collega Princic.

Così partimmo alla volta della stazione di Udine, qui avremmo dovuto presentarci e poi essere inviati verso una caserma militare. Invece, strada facendo, uno o due alla volta i miei colleghi scesero di nascosto dal treno e, alla fine, rimasi solo io.

Prima di arrivare a Udine, mi recai nella vettura di coda e appena il treno si fermò, scesi con la massima cautela dalla parte opposta dirigendomi verso il recinto dello scalo ferroviario e poi in Via della Cernaia. Elusi in quel modo tutti i controlli possibili e riuscii a raggiungere il deposito dove tenevo la bicicletta che mi serviva per raggiungere il mio paese d’origine.

Devo dire che, se l’abbandono del servizio in simili circostanze ha avuto come conseguenza, oltre alla perdita del lavoro, anche la perdita di tutte le cose personali lasciate in quella stazione, in seguito però il Presidente della Repubblica Italiana, su parere favorevole del Consiglio di Stato, mi ha riconosciuto la qualifica di “Profugo di Guerra”.

Mi trovai così in casa dei miei genitori, disoccupato e senza poter dare a loro un mio modesto sostegno economico, mentre mio fratello maggiore (Classe 1920) si trovava in campo di prigionia in Germania. Non era certamente una situazione allegra la mia, inoltre temevo che, da un momento all’altro, venissero a cercarmi i tedeschi oppure gli uomini della R.S.I.

Pochi giorni dopo, durante la notte, si presentarono invece in casa di mio padre, alcuni partigiani armati, i quali mi sottoposero ad un interrogatorio formale per conoscere quali “idee” avessi in mente. Ero già stato informato però che questi uomini quando interrogavano qualche elemento sospetto, o ritenuto tale, non andavano tanto per le lunghe e, per abbreviare il loro compito e soprattutto per convincere il loro interlocutore, pronunciavano di solito la seguente frase: “Chi non è con noi, è contro di noi!”, ovviamente questo significato mi era molto chiaro!

Siccome ero appena tornato da una località dov’era in atto una guerriglia tra due fazioni, descrissi a questi partigiani tutto quello che avevo vissuto a Piedicolle e spiegai inoltre, che se lo avessi voluto, avrei potuto essere già arruolato coi “repubblichini”, ma non lo avevo fatto. Notai subito che le mie risposte avevano colpito nel segno e allora mi convinsero a rimanere nascosto in casa, evitando qualsiasi incontro con chiunque, restando in attesa di istruzioni che mi sarebbero pervenute in breve tempo.

Infatti, dopo alcuni giorni, mi presentai nel posto che mi avevano indicato, dove un comandante delle Forze partigiane, dopo chiariti certi particolari e ricevute alcune istruzioni ben precise, mi disse che da quel momento dovevo ritenermi inquadrato nella “Brigata Osoppo Friuli” e, a conferma di ciò, mi rilasciò un documento su cui figurava, tra l’altro, il mio nome di battaglia. Poi, nel 1945, fui trasferito alla neo costituita “Brigata Rosselli” nella quale rimasi fino alla smobilitazione di tutte le Forze partigiane del Friuli, avvenuta a Udine davanti  alle Autorità Militari e Civili, il 24 giugno 1945.

In conclusione di questa mia memoria, voglio sottolineare come la guerra possa stravolgere e cambiare la vita di un giovane come me, che avrebbe voluto fare tranquillamente e con impegno il suo lavoro, invece, per poter sopravvivere fu costretto a combattere affrontando innumerevoli rischi, paure e disagi, svolgendo attività che erano ben lontane dal suo mondo.

Infatti, pur collaborando con le forze partigiane, non era certamente quella la condotta di vita che volevo fare ed ora, quel periodo della mia gioventù, non è tanto facile da dimenticare.