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LA BRIGATA ROSSELLI

NEL 50º DLLA  LIBERAZIONE

 

LA MISSIONE BIGELOW IN FRIULI

Di Dumas Pol i “Secondo”

 L’8 settembre 1943 mi trovavo imbarcato su una corvetta e tutto l’equipaggio aderì al governo Badoglio.

Quel giorno iniziò un nuovo ciclo della guerra: cessò ogni attività bellica contro gli anglo-americani e noi ci impegnammo a reagire contro chiunque ci avesse ostacolati, ed era chiaro che solamente i tedeschi potevano essere i nuovi nemici.

Nei giorni immediatamente successivi, fummo infatti impegnati sulle coste albanesi, ove le nostre truppe dislocate nel settore balcanico, avendo rifiutato ogni accordo con i tedeschi, stavano rientrando in Italia.

Vi sostenemmo parecchi scontri contro gli aerei tedeschi e ci furono molte perdite da ambo le parti.

Dall’Italia occupata giungevano notizie che definivano tragiche le condizioni delle nostre popolazioni e anche i nostri soldati e marinai che attraversavano il fronte per arruolarsi confermavano che vi avvenivano saccheggi, uccisioni in massa, rastrellamenti, deportazioni ecc...

I tedeschi, insomma, governavano e comandavano come soltanto loro sapevano fare.

Il nostro odio nei loro confronti aumentava sempre più e noi consideravamo l’essersi ritrovati loro avversari come la naturale continuazione delle passate guerre risorgimentali.

Nel Centro-nord si erano intanto costituite delle formazioni partigia­ne che, anche con l’aiuto della stragrande maggioranza della popolazione, si opponevano ai tedeschi come meglio potevano.

Venuto a conoscenza che anche la marina selezionava il proprio personale per organizzare questi gruppi e per collegarli con il Comando allea­to chiesi di essere trasferito al competente servizio; venni distaccato presso il SIM e la Special Force, per essere aviolanciato in territorio occupato.

Dopo un breve corso di addestramento, fui assegnato alla missione

Bigelow, della quale inizialmente facevano parte anche Arco, Tiglio e

Beppe Conforti; ma poi al momento del lancio, fui paracadutato soltanto

con il conte Gropplero “Freccia” capomissione e la signorina Paola Del

Din “Renata” come staffetta.

Prima di lanciarci, facemmo ben dieci tentativi e avendo superato ogni record in proposito, alla base ci chiamavano “i calamai”, ma poi finalmente fummo lanciati (1) in prossimità del Castello di Colloredo di Monte Albano (Udine) di proprietà della famiglia di “Freccia”(2).

In quella zona Renata era conosciuta anche perchè vi aveva operato come staffetta di suo fratello Renato, tenente degli alpini, il noto partigiano “Anselmo” che, ucciso a Tolmezzo, fu decorato di medaglia d’oro al valore militare.

Freccia era di casa nel vero senso della parola e i partigiani del Btg. Cavour, che avevano preparato il campo di lancio, quasi tutti nativi di quei paesi, erano suoi conoscenti.

Oltre ad essere stato un lancio di guerra, fu quindi anche un incontro fra vecchi amici e un felice ritorno di due compagni che, provvisoriamente allontanatisi, scendevano ora dal cielo per riprendere il loro posto di lotta.

Subito dopo il lancio, fummo ospitati dai signori Sacchetto di Mels e fu dalla loro filanda che effettuai il primo collegamento radio, informando la base che la missione Bigelow era operante (3).

A questo contatto seguirono regolarmente tutti gli altri con la sola esclusione di quelli del 16 aprile del 1945.

Fu proprio quel giorno che, dovendo trasportare il materiale della missione da Buia a Mels, in nostro aiuto fu mandato “Gosto”, (4) un partigiano del luogo.

Io e Freccia partimmo in bicicletta con un grosso sacco ciascuno, mentre “Gosto”, con il proprio, ci avrebbe seguito a breve distanza.

Tutto sembrava calmo, quando all’improvviso venimmo attaccati dai cosacchi con una nutrita scarica di fucileria.

Imboccammo un sentiero sulla sinistra della strada, ma questa dopo pochi metri ci portò in un campo cespugliato.

Abbandonammo la bicicletta cercando di salvare il materiale, ma non ci fu possibile e i cosacchi continuavano a sparare e ad avvicinarsi.

Freccia, che era alla mia sinistra, mi disse che ero stato ferito alla testa; vi portai la mano e la ritrassi piena di sangue e, compiendo quel movimento, vidi il pantalone della sua gamba destra intriso di sangue e lo avvertii.

Nello stesso istante sentii un forte bruciore alla schiena e pensai di essere stato ferito gravemente; invece ero stato appena sfiorato.

Circondati e senza possibilità di scampo, alzammo le braccia per arrenderci e smisero di sparare.

Ci perquisirono e ci portarono via tutte le cose di valore: orologi, penne stilografiche, portafogli ecc.

Il nostro interesse ormai era quello di far perdere più tempo possi­bile e fare in modo che Gosto, arrivando sulla strada, ci potesse vede­re e salvarsi.Tenemmo un contegno così sprezzante che, visto oggi da vecchio, lo giudicherei incosciente.

Contrariamente al nostro, il loro comportamento fu invece di eccessiva prudenza e il mancato colpo di grazia per eliminarci, quando ormai avevano tutte le possibilità di farlo, ci pareva strano, proprio perchè la loro malvagità era famosa in tutta la zona.

Gli stessi tedeschi li consideravano troppo spietati e poi sapemmo che, poco prima che sparassero a noi, senza nessun motivo, avevano ucciso un contadino che stava potando un albero.

Quando Gosto arrivò fu fermato. Mostrò i suoi lasciapassare e lo lasciarono andare, ma poi fu chiamato di nuovo e tenuto in quel posto ove avevano formato un posto di blocco.

Nel frattempo io e Freccia fummo ammanettati, caricati su un carro trainato dai cavalli e poi, tutti insieme, partimmo per Mels.

Per non compromettere chi me lo aveva firmato, ingoiai il mio lasciapassare, che nella perquisizione non avevano trovato.

Durante il tragitto facemmo il possibile per essere notati e, fra gli altri, fummo visti anche da Ivo (5) un partigiano di Mels che, logicamente dette l’allarme.

Raggiunta Farla, fummo portati in un grande casolare (6) in parte ancora abitato dai paesani, mentre altri padiglioni erano stati requisiti dai cosacchi.

Anche se dopo tanti anni mi è impossibile ricordare esattamente la successione cronologica dei particolari, rammento che ai paesani che erano riusciti ad avvicinarci, Freccia in dialetto disse chi eravamo, chiedendo che avvertissero i partigiani di quello che stava succedendo.

Ad un certo momento Freccia fu preso a viva forza e trascinato verso il comando per l’interrogatorio e poi fu la mia volta.

Avevamo concordato una versione da raccontare ma evidentemente non furono tanto persuasi e sentenziarono il fatidico “Kaput”.

Dopo l’interrogatorio ci ritrovammo di nuovo insieme e Freccia ci disse che aveva cercato di assumersi tutte le responsabilità, ma il suo generoso tentativo non era riuscito, perchè avevano deciso l’immediata fucilazione per tutti tre.

Nell’attesa dell’esecuzione, fra le altre cose Freccia commentava che in special modo noi due, o durante o dopo il lancio, era prevedibile che saremmo stati scoperti e ormai l’importante era di saper morire con dignità per la patria e per gli ideali della libertà.

Erano praticamente gli stessi principi che si potevano riscontrare nel

testamento che avevo lasciato alla base da consegnare ai miei genitori in caso di morte.

In esso avevo infatti scritto che sarei partito per una missione piena di rischi e che ero consapevole che avrei potuto morire.

Quel momento era ormai arrivato ed ora bisognava dimostrare che non avevamo paura di morire e di far vedere che il nostro era il comportamento di gente decisa a riscattare le responsabilità del fascismo e che finalmente avevamo ripreso il nostro tradizionale posto.

Alle continue minacce dei cosacchi rispondemmo col canto delle nostre canzoni: “Vai fuori d’Italia vai fuori stranier”.

Ci accostarono ad un muro, mentre i cosacchi armati si erano schierati di fronte a noi. Ad uno di loro che insisteva nel dire: “se foste stati nostri amici non sareste sul punto di morte” Freccia rispose: “meglio come noi morti che come voi vivi

Tutto questo si svolse all’aperto, ebbe sempre dei testimoni e fu alle donne in lacrime che Freccia, sempre in dialetto, rivolse la sua esortazione a non piangere, invitandole ad avvertire i partigiani perchè provvedessero a vendicarci.

L’uccisione di Freccia avrebbe senz’altro provocato delle rappresaglie e il cascinale dove ci trovavamo non poteva dare nessuna garanzia di incolumità.

Fu in seguito allo scoppio di una bomba di mortaio tipo Bixio lanciata dai partigiani che i cosacchi decisero di portarci ad Osoppo per la fucilazione: li’ la fortezza, dotata di cannoni e mitragliatrici, era sicuramente inaccessibile a qualsiasi attacco esterno.

Il plotone si sparse e dopo un concitato susseguirsi di ordini e di urla, cominciarono i preparativi per il nuovo viaggio.

Ci legarono nuovamente i polsi, fummo caricati su di un carro anco­ra più grande e coperti da un telo per non farci vedere dalla popolazione e quando fu tutto pronto, con una scorta veramente imponente, partim­mo verso Osoppo.

Dopo poco (7) sentimmo i primi colpi sparati dai partigiani che avevano iniziato l’attacco per liberarci.

La scorta reagì e anche quelli che si trovarono sul carro scesero sulla strada per combattere.

I cavalli ormai liberi e frastornati dagli spari e anche per l’effetto di una bomba a mano esplosa proprio vicina al carro, si imbizzarrirono e si girarono indietro, correndo all’impazzata mentre noi eravamo sempre stesi e legati sul carro.

Io rimasi a Buia e, compatibilmente con i miei impegni alla radio, seguii la sorte dei partigiani della zona.

Tra i vari avvenimenti relativi alla cattura, ricordo che un giorno, durante la Liberazione, in uno stabile dove erano concentrati i cosacchi del distaccamento di Farla che si erano arresi ai patrioti di Buia, riconob­bi uno di loro che si era comportato molto bene con me, sino ad offrirmi addirittura una sigaretta.

Dai suoi bagagli tirò fuori degli oggetti personali che mi erano stati presi nella cattura e voleva restituirmeli.

Non li volli e dissi: “Tienila tu quella roba forse sarà più utile a te che a me

Questa volta fu il mio turno ad offrirgli da fumare e vidi nei suoi occhi gioia e riconoscenza: praticamente gli avevo restituito la cortesia di Farla.

Buia si liberò prima di altre zone più a Sud mentre gli Alleati si trovavano ancora distanti e i nostri reparti intervennero ripetutamente, suben­do gravi perdite in Carnia, ove la resistenza nemica fu particolarmente lunga e accanita.

Per qualche giorno fui anche assegnato ad un ufficiale della Special Force che era rimasto senza il suo radio telegrafista, forse perchè deceduto, ma non ricordo nè il nome nè la sua nazionalità (18)·

 

Note

(1)   i1 9/4/ ”45

(2)   Per avvertire i nostri che la missione era in arrivo venne trasmesso dal Sud il messaggio:

“BACI A MAFALDA”

(3)   Il messaggio radio trasmesso diceva: “GUERRA E SANGUE PER I PARTIGIANI DELLA MONTAGNA”

(4)   Augusto Persello

(5)   Ivo Bulfone

(6)   Centrale idroelettrica di Farla (Maiano)

(7)   Località fra Maiano e Tiveriacco. Sopra la strada su una collinetta era già in attesa Mattia Pezzetta “Dario” che poté segnalare ai partigiani di Ganzitti Lino “Omero” l’arrivo del convoglio.

(8)   Giordano Temporale “Volpe” di Maiano

(9)   a Deveacco di Maiano presso Irma Quai ottima collaboratrice

(10) da parte nostra un ferito: Duilio Aita “Fulmine” che ebbe squarciata la pianta del piede destro e venne curato dal dott. Penasa nell’Ospedale di S. Daniele.

(11) Amelio Piemonte “Giemme”

(13) I1 dottore Alvise Peresson lo curò in Collosomano, ma l’intervento di estrazione delle pallottole e schegge venne eseguito dal dott. Penasa all’Ospedale di 5. Daniele e più tardi intervenne il dott. Peresson per altre due pallottole in casa Fabbro. Il trasporto venne effettuato con la 1100 di Adelio Perini in compagnia di Calligaro Ugo “Gianni”

(14) venne suturato dall’infermiera Dina Pezzetta, assistente del dott. Peresson, sempre in Collosomano in casa Fabbro.

(15) a Laibacco per una settimana nei granai di diverse famiglie.

(16) a meno di 300 metri,

(17): In seguito venne trasportato a Udine con la macchina dei Sacchetto (nella quale aveva­no levato lo schienale del sedile a fianco del posto di guida, perchè Ivo potesse sorreggere la gamba ferita) e alloggiato presso l’ostetrica Sala, infermiera della C.R.I, la quale abita­va in Viale Venezia proprio accanto alla scuola elementare “De Amicis”. La famiglia Sala aveva già avuto in custodia in casa sua parecchio e vario materiale pericoloso, quale ad esempio la radiotrasmittente di riserva della nostra missione, ed aveva anche ospitato nelle stanze dell’ambulatorio personale delle Missioni Alleate, tra cui ad esempio Vinicio Lago (“Fabio” oppure “Sergio”, il salvatore di Palmanova). Guidava la macchina Leo Plos e accompagnavano Ivo Bulfone e Renata. All’inizio della salita per andare a Colloredo il posto di blocco stava smontando: ci guardarono, ma non ci fermarono. La stessa cosa accadde anche per le SS acquartierate nel castello e a quell’ora in libera uscita. Si chinarono a guardare incuriosite dentro la macchina, ma non ci fermarono e Leo Plos continuò a guidare senza accelerare fino in città in tempo per depositare il ferito e rien­trare a Buia prima del coprifuoco.

 

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