INDIETRO

di Licio Damiani

 

FOTO 1

FOTO 2

FOTO 3

FOTO 4

FOTO 5

FOTO 6

 

La tradizione artistica bujese trova in Pietro Galina un valido continuatore, aperto ai suggerimenti della contemporaneità. E, tuttavia, Galina non ha rotto i legami con il passato. Li ha aggiornati, in una sorta di mediazione poetica, con l'eredità del passato.

Nella sua opera plastica affiora quasi sempre (salvo un periodo decisamente astratto) l'ancoraggio alla figuratività, a volte espressa a tutto tondo, altre volte «diluita» da un processo di stilizzazione.

A Udine, alla fine degli anni Quaranta, egli è allievo di Antonio Franzolini, lo scultore che filtrò eleganze liberty e raffinatezze formali nel goticismo nordico attraverso un sintetico e fluido impianto novecentista. La radice di intensità spirituale con cui Franzolini, soprattutto nell'ultimo periodo della sua attività, smaterializzava le forme dando loro eleganza squisita nello sviluppo allungato e nel gesto quasi cesellato, ha in parte condizionato anche lo sviluppo dell'attività di Galina.

Le sue prime opere, all'inizio degli anni Cinquanta, appaiono ispirate a una classicità arcaica. Sono figure femminili, in pietra, in bronzo, in cemento trattato, nelle quali i richiami a una mediterraneità idealizzata si nutrono di una scagliosità solare aspra, terrosa. A volte, come nella bella «Bagnante», Galina mostra di risentire dell'influenza ellenizzante del primo Mascherini, quello dell'«Estate», di cui l'opera dell'artista bujese risente anche nell'impostazione compositiva. Il modellato è innervato da un linearismo lirico - una costante della sua produzione - linearismo che si dispiega con nitore di accenti politi in alcuni suadenti «Torsi» femminili.

Galina dà forte intensità emozionale anche ad alcune piccole composizioni presentate in forma di frammento, quasi reperti di un'immaginazione emersa dal disfacimento del tempo, segni superstiti di un'antica civiltà scomparsa, salvati dalla memoria. Una civiltà che, perduta la sua purezza d'origine, viene rivissuta scavando in una materia difficile e ostile, sicché gli equilibri perduti si

ricompongono a fatica, urtando contro le resistenze del presente. Alla stessa maniera, forse, gli scultori romanici si illudevano di ricreare le armonie di una latinità remota in opere che, in realtà, registravano la difficoltà di una storia da riprendere se non con i segni di una sofferta e barbarica tensione.

All'inizio degli anni Cinquanta Galina, seguendo il destino di tanti friulani, prende la strada dell'emigrazione. Si stabilisce in Svizzera, a Le Locle, da dove rientrerà dopo un ventennio a respirare il profumo della propria terra, nella casa che si è costruito a Santo Stefano ed è diventata una piccola galleria antologica.

Il respirare un clima europeo più aperto e stimolante agirà sull'evoluzione del suo linguaggio. La solidità della forma plastica, inizialmente, tende a ridursi e a semplificarsi. Galina incide a sbalzo, su lastre di ottone anodizzato plasmabilissime come fogli di carta stagnola, figurette delineate con lievi contorni lineari. E come se inconsciamente egli recuperasse quell'«humus», cui accennavo prima, acquisito dal suo maestro Franzolini, ma alleggerendolo, quasi dissolvendolo, in partiture ai limiti dell'astrazione. Decora, con pannelli di questo tipo, la chiesa di Le Locle e partecipa a varie importanti mostre nella Confederazione elvetica.

All'astrazione Galina arriva, dunque, per gradi. E negli anni Settanta che le superfici metalliche, incrinate da pieghe e panneggi, segnano il punto di massimo raggiungimento di un'intensità gestuale, che pone se stessa come unico oggetto di rappresentazione. L'ottone anodizzato, il lamierino, assorbono le immagini dello spazio reale, le distorcono, le riflettono in magmatici viluppi illusionistici. Il linearismo, costante espressiva di Galina, si torce, si spezza, si aggruma, si carica di magiche vibrazioni. Il mondo della produzione industriale, in queste opere smaglianti e misteriose di battiti scintillanti di specchiere infrante, appare scompaginato, frantumato da un vento che tutto travolge e stravolge nel crogiolo della fantasia.

Poi il «ritorno all'ordine», a una figuratività depurata e resa evanescente, che ha la leggerezza di un'impronta, l'esilità fragile di un respiro.

E si arriva alle opere più recenti: fili di ferro attorcigliati, a mimare alla lontana forme umane, e dipinti di vivaci solori contrastanti; ceppi di gelso lavorati e, in parte, a loro volta dipinti con rifrazioni d'arcobaleno, con una sorta di furore rupestre, diventano totem monumentali pietrificati in gridi di selvaggia violenza lanciati verso il cielo.

Galina si impegna, ora, anche nella pittura: grandi composizioni affastellate di «silhouettes» di figure ondulate, che balenano espressionisticamente da concitazioni segniche, in una rivisitazione dei «murales» urbani.

Numerose anche le medaglie di Pietro Galina, che prosegue, cosi, sulla linea di altri artisti bujesi, dai Giampaoli ai Monassi. L'attività medaglistica riflette gli indirizzi della sua produzione plastica; con momenti di intenso risalto materico, cadenzati entro rigori volumetrici, ed altri di una figuratività compendiaria a forti contenuti simbolici.