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Di Mirella Comino

 

 

Una storia a due facce

Si racconta che il piccolo Michelangelo, figlio di messer Lodovico di Leonardo Buonarroti, passasse molto volentieri il suo tempo a Settignano, in mezzo agli strumenti da lavoro del padre della sua balia, di mestiere scalpellatore di marmi.  A Recanati, il giovane Giacomo Leopardi aveva come rifugio della sua triste deformità fisica e della sua straordinaria intelligenza la grande biblioteca della casa paterna. La banda del riformatorio, in cui era capitato dopo una disavventura nella zona malfamata di Perdido Street, a New Orleans, offrì a Louis Armstrong l'occasione di imparare a suonare la tromba.

Non si dice, dunque, nulla di nuovo se si afferma che la vicenda artistica di un personaggio corre sempre sullo stesso binario della sua storia personale ed umana.

Vera per chiunque, questa considerazione è  vera anche per Celestino Giampaoli, in famiglia chiamato Giuseppe, a Buja, paese in cui è nato, riconosciuto con il Premio Nadâl Furlan 1991 come "Mestri di sculture e di incision, ch'al à vivude la sô art come mission di esprimi i sintimenz plui alz dal om e la bielece dei formis creadis di Diu" (1). e tuttavia  "forse molto più conosciuto nell'ambiente romano ed internazionale che in quello friulano"(2).

Dovendo descrivere in sintesi la sua ormai settantennale attività, infatti, si potrebbe dire che essa è il risultato di una mai ricomposta tensione in cui si confrontano continuamente le qualità e le esperienze ereditate in famiglia ed il bisogno di affermare la propria completa ed originale identità.  La sua è, dunque, una storia a due facce: una medaglia che porta da una parte il patrimonio di risorse che i Giampaoli hanno lasciato sotto forma di intelligenza, capacità, carattere, occasioni di formazione culturale ed artistica e dall'altra il lungo lavoro di ricerca da lui compiuto non senza difficoltà per trovare una strada personale ed autonoma. Difficile, naturalmente, stabilire quale sia  il recto e quale il verso di questa medaglia!

 

L'eredità dei Giampaoli

Dai Giampaoli Celestino ha ereditato l'intelligenza vivace, la curiosità verso ogni sfumatura del mondo e dei suoi fenomeni, la creatività instancabile accompagnata da una non comune manualità. Ciascuno dei numerosi figli di Teresa Pischiutta e Luigi Giampaoli possiede in misura diversa, ma in modo ricorrente queste qualità: senza scomodare l'esempio fin troppo ovvio di Pietro, basti  pensare che Vittorio, a soli 28 anni (tanti ne aveva nel 1947, quando morì in seguito alle complicazioni di una banale operazione d'ulcera), aveva già realizzato importanti innovazioni tecniche  nella creazione delle patine e nell'uso degli strumenti necessari all'attività di incisore, che svolgeva  insieme ai fratelli. Al capo opposto della vita, una delle sorelle, oggi novantacinquenne (anche la longevità, se si escludono il dramma dello sfortunato Vittorio  e la prematura scomparsa di Anna, la sorellina ritratta in uno dei primi gessi di Pietro(3 ) , è una felice caratteristica scritta nel codice genetico dei Giampaoli !) realizza tuttora con le proprie mani, e solo con quelle, bambole di stoffa sorprendenti per la perfezione dei particolari, per la vivacità delle espressioni disegnate sui piccoli volti di tela imbottita e per l'originalità stilistica degli abiti.

Quanto a Celestino, "artista poliedrico, della razza dei creatori-fabbri della nostra Rinascenza"(4), come non riconoscergli la sua parte di genialità nella capacità di muoversi all'interno delle diverse arti plastiche, dal disegno al tutto tondo, dal bassorilievo all'acquaforte, dall'acquerello all'incisione, nel sapersi fare artigiano per realizzare  senza intermediari il proprio progetto artistico e addirittura nel riuscire, senza studi specifici, ad inoltrarsi nelle leggi fisiche della meccanica per ricavarne ingegnosi prototipi.? "Per avere l'esatta dimensione dello spazio disponibile all'applicazione di un dispositivo che risolvesse il problema delle partenze in salita, ho preso un'impronta col gesso intorno all'albero di trasmissione" afferma divertito, mostrando il suo "pezzo" realizzato completamente da solo, dal disegno alle parti meccaniche, quindi applicato alla fedele Seicento (20 anni di servizio!) per affrontare in piena sicurezza le salite e le discese dei colli della capitale, ma anche quelle di Buja o di Ovaro, paese d'origine della moglie Rina.

E come non stupirsi dello stupore che gli brilla negli occhi quando, seguendo col pensiero immaginari itinerari  percorsi dalle grandi menti che hanno inventato le piccole cose, esclama la sua meraviglia dichiarando un' ammirazione sconfinata per gli inventori della penna a sfera e della macchina da cucire, della cerniera lampo usata in sartoria e del telefonino, del televisore e del biscotto wafer, che gli ricorda un piccolo, rarissimo lusso dell'infanzia! "Quanto avrà tribolato ciascuno di loro per raggiungere il suo obiettivo?" si chiede senza aspettare risposta, rivelando che la forza motrice delle sue opere più perfette è sempre la curiosità, il bisogno di capire "cosa c'è dentro", sia nell'animo di un personaggio che ha scelto come soggetto di un ritratto, sia nell'essenza di una forma che ha chiamato a fare da protagonista in una composizione. D'altra parte, soltanto in questa innata curiosità e nel suo profondo rispetto per la scienza e la tecnica si spiega la scelta di immortalare in una medaglia grandi avvenimenti e personaggi, come von Braun o, come nei bronzi "Moon 1969"e “Apollo I”, rispettivamente lo sbarco sulla luna e l'incendio che distrusse la navetta spaziale con gli astronauti Grissom, White e Chaffee

 

Anche molti tratti del carattere sono frequentemente individuabili nei Giampaoli.

"Certi lavori che in un primo tempo gli sembrano riusciti, appena gli accade di  'svegliarsi dal sonno' gli dicono chiaramente che ha messo insieme una povera cosa: una incontentabilità, questa, che lo ha portato a dover rinnovarsi più e più volte" scriveva nel 1930 Lodovico Zanini riferendosi a Pietro(5) . Celestino non è da meno. La stessa incontentabilità lo tormenta in ogni fase del suo lavoro: nel momento creativo, quando la ricerca della sintesi compositiva diventa intransigente fin nel più piccolo dei segni (splendidi gessi giacciono sul suo tavolo di lavoro in attesa dell'intuizione giusta per una frase capace di esprimere la massima significatività del messaggio e, al tempo stesso, la massima armonia grafica), quindi durante la fase esecutiva quando, come si è detto, si trasforma in artigiano delle proprie opere e, nella "fucina" della Torre dei Capocci ne cura ogni passaggio tecnico, affinché nulla possa interferire con il risultato atteso. Un risultato che deve essere perfetto, nonostante le insistenze moderatrici della signora Rina, anche nell'efficacia descrittiva delle fotografie eventualmente chiamate a documentare le opere , e che Celestino, nei limiti del possibile, cura personalmente.

Imparentato con questa incontentabilità, è poi certamente anche il rigore che oppone i Giampaoli ad ogni compromesso con le convenienze. E se Pietro può affermare "La mia opera migliore non è nelle mie medaglie, ma è nella mia vita" intendendo con ciò il "non avere mai degradato l'opera sua ponendola al servizio di secondi fini"(6) Celestino, "uomo che vale, ma che tutto trattiene entro l'alveo della sua orgogliosa modestia"(7), a chi scrive di lui ripete costantemente la stessa raccomandazione: di "non usare aggettivi" per enfatizzare il suo lavoro, che deve testimoniare da sé stesso la misura del suo valore. Intanto i figli Marco, Luca e Lucia, nati e cresciuti in mezzo ai ferri di incisione ed ai crogiuoli della Torre dei Capocci, avviati all'arte del padre anche con il diploma della prestigiosa Scuola dell'Arte della Medaglia, rifiutano ogni scorciatoia verso il successo se ciò deve significare "servirsi" del nome della famiglia.

 

La famiglia, per i Giampaoli, è infatti tutt'altra cosa.

C'è una ruvidezza del carattere che li contraddistingue e che essi riconoscono: nel rovescio del proprio autoritratto, Pietro rappresenta sé stesso con il fiore spinoso del cardo(8), mentre Celestino ama affiancare simbolicamente all'immagine di se stesso la solitudine della Torre dei Capocci con la scritta "Beata solitudo sola beatitudo"(9). Ebbene, quella  ruvidezza si addolcisce improvvisamente davanti agli affetti più cari, illuminandosi di riconoscente tenerezza.  Il senso della famiglia, in ciascuno di loro, è fortissimo: non si contano, e non hanno bisogno di descrizione, le notissime medaglie di Pietro alla madre, al padre, ai fratelli, ai figli e soprattutto alla moglie(10); contenute nel numero e quasi "riservate", ma non meno intense di sentimento nella purezza delle linee le opere di Celestino: il busto in bronzo del fratello Pietro e quelli in gesso dei genitori, il ritratto della madre, della moglie Rina, della figlia Lucia.

Medaglie e sculture sono comunque soltanto una parte, quella che si esprime nel metallo, di ciò che si legge negli sguardi, nelle parole, nei ricordi, nei gesti concreti che regolano la vita quotidiana di questi personaggi. Chi abbia avuto la felice occasione di contattarli, vi scopre un'intensità di rapporti di affetto che hanno saputo reggere perfino alle divergenze ed ai contrasti, perché basati, nel bene e nel male, sulla condivisione di esperienze lunghe quanto la vita di ciascuno.

 

L'arte dei metalli

La storia di Celestino Giuseppe entra a far parte di quella dei Giampaoli il 5 aprile 1912 quando, insieme alla gemella Elda, viene ad allietare in Urbignacco di Buja la già numerosa schiera dei figli di Luigi, falegname originario di Pagnacco, e di Teresa Pischiutta, "Taresie di Luche", donna di forte tempra, abituata anche alle fatiche contadine del tempo, nelle quali riusciva persino a guadagnarsi l'onore "di guidare per breve tratto l'aratro, che era cosa difficile e soltanto adatta ad uomini pratici"(11).

I modelli familiari diventano immediatamente significativi per il piccolo Celestino: l'abitudine al lavoro, al sacrificio, alla perfezione dell'attività artigianale svolta con meticolosa precisione sarà una preziosa esperienza per la sua manualità; i disegni di Pietro, più grande di lui di 14 anni, che già studia ed opera a Milano, portano allo scoperto l'inconscio desiderio di disegnare, riprodurre, fermare in un proprio lavoro la realtà. Ancor oggi, ricordando quei tempi, egli afferma che la sua prima vocazione era sicuramente la pittura e che nulla gli pareva più perfetto delle linee delle sculture di Fidia, Mirone, Prassitele, che vedeva riprodotte nei disegni di Pietro, e che ha comunque considerato per tutta la vita come un punto di riferimento estetico insostituibile.

 

Ha solo diciassette anni e non ancora una formazione precisa Celestino quando, nel 1929, raggiunge a Roma il fratello, che ormai si sta affermando come incisore. Da lui, al momento, ha tutto da imparare, sia dal punto di vista estetico che tecnico. Insieme lavorano intensamente: l'attività di Pietro ha finalmente incontrato il vento favorevole dei primi successi e merita tutto l'impegno possibile. Compito di Celestino è inizialmente quello di supporto, di aiuto poco più che manuale, secondo i ruoli di una giusta gerarchia di esperienze e di maturità. Abbozza scritte, incorniciature e figure facendo proprie, con crescente sicurezza, le abilità del mestiere, che esprime nelle prime opere personali, come i busti del fratello e dei genitori ed alcune medaglie chiaramente ispirate allo stile di Pietro. Ma la sua curiosità e la certezza di avere ormai individuato in sé stesso una vocazione artistica non gli permettono di fermarsi nella bottega, se pur prestigiosa, di casa Giampaoli. Frequenta allora lo studio del professor Alberto Girardi, maestro del ferro battuto e dello sbalzo, autore, fra l'altro, delle porte della chiesa di San Francesco a Gerusalemme e della Corona di spine del Getsemani. Nella sua bottega, anch'essa organizzata secondo i modelli rinascimentali in cui l'allievo imparava direttamente e concretamente, partecipando alla realizzazione delle opere del maestro, aggiunge nuove, preziose esperienze al suo bagaglio tecnico, ma soprattutto si apre a nuove visuali sui più recenti fermenti artistici di quegli anni. Non contento, perfeziona gli studi frequentando i corsi di pittura alla scuola d'arte del Regio Museo Artistico Industriale e le scuole di nudo, presso le Accademie di Francia e di San Luca.

Il primo riconoscimento  per le sue qualità di scultore gli viene proprio sotto forma di incentivo allo studio: è il 1930 quando il Comune di Udine gli  assegna la borsa di studio Marangoni. Ma non è ancora tempo di fare da solo: tutte le esperienze effettuate, infatti, vanno a rendere più forte il sodalizio artistico e produttivo con Pietro, cui si è, nel frattempo, aggiunto Vittorio.

L'intera famiglia, in breve, si trasferisce a Roma. E' un momento importante e non privo di interrogativi questo pur felice momento in cui tutti si trovano insieme in un alloggio di Palazzo Sansovino, in Via Banco di S. Spirito. Celestino ricorda ancora i dubbi che accompagnarono quel trasferimento: i timori per le difficoltà di ambientamento dei genitori, sradicati dal mondo rurale in cui erano vissuti fino allora e trapiantati nei ritmi di vita così diversi della capitale; ricorda le preoccupazioni per il bilancio familiare, ormai completamente affidato alle fortune della bottega di incisione e gravato da impegni economici per la nuova sistemazione.

Era una scommessa che si doveva assolutamente vincere.

 

I tre fratelli intensificano allora l' attività nella consapevolezza che solo raggiungendo i migliori risultati tecnici è possibile emergere anche come artisti. La priorità assoluta è, dunque, quella tecnica, visto che, ad esempio, le fusioni effettuate presso gli artigiani allora disponibili non li soddisfano. Lo spartano laboratorio in cui lavorano si attrezza allora con le apparecchiature più urgenti, primo fra tutti un forno per fusione, tuttavia il "miracolo" di  "risultati... eccellenti, fuori discussione"(12)è ottenuto soprattutto grazie all'infaticabile contributo di capacità inventiva con cui Pietro, Celestino e Vittorio, ciascuno per la propria parte, risolvono i problemi quotidiani.

Il lavoro comune non impedisce che le loro personalità si esprimano con iniziative proprie sempre più frequenti: Celestino, ad esempio, consolida la sua confidenza con i ritratti ed aggiunge alle sculture già ricordate la medaglia di mons. Lorenzo Balconi, di Mussolini e di altri personaggi più o meno noti, ma realizza anche composizioni con soggetto diverso , come una parte della serie celebrativa del VII centenariodell'Ordine dei Servi di Maria o la "Pax Agrestis".

Un ulteriore riconoscimento alle sue capacità gli viene, nel 1934, dall'assegnazione di una borsa di studio con la quale può frequentare la Scuola dell'Arte della Medaglia, presso la Zecca di Stato. Pietro non è ancora incisore capo della Zecca (lo diventerà nel '37 (13)), ma la sua notorietà e quella dei risultati ottenuti dall'intero clan dei Giampaoli è ormai diffusa nella capitale, tanto che egli viene chiamato a preparare le riproduzioni di medaglie e monete necessarie ad allestire la Mostra della Romanità, in preparazione nel '36 per celebrare il bimillenario di Augusto. E' in quell'anno e in quell'occasione che i tre fratelli colgono la possibilità, offerta dal Comune di Roma, di trasferirsi alla Torre dei Capocci, una costruzione medievale situata nel mezzo di Piazza San Martino ai Monti, nel centro storico. L'edificio, appartenuto ai nobili Capocci, che contano tra i membri della famiglia personaggi illustri della politica capitolina del XII  e XIII secolo, risolve ai Giampaoli il problema degli spazi necessari alle attrezzature del laboratorio, che può finalmente essere allestito con tutto  ciò che sarà necessario per affrontare l'impegno appena assunto.

La Torre, quando le diverse vicende porteranno ciascun Giampaoli a percorrere proprie scelte e proprie strade, resterà per Celestino la "casa della vita"(14), il luogo scomodo (ogni piano ospita una sola stanza) ma pieno di fascino che vedrà formarsi e crescere la sua nuova famiglia accanto a Rina Vinadia e vedrà affermarsi la sua personalità artistica, tanto da diventarne il simbolo.

Il lavoro fin qui svolto gli permette intanto di farsi conoscere, nel 1938, partecipando alla 1^ Mostra Nazionale della Medaglia di Roma e nel '39, sempre nella capitale, alla 3^ Quadriennale d'Arte. Seguirà, nel tempo. la presenza in tutte le manifestazioni nazionali ed internazionali del settore medaglistico, dalle quadriennali di Roma  alle biennali di Venezia, dalle triennali di Parigi alle triennali Italiane della Medaglia d'Arte di Udine, (negli anni 1976, 1981 e 1984). Non può invece, benché invitato, partecipare alla 24^ Biennale di Venezia del 1942 perché impegnato in guerra.

 

E' infatti giunto il tragico momento del secondo conflitto mondiale ed egli, avendo frequentato nel '35 il corso per allievi ufficiali di Arezzo, viene inviato a ricoprire il ruolo di comandante nel centro di difesa di Bardia, sul fronte libico-egiziano. Caduto prigioniero degli Inglesi, è internato in diversi campi di concentramento e più lungamente a Yol, in India. Costretto ad una inattività che gli riesce ancor più dolorosa della mancanza di libertà, riesce tuttavia a chiamare a raccolta tutte le sue risorse interiori, per far sì che anche la prigionia possa diventare un'occasione di crescita umana ed artistica. Di quel periodo ricorda con commossa riconoscenza un compagno di campo, professore di filosofia, che lo avvicinò ai grandi pensatori greci, in particolare Euripide, la cui supplica ad un " sovrano Signore, Giove o Ades", capace di dare agli uomini il senso della vita al di sopra di ogni differenza religiosa, egli annotò per riprodurla successivamente su bronzo.

Annotare, fermare in qualche modo i rari barlumi di bellezza che anche la prigionia può offrire diventa un imperativo interiore al quale si adegua coi pochi mezzi a disposizione. "Fotografa" così, solo abbozzandoli, ma anche utilizzando colori ad olio ed acquerelli, oppure tratteggiandone a penna i minimi particolari, le figure e gli scorci del paesaggio quotidiano e vi scopre insospettabili bellezze. Perfino il movimento dell'acqua o il gioco di luci ed ombre di scogli e rocce diventano momenti da ricordare. Gli schizzi, conservati gelosamente fino al rimpatrio, diventeranno successivamente una serie di acqueforti, che vanno ad aggiungersi a quanto costituisce la parte pittorica, particolarmente ricca, di quel periodo.

 

Ritorno alla Torre

Il ritorno a casa, nel Natale del '45, lo vede intento a riorganizzare attivamente tutto il suo lavoro alla Torre dei Capocci. Gli impegni, fortunatamente, non mancano ed anzi si fanno sempre più interessanti anche per tutta una serie di esperienze di collaborazione artistica e tecnica vissute a fianco di De Jeager, Mistruzzi, Brozzi, Mirko Basaldella ed altri scultori emergenti del dopoguerra. A volte il suo contributo consiste nel partecipare alla discussione ed alla ricerca sui canoni estetici della tradizione ellenistica e neorinascimentale e su come portare avanti un rinnovamento stilistico che investa tanto la medaglia quanto, a maggior ragione, la scultura; altre volte si tratta di un contributo prevalentemente tecnico, con il  quale "traduce" i modelli degli amici scultori e medaglisti in incisioni eseguite direttamente al negativo, per passare alla coniazione senza il passaggio della riduzione pantografica. E' un lavoro che gli viene affidato perché egli è in grado di svolgerlo con grande precisione e contemporaneamente con una rapidità di esecuzione che sovrasta di gran lunga quella del procedimento col pantografo. Oggi egli considera quel lavoro poco più che una "copiatura" ma in realtà esso rivela una padronanza della strumentalità che difficilmente convive con l'impegno artistico.. "Di solito accade che chi è  un buon artigiano non abbia avuto il tempo o la possibilità di approfondire gli aspetti artistici, oppure, al contrario, gli artisti hanno difficoltà a distogliere l'attenzione dalla loro ricerca espressiva e preferiscono affidare ad altri l'esecuzione materiale dei lavori, una volta che questi hanno preso forma nei gessi" afferma, affrontando un argomento che gli è particolarmente caro e che lo ha visto impegnarsi in modo particolare nei tre anni in cui, come insegnante di incisione alla Gori e Zucchi di Arezzo, intorno al 1960, ha cercato di comunicare ai giovani allievi la preferenza e l'abilità per l'incisione dei conii al negativo. E conclude, a sostegno di quella che è stata una convinta scelta didattica sia come insegnante che come maestro di bottega: "Questo non vuol dire che non esistano grandi artisti con altrettanto grandi abilità artigianali, ma molto raramente essi hanno tempo o voglia di trasmettere i segreti del mestiere alle nuove generazioni. Anche le buone scuole di incisione tendono a facilitare, ad esempio, l'uso dei pantografi, dimenticando che produrre un'opera direttamente nella misura richiesta significa poter controllare momento per momento il risultato definitivo. E pensare che i grandi classici greci ci hanno lasciato opere immortali realizzate proprio con queste tecniche".

 

La collaborazione con gli artisti citati  si aggiunge, ma non esclude, naturalmente, la prosecuzione dell'attività con il fratello Pietro. Solo con lui, ormai: Vittorio, come si è detto, scompare nel '47, lasciando il rimpianto di un affetto prematuramente sottratto ed il ricordo di "una forza creativa esplosa tutt'a un tratto, dopo un primo tempo di riflessione"(15). I due fratelli lavorano a così stretto contatto da perdere, spesso, la nozione precisa degli interventi realizzati sulla stessa opera dall'uno o dall'altro. E se nei primi anni la distinzione dei contributi, quello artistico e quello artigianale, poteva avvenire quasi automaticamente, sulla base delle rispettive esperienze, con l'andare del tempo le interazioni avvengono a tutto campo, in un rincorrersi di idee, stimoli, proposte, ritocchi che hanno l'unico scopo di raggiungere la perfezione. L'attribuzione delle opere diventa allora estremamente ardua, e certamente non esclusiva. E' così, ad esempio, per la medaglia vaticana Mater et Magistra , per alcuni pezzi del Concilio Ecumenico Vaticano II e per un Papa Giovanni XXIII degli anni '60, ma anche per qualche altro pezzo precedente, come "Mussolini bersagliere" e un Raffaello del '32 o mons. Balconi del '34.

 

A partire dunque dagli anni '50, quando le preoccupazioni economiche cominciano ad alleggerirsi e a permettere maggiori libertà di scelta, anche Celestino si avvia a trovare la propria strada sia sul piano artistico che su quello umano. Dopo un periodo in cui è evidente la predilezione per le incisioni di conii in piccole dimensioni (soggetti religiosi come Santa Maria Goretti o Madonnine, ma anche ritratti come il Mago di Napoli o Luigi Grassi), nuove esperienze ed eventi di particolare spessore restano come punti fondamentali della sua vita, soprattutto a partire dagli anni '60.

Ad esempio, oltre che nella già citata collaborazione con la Gori e Zucchi di Arezzo, le sue qualità di insegnante e di consulente trovano riconoscimento presso la Zecca della Turchia per preparare il personale all'uso di nuove macchine e di nuove leghe come l'acmonital, poi a Bagdad, per programmare le varie fasi di addestramento del personale e per decidere l'acquisto di macchine necessarie alla coniazione di medaglie e monete. Anche per lui, infatti, come per Pietro, l'attività di incisione sconfina dal campo della medaglia per entrare in quello, regolato da canoni compositivi ed esigenze  tecniche diverse, della numismatica, nella quale realizza importanti monetazioni per diversi Paesi stranieri: Uganda, Giordania, Indonesia, Emirati Arabi, quindi per il Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta e per il Vaticano.

I Papi, da Pio XII all'attuale Giovanni Paolo II costituiscono uno dei soggetti preferiti per i ritratti di Celestino. La Santa Sede ne riconosce il valore e gli affida la realizzazione della medaglia ufficiale di Giovanni Paolo I, che sarà  l'unica del brevissimo pontificato di Albino Luciani. Lo stato africano dell'Uganda gli commissiona, nel '69, una serie di monete dedicate a Paolo VI. Il gallerista americano Philip Berman, invece, è colpito in particolare dal busto in bronzo di Papa Wojtyla, ma non si contano gli apprezzamenti con cui vengono accolti , in generale, non solo i ritratti dei Pontefici, ma anche quelli di statisti e politici  italiani e stranieri (Alcide De Gasperi del '54, Hailè Sellassiè del '58, John e Robert Kennedy del '67, Giovanni Leone del '71...), di grandi personaggi dell'arte (Michelangelo e la relativa serie celebrativa del 1964, Dante del 1965) oltre che di committenti, amici e, come si è già detto, familiari. La committenza si fa più continua e qualificata per le commemorazioni e le celebrazioni più diverse, dalla visita dei partecipanti al Congresso della FIDEM presso la Gori e Zucchi (Omnia Concordia Crescunt, 1961) al settennio dell'INA Casa del 1963, dalla Scuola di Ikebana per il Centro Italiano Scuola Ohara di Roma (1965)  alla medaglia per i benemeriti del salvataggio delle opere d'arte di Firenze e Venezia in occasione dell'alluvione 1966, per conto del Ministero della Pubblica Istruzione. Anche la ricerca personale di carattere estetico e stilistico si fa, per Celestino, più continua e qualificata, fino ad esprimersi in composizioni che rivelano, anche attraverso forme del tutto svincolate dalla figura, il distacco dai modelli iniziali, di ispirazione rinascimentale, della scuola di Pietro.

Indubbiamente, però, tra tante entusiasmanti esperienze artistiche e professionali, una di carattere strettamente personale ha un significato speciale nella sua storia: il matrimonio con Rina Vinadia, ragazza carnica di Ovaro, che entra a far parte della sua vita per rendergliela più ricca sul piano affettivo, anche con la nascita della figlia Lucia e dei gemelli Marco e Luca, e più serena sul piano psicologico, grazie alla grande capacità di condividere concretamente, con realismo e disponibilità oltre che con quel senso di sicurezza che solo i sentimenti profondi riescono a dare, gli eventi quotidiani e quelli straordinari della vita dell'artista. Conoscere le modalità di organizzazione del menage familiare alla Torre dei Capocci, dove una rampa di scale divideva ogni stanza dall'altra, dove il carbone per le fusioni veniva portato a spalla fino all'ultimo piano e dove i figli piccoli venivano messi al sicuro in un cesto durante le operazioni di fusione alle quali partecipava anche Rina, significa oggi rendersi conto di come Celestino abbia trovato in quella Torre e in chi la divideva con lui le condizioni per realizzare i suoi talenti. Ha certamente ragione Ermes Disint quando, riportando un'intervista ai coniugi Giampaoli, afferma che "Rina Vinadia, una semplice e saggia ragazza di Ovaro, avrà un peso notevolmente benefico per la sua vita", perché "poté infatti ben presto dedicarsi completamente a creazioni proprie"(16)..

 

E' in questo clima di entusiasmi e di sacrifici, di sicurezze e preoccupazioni che Celestino può concedersi il tempo di dedicarsi anche ad attività non strettamente legate alla medaglia, come la realizzazione di prototipi meccanici che potrebbero senz'altro trovare utile applicazione nell'industria automobilistica. Oltre al già citato dispositivo per la sicurezza delle partenze in salita, si contano, tra questi, il modello in legno di un motore a settori rotanti  che moltiplica la capacità di spinta sull'albero motore, quindi alcuni tipi di pompe ad ingranaggi e di cambi epicicloidali: tutti ingegnosi e sorprendenti meccanismi che gli valgono l'apprezzamento degli addetti ai lavori alla Mostra Nazionale delle invenzioni ed innovazioni di Palumbo Sila, nel 1990.

 

Ma, naturalmente, è nell'arte in cui ha riversato l'impegno di tutta la vita che egli raccoglie i meritati consensi. Questo accade attraverso l'attribuzione di premi ufficiali, ai quali, per altro, egli dà sempre più una valenza affettiva che critica, come per il premio Giovanni da Udine 1986-87, conferitogli dai Friulani di Roma, il premio Ruota d'Oro 1990 del Rotary Club Sud Ovest; accade poi attraverso la partecipazione alle esposizioni in diverse città del mondo, quelle già elencate nel settore specifico della medaglia nazionale ed internazionale e quelle per cui nutre sempre uno speciale affetto perché legate al paese d'origine, come le mostre dei Maestri Incisori Bujesi di Milano, presso il Museo Archeologico, nel 1986,e di Buja nel 1988 e nel '96 Indubbiamente, però, il consenso più significativo avviene attraverso il riconoscimento delle sue opere da parte dei musei e dei collezionisti di tutto il mondo, dal Museo Vaticano a quello della Zecca Italiana, dal Museo Sterckshof di Deurne, ad Anversa a quello di Stoccolma, dal Museo Archeologico di Milano ai musei di Udine e del Sannio, dalla pinacoteca dantesca di Ravenna alla cattedrale di San Tommaso Moro ad Allentown, negli Stati Uniti, dalla Basilica di S. Martino ai Monti, attigua alla Torre dei Capocci, alla chiesa parrocchiale dei SS Pietro e Paolo di Avilla, a due passi dalla borgata di Urbignacco che gli ha dato i natali.

E tuttavia, quando oggi gli sfugge ad alta voce un bilancio complessivo su settant'anni di attività, afferma che il riconoscimento che lo ha ripagato più a fondo è stato il commento di due donne che, davanti ad un manifesto per la Croce Rossa che egli aveva disegnato, esprimevano il loro apprezzamento per la linearità del disegno e l'efficacia del messaggio rappresentato. Alle loro spalle, non visto, lui stesso ascoltava e raccoglieva dalla semplice voce di due passanti la conferma di un obiettivo artistico raggiunto soprattutto attraverso la ricerca della sintesi.

 

Alla ricerca della propria strada

Oggi, a metà strada tra gli ottanta e i novanta, abbandonata da pochi anni, e solo per lasciarla ai figli, la scomoda fucina della Torre, Celestino Giampaoli continua la sua attività in un tranquillo appartamento di Via Sampiero di Bastelica, nella zona di Largo Preneste, a Roma. Abbandonate per motivi di salute anche le fatiche della fusione, ha ancora idee e progetti da realizzare attraverso bozzetti e gessi che si aggiungono ai quadri, ai disegni, ai calchi, alle incisioni, alle fusioni, ai busti, ai modelli che riassumono il lavoro di una vita.

Com'era prevedibile, nel ripercorrere, anche per sommi capi, le tappe che segnano questa sua lunga attività, ci si accorge ben presto di quanto sia difficile, a tratti impossibile, districare una dall'altra la linea che fa capo all'ambiente in cui è cresciuto sotto la guida di Pietro, indiscusso maestro della medaglia del '900, e la linea che fa capo alle sue scelte ed ai suoi talenti personali ed irripetibili. Con un'osservazione abbastanza "panoramica" (ed in verità anche ovvia), si può dire che egli diventa più fortemente se stesso, sempre più svincolato e libero dalle influenze stilistiche ed estetiche del fratello, man mano che gli anni passano e le esperienze maturate insieme si stratificano in un patrimonio di risorse che, messe a confronto con altre esperienze ed occasioni esterne alla bottega familiare, sono costrette ad interagire con esse e producono il risultato di una nuova, autorevole, originale personalità artistica "di fama anche internazionale"(17).

Sono numerosi a segnalarlo. Alcuni lo fanno per registrare l'avvenuta diversificazione delle loro strade, come Vittoria Masutti "...pur nel lavoro comune trovano autonomamente un loro stile e si dedicano a proprie specialità"(18) o Gian Carlo Menis : "Anche lui fedele alle antiche regole della bellezza e dell'armonia classica, eppure dotato di capacità espressive del tutto autonome ed originali"(19); altri preferiscono delineare i caratteri di questa originalità attraverso un parallelo con Pietro, come fa Adriano Degano precisando: " Un classico, dunque, come il fratello Pietro? Non proprio, perché Celestino ama la ricerca dell'essenziale, della linea schematica, delle cose in movimento"(20) oppure Domenico Zannier: "...il raffinato classicismo di Pietro Giampaoli, dal tratto nobilmente ritrattistico e celebrativo, si unisce al vigoroso espressionismo di Celestino Giampaoli e alla geometrica mobilità delle masse dello stesso"(21), altre volte ancora si affermano semplicemente le peculiari qualità del suo lavoro, come osservano Gianfranco Sgubbi "...accanto ad un pittoricismo essenziale che vuol sottolineare una struttura compositiva priva di ridondanze, viene presentata una linea 'pulita' funzionale alla definizione di spazi e volumi, per qualificarsi poi in indicazioni prospettiche che valorizzano  pienamente lo spazio curvo che il 'supporto medaglia' tradizionalmente sottintende."(22), o Mario Valeriani: " Celestino, per il quale nutriamo una predilezione perché, con le sue notevoli capacità tecniche, sa esaltare momenti di delicata e autentica poesia"(23) e ancora Degano: "Sono nate così medaglie raffinate, che hanno l'eleganza di tratto propria dei maestri del Rinascimento e le linee pure di un Pisanello, ma anche ruote  mosse vorticosamente nel vuoto astrale, spirali, stelle e masse informi proiettate nello spazio: Ed ancora ritratti..."(24)

 

La medaglia come emozione estetica

Ma quando è riconoscibile l'inizio della svolta che ha portato Celestino su una strada autonoma?

 

I primi segni di una personalità difficilmente disposta a chiudersi dentro il cerchio delle sole esperienze di famiglia si hanno indubbiamente fin dai primi anni di attività comune coi fratelli.. La scelta di approfondire gli studi in momenti di così grande impegno, anche economico, presso il prof. Girardi e le scuole serali di disegno, poi, più tardi alla Scuola della Medaglia, rivelano indubbiamente una forte volontà di confronto e di verifica con tutta l'arte e specialmente con quella del suo tempo ed il proposito di conquistare, anche in senso tecnico, quanti più "segreti del mestiere" ci fossero stati a disposizione, e non solo quelli più a portata di mano. Anche la predilezione, mai sconfessata, per  il disegno e la pittura, così come per la meccanica, intesa come  " arte...la cui bellezza affascina con i suoi tanti, diversi e possibili movimenti"(25) e la passione per la didattica, vista come mezzo di comunicazione delle esperienze alle nuove generazioni, rivelano la ricerca di spazi creativi ed espressivi non contenibili nella pur varia, ricca e prestigiosa esperienza vissuta accanto ai fratelli. Poi, indubbiamente, come si è già detto, e come è tuttora facilmente riscontrabile nello straordinario sodalizio affettivo che si percepisce nella vita quotidiana dei coniugi Giampaoli,  fu il fortunato incontro con Rina, con il suo saggio e rasserenante equilibrio a far sì che Celestino trovasse chiaramente la vera immagine di se stesso.

 

Il percorso di questa nuova consapevolezza artistica è abbastanza facilmente riconoscibile nelle sue opere anche agli occhi di chi non si muove abitualmente nel mondo, per altro abbastanza specifico, della medaglia e si può riassumere in alcune linee di tendenza: la ricerca della sintesi e di nuovi canoni estetici, l'utilizzo di soluzioni tecniche in alcuni casi inedite, una particolare scelta dei soggetti.

 

Della prima, e cioè della ricerca della sintesi e di nuovi canoni compositivi, evidenziata nel già citato parere di Gianfranco Sgubbi su "Arte nel Friuli Venezia Giulia 1900-1950" è l'artista stesso che dà conferma e spiegazione quando ad esempio, sostenendo l'importanza dell'incisione diretta dei coni, afferma che "essa è pregevole non tanto per l'abilità che richiede nell'operare con assoluta precisione in piccole dimensioni, ma piuttosto perché, rispetto alla preparazione di modelli grandi da ridurre col pantografo, il lavoro in misure ridotte costringe ad abbandonare ogni tentazione di perdersi nel superfluo e mette nelle condizioni di riconoscere, scegliere e modellare solo ciò che è veramente essenziale". La predilezione per la ricerca del sostanziale non si manifesta, però, soltanto nell'occasione "forzata" delle incisioni. Le sue medaglie, prima evidentemente contrassegnate dalla forte influenza di Pietro  (vedi, ad esempio, il Cardinale Balconi, o  la medaglia per il VII centenario dell'Ordine dei Servi di Maria), tanto da ingenerare difficoltà di attribuzione, abbandonano man mano gli elementi decorativi, semplificano le incorniciature, utilizzano scritte essenziali sia nel messaggio che nel carattere e, benché il segno vada sempre ad equilibrare l'armonia dei pieni e dei vuoti, non c'è un solo particolare che non risponda ai requisiti di semplicità e necessità. "Chi entra in contatto con la medaglia", egli afferma, "deve poter capire al primo colpo d'occhio, senza letture successive, cosa vuole comunicargli". Questo si traduce, per i ritratti, nella capacità di individuare e rappresentare "un'anima che emerge dai tratti fisionomici che caratterizzano il personaggio, penetrato fin nell'intimo più profondo"(26) e di offrire quindi, ad esempio, "i ritratti degli ultimi cinque papi, realizzati con sintetico ed espressivo vigore"(27); per gli altri soggetti si traduce comunque nella volontà di cogliere con poche linee il loro significato e la loro bellezza, anche senza l'uso di iscrizioni didascaliche ed anche senza il vincolo di canoni figurativi, come nelle medaglie che egli denomina semplicemente "forme" o "composizioni astratte" .

Quanto agli aspetti tecnici, senza ripeterci nell'elencazione degli apprezzamenti che definiscono l'abilità con cui li domina o nella descrizione delle incisioni o nel racconto della costanza con cui sorveglia i vari passaggi che si concludono nella medaglia finita, vale forse la pena di ricordare con la rivista  del Centro Culturale Cicerone "Roma- Rome"  "le splendide lastre patinate e dorate a fuoco di  Madonne e soggetti religiosi e profani" (28)come l'autoritratto del 1978 la placchetta alla madre o alcuni ritratti dei Papi, dove la doratura sostituisce l'effetto cromatico delle diverse patine conferendo al pezzo una luminosità satinata e preziosa

Un'ultima panoramica su quelli che sono i segni più evidenti della sua originalità riguarda sicuramente i soggetti delle sue medaglie.

Non si può certo dire che egli si discosti dalla tradizione del fratello quando racchiude nel tondo di un metallo il profilo o il volto di fronte di un Papa o di altri personaggi noti o sconosciuti, né quando raffigura soggetti religiosi o elementi simbolici, specialmente monumentali (vedi, ad esempio, la medaglia della Federazione Nazionale Cavalieri del Lavoro, con il palazzo della Civiltà del Lavoro) per particolari necessità celebrative. Tutt'al più si può osservare che, rispetto a Pietro, gli ambienti in cui si muovono i personaggi e gli eventi celebrati sono molto meno legati ai luoghi dell'infanzia, quindi al Friuli ed a Buja ed alle relative tradizioni e questo nonostante l'affetto fortissimo che unisce tuttora Celestino al suo paese e ad alcuni suoi personaggi e famiglie (nel riserbo che lo contraddistingue, forse questa è una scelta studiata per proteggere l'intimità dei sentimenti?).

Ciò che però Celestino indubbiamente mette a segno per conto proprio è una specie di inversione del rapporto di causa- effetto nella funzione tradizionalmente celebrativa o commemorativa delle medaglie: egli, cioè, non sempre fa la medaglia per conservare o esaltare la memoria di qualcosa, ma consegna il suo soggetto alla memoria perché ne ha fermato l'immagine in una medaglia. Accade così che gli occhi di una ragazza, le forme di un corpo femminile, di un cavallo o di una colomba diventano pezzi tra i più significativi della sua produzione non perché legati ad un nome o ad un evento, ma perché gli offrono linee, volumi ed emozioni che si possono "scrivere" come una pagina di bellezza anche dentro il tondo e nello spessore di un'incisione o di una fusione.

Sono questi i "momenti di delicata ed autentica poesia" per i quali Mario Valeriani dichiarò la sua predilezione per Celestino all'indomani della mostra dei Maestri incisori Bujesi del 1986 a Milano.

 

Riferimenti bibliografici:

(1) G. MINISINI MONASSI, Premi Nadâl Furlan, La Pieve di Buja, anno LXIV n. 17, Buja 1991.

(2) E.DISINT, Celestino Giampaoli: un uomo, un artista, un maestro friulano a Roma, Notiziario del Fogolâr furlan di Roma, 1989, p 23

(3) V.MASUTTI, Pietro Giampaoli medaglista, Catalogo della mostra, Comune di Buja, 1986, p 12

(4) A.DEGANO, Celestino Giampaoli nella Torre dei Capocci, Rivista del Centro Culturale Cicerone "Roma-Rome", n.7 anno IV, luglio 1991, p 42.

(5) L.ZANINI, Pietro Giampaoli, La Panarie, 1930, p 262

(6)  Id. p 26

(7) E: DISINT, Celestino Giampaoli: un uomo, un artista..., cit. p 23

(8) V. MASUTTI, Celestino Giampaoli medaglista, cit. p 36

(9)4^ Triennale Italiana della Medaglia d'Arte, Catalogo della mostra a cura di E: TERENZANI, Udine 1976, p 63 ;

La medaglia in Friuli dal '400 al '900 e i Maestri Incisori Bujesi: attualità e tradizione, Catalogo della Mostra, Milano, 1986, p 86

 (10) G.GORINI, L'arte delle medaglie di Pietro Giampaoli, Giampaoli medaglista, catalogo della mostra cit., p 10

(11)  L.ZANINI, Pietro Giampaoli, cit. p.260

(12) V.MASUTTI, Pietro Giampaoli medaglista, cit. p 14

(13) Id, p 15

(14) A. DEGANO, Celestino Giampaoli nella Torre dei Capocci, cit, p 42

(15)  M. COMINO, Buja città d'arte della medaglia: omaggio agli Incisori, Catalogo della mostra, Buja 1996, p 45

(16)  E.DISINT, Celestino Giampaoli, un uomo un artista..., cit., p 23

(17) La medaglia in Friuli dal '400 al '900 e i Maestri Incisori Bujesi: attualità e tradizione, introduzione al catalogo della mostra, cit,. p 9

(18) V.MASUTTI ,Pietro Giampaoli medaglista cit., p 14

(19)  G.C. MENIS, Buja, patria d'arte, Estratto del catalogo della mostra "La medaglia in Friuli dal '400 al '900 e i Maestri incisori Bujesi: attualità e tradizione, Milano, 1986, p 46

(20)  A.DEGANO, cit. p 42

(21) D.ZANNIER, Che successo a Milano! Messaggero Veneto, 1° marzo 1987

(22) G.SGUBBI, Celestino Giampaoli Arte nel Friuli Venezia Giulia: 1900-1950, Trieste, 1981-82, p 306

23) M.VALERIANI Una grande mostra di medaglie di Maestri friulani a Milano, La Tribuna del collezionista, 1987, p 41

(24) A.DEGANO, Celestino Giampaoli nella Torre dei Capocci, cit, p 42

(25)  E DISINT, Celestino Giampaoli: un uomo, un artista...cit, p 25

(26)  A.DEGANO, Celestino Giampaoli nella Torre dei Capocci, cit, p 42

(27) D.ZANNIER , Medaglisti Bujesi, Buja, 1980

(28) A.DEGANO, Celestino Giampaoli... cit, p 43.