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di Pietro Menis

estratto da " IULIA GENS" 1963  n°17

 

State ascoltando Pietro Giampaoli  - Registrazione del 1988 (aveva allora 89 anni) 

La classe dell'insegnante Marisa Comoretto si era recata ad Urbignacco in casa Giampaoli per assistere ad una lezione su "Come nasce una medaglia".

Si è conclusa lo scorso 25 settembre la mostra dedicata a Pietro Giampaoli. L'evento, a cui hanno collaborato in modo sentito i figli del medaglista, ha avuto come cornice la Pieve di S. Lorenzo in Monte.

Pietro Giampaoli nacque a Buja, precisamente in Urbignacco, il 13 febbraio 1898 da Luigi e Teresa Pischiutta. Trascorse un'infanzia grama nella bottega di falegname del padre, un artigiano alle prese col lavoro e coi clienti, assillato dal bisogno quotidiano della numerosa famiglia. Il futuro artista frequentò le Elementari, sempre a Buja, dimostrando intelligenza e prontezza d'intendere non comuni.

Nelle ore libere, nell'oscura « fabbrica » del padre, apprese l'arte del « legnaiuolo » ; segava, piallava, spesso intagliava con crescente sicurezza.

Finite le classi elementari, emigrò in Austria, destino comune di tutti i ragazzi del tempo e là a 16 anni fu sorpreso dalla guerra. Rimpatriò ed il bisogno di guadagnare lo portò a scavare trincee al fronte finché anche per lui venne l'ora di indossare la divisa. Arruolato negli Alpini è mandato, dopo breve tempo, in prima linea dove l'invasione del 1917 lo sorprese e lo trasse prigioniero. In Ungheria dove venne condotto, apprese da un russo, compagno di sventura, ad incidere metalli, piccole cose, reperibili nello squallore del « lager ». Un giorno, da quel recinto spinato, dove si moriva di fame e di freddo, riuscì a fuggire e trovò ospitalità presso un contadino della tundra. Di giorno zappava e la sera e nei giorni festivi prese ad incidere su umili oggetti che gli venivano portati dai contadini dei dintorni : orologi, braccialetti, scatole, portasigarette. Venuta la liberazione si trovò a Trieste dove venne imbarcato, ma una mina fece saltare la nave. Miracolosamente salvo riuscì ad approdare ad Ancona. Reintegrato nei quadri dell'Esercito cominciò a risentire quel prurito nelle mani, quella inquietudine nel cervello, che aveva provati la prima volta nell'officina improvvisata nel

campo di concentramento. Chiese ed ottenne di essere mandato a Milano in un Deposito militare; un Colonnello lo prese a proteggere, lo indirizzò e, congedato, il Nostro cominciò a frequentare l'Accademia di Brera.

L'Accademia! Un sogno che pareva irrealizzabile al figlio del falegname, all'emigrante intristito, era ora divenuto realtà. Frequentò i corsi con grande profitto e nel 1924 vinse il primo premio per il cesello ai concorsi di Brera. Era la prima tappa. Johnson lo avrebbe voluto fra i suoi artisti nel famoso Stabilimento milanese, ma Giampaoli volle continuare la sua via seguendo un principio che si potrebbe compendiare così : soffrire ma progredire. Gli anni vissuti allora a Milano sono forse i più angosciosi, i più squallidi della sua vita. Lavorava e studiava, gli mancavano i denari, i vestiti erano poveri e lisi, le scarpe sfondate; alle volte camminava sull'asfalto liquido e poi sulla sabbia perchè così formava uno strato che potevasi chiamare suola! Il primo miraggio, dopo conseguiti gli studi, era stata Venezia; ma ben presto scese a Roma. Fece il viaggio in due riprese perchè non aveva il denaro sufficiente ad acquistare il biglietto intero; qualcuno lungo il tragitto lo aiutò. Arrivò nella capitale squattrinato, senza lettere commendatizie, senza conoscenze autorevoli. Ma Giampaoli aveva una grande fede nelle sue possibilità; l'istinto, sviluppatosi durante la sua giovinezza nomade, lo spingeva a tutto osare.

Si allogò in una stanza al sesto piano di una vecchia costruzione e cominciò la sua fatica, la sua lotta con la vita e con l'arte e, quando coi primi successi l'esistenza divenne meno difficile, si trasferì in un vecchio palazzo di Via Santo Spirito, dove lo raggiunsero da Buja i suoi familiari. Lassù, al terzo piano, lavorava; incideva, plasmava, fondeva e patinava le sue opere. Un sistema di fusione primitivo, antiquato ma così perfetto e sorprendente che lasciava sbalorditi i clienti, i frequentatori dello studio. Bisognava aver visto quella « fornace » di Via Banco Santo Spirito per averne un'idea. Sembrava una di quelle bolgie che illustrazioni di secoli addietro ci mostrano, dove maghi e alchimisti si affaccendavano attorno ad alambicchi e fornelli fumosi!... Con Pietro Giampaoli lavoravano tutti i componenti la famiglia, tutta « la tribù » diceva lui; il padre, i fratelli, Vittorino ora defunto e Celestino anch'egli incisore medaglista, la mamma, la più attiva che dava una mano a tutto, onnipresente; lavoravano le sorelle, mentre una vecchia zia preparava i pasti brontolona sempre e scontenta per l'umile servizio cui era costretta nei confronti del resto della famiglia.

La vita che conduceva la famiglia Giampaoli era un'autentica vita da « bohemiens » ; al ricordo appare sempre più impossibile, assurda. In quell'ambiente di Via Banco Santo Spirito dove porte e porticine si aprivano su una fuga di corridoi semibui, quando non mancava difettava

l'indispensabile. Quello però che non mancava mai era l'ottimismo, il buon umore, una volontà tenace di lavorare, di conquistare una meta, quella luminosa dell'arte, cui il tormentato artista anelava; non gli importavano le rinunce, i sacrifici, le delusioni, gli stenti.

Tra i membri della famiglia già di per sé numerosa, di cui Pietro Giampaoli era diventato il « capo », quasi ogni giorno sedeva a mensa un nuovo ospite, un amico, un parente, un paesano di passaggio per la capitale. Così, spesso per causa delle difficoltà economiche, si creavano situazioni di vero disagio, ma talvolta anche buffe. «Quando, — ed era caso raro — nel fondo di una tasca mi avviene di trovare a sera cento lire mi verrebbe voglia di gettarle nel Tevere... » ripeteva Giampaoli sorridendo maliziosetto, talmente era aduso ad essere al verde. E non si preoccupava dell'esattore del gas o di quello della luce elettrica, delle sollecitazioni del droghiere o del padrone di casa che reclamava l'affitto arretrato. Una volta quest'ultimo era deciso a metterlo in istrada, ma all'ultimo momento la situazione fu salva grazie alla lettera di un Ministro, un grande economista, suo forte ammiratore. E intanto dalla sua « officina » uscivano medaglie di indiscusso valore artistico, opere che toccavano la perfezione delle linee e delle forme che la critica più severa andava accostando, senza reticenza, ai grandi classici dei tempi aurei del Rinascimento. Aveva effigiato Sua Santità Pio XI,

Capi di Stato, Cardinali e Vescovi, Condottieri, artisti, costruttori, magnati della finanza, Santi e Capi di Ordini religiosi, Generali dell'Esercito, uomini politici. Finché un giorno, nell'appartamento di Via Banco Santo Spirito giunse una telefonata; lo volevano alla Zecca dello Stato. Era il marzo del 1937, in Maggio sarebbe scaduto l'anniversario della proclamazione dell'Impero e le dieci lire commemorative dell'avvenimento erano ancora di là da venire.

Così Pietro Giampaoli entrava alla Zecca, in qualità di Capo incisore e vi resterà fino al 1963, fino al suo 65° anno di età. Due immagini ritratte da Giampaoli in altrettante targhette hanno attirato fin dall'inizio della sua luminosa carriera l'attenzione e l'ammirazione del pubblico e dei critici. Due figure di donna per le quali egli si era particolarmente impegnato ed alle quali erano volti i suoi pensieri più elevati, l'adorazione più sconfinata. La prima era quella della madre, Teresa Pischiutta, « ritratto vivo... dove le finezze si celavano in piani larghi e semplici posati e calmi, come la breve iscrizione orizzontale : Matri Filius ». Questa autentica opera d'arte è stata riprodotta tante volte su riviste e giornali nazionali ed esteri e sempre il critico o lo scrittore occasionale hanno avuto espressioni alte e nuove di lode e di plauso. L'altra donna era Letizia Savonitti, colei che più tardi diventerà la moglie dell'artista e più tardi ancora, il suo profilo delicato sarà scolpito sulle attuali monete d'argento italiane del valore di cinquecento lire. La targhetta che riproduceva le sembianze di questa donna portava in calce il motto: « Letizia il nome, il mio volto è mestizia - si che per quest'adolescenza mia - sono gaiezza e son melanconia ». « Siamo qui di fronte ad un capolavoro di grazia e di tecnica e di espressione, ad un'opera che basta da sola a rendere grande un artista », così scriveva un giornale nel lontano 1928, e la nostra vecchia « Patria del Friuli » nello stesso anno, soggiungeva : « Particolarmente, in questa targhetta, non sai se maggiormente ammirare la finezza perfetta e morbida della linea o l'espressione angelica nella sua serena e dolce mestizia. I versi appresso interpretano il sentimento della soavissima figura ».

Un particolare va messo in risalto nelle medaglie del nostro Giampaoli, cioè la particolare « tecnica » della disposizione delle lettere che accompagnano i ritratti. Scriveva Eva Tea su l'« Italia » di Milano : « Per amore dell'arte, questo giovane, cresciuto senza lettere, sa improvvisarsi epigrafista. Le parole per lui sono spazio e pensiero ; elemento psicologico e formale della composizione ». I caratteri di preferenza latini nelle sue composizioni, difatti, sono elementi non meno importanti della figura e dei simboli che ritrae. Nel 1937 Pietro Giampaoli porta all'altare la donna amata, la sua Letizia. Con l'inserimento di questa fragile donna nella sua vita e con la nuova posizione di preminenza nella Zecca il corso della sua esistenza aveva una svolta decisiva; rientrava, se così si può dire per un artista, nella normalità. Non più quella spensieratezza che lo portava a dimenticare la realtà quotidiana, non più « carpe diem » dei sognatori; innanzi a lui c'era una nuova via ben precisa da percorrere, una via di responsabilità come uomo e come artista.

E con la normalità anche l'ordine si stabilirà attorno a questo uomo anche se lui resta il distrattone di sempre, che esce di casa con due cravatte addosso, che sale su di un tram che lo porta in direzione opposta di quella dov'è atteso, che dimentica l'appuntamento perchè la patina che vuole dare ad una medaglia non lo soddisfa, che anziché da un Cardinale dove era invitato bussa all'uscio di un burocrate che lo mette in fila in anticamera, fra postulanti e raccomandati...

Non vorrei ripetermi, ma è necessario al fine di fare un « ritratto » il più possibile completo e fedele del nostro artista, riandare, sia pure brevemente, da dove egli mosse i primi passi per arrivare alla vetta da cui oggi giganteggia.

Il 1928 è un anno decisivo per Pietro Giampaoli. E' l'unico friulano presente alla Biennale veneziana « reiteratamente invitato dalla Segreteria generale ». Uno dei critici di quella mostra dirà, soffermandosi dinanzi al suo medagliere che « queste opere muovono precisamente dai grandi modelli del Quattro e Cinquecento e sono, perciò stesso, di una nobiltà e probità dinanzi a cui conviene inchinarsi ».

Nello stesso anno il Giampaoli aveva esposto a Roma a Palazzo Doria, unendosi all'amico e compaesano pittore Enrico Ursella. Nel suo medagliere figuravano medaglie e targhe, ritratti di eminenti personalità a cominciare dal Papa Pio XI. « Come descrivere questi lavori?— si domandava il critico Carlo Zannerio — Le medaglie di Giampaoli — soggiungeva — bisogna vederle ; ogni racconto non farebbe che dare una idea molto imprecisa di questi piccoli capolavori materiati sul duro metallo... In ogni medaglia di codesto artista friulano c'è tutto il suo cuore, tutta l'anima sua; il tormento di quanto ha sentito, e la sofferenza per quello che non ha potuto comprendere ed esprimere sulla plastica viva di un volto sebbene lo indovinasse in parte il segreto di quella vita e dell'anima. In ogni opera di codesto artista ci sono due personalità, quella della persona raffigurata e quella dell'artista; entrambe piene di vigorosa e prepotente esistenza.

E come risultato ne vengono fuori quei profili semplici e pur tanto complicati, ove sotto la pelle affiorano le anime, dolci nella castità delle linee quasi immateriali, nella sobria misurata economia dei segni... ».

Ed Eva Tea si esprimeva così : « Se Giorgio Vasari ricomparisse ai dì nostri, godrebbe di dedicare a Pietro Giampaoli uno di quei cenni saporosi con cui ha tratteggiato taluno fra i più tipici e compagnevoli artisti del tempo suo... Con che sale ce lo presenterebbe fra gli accademici di Milano e Venezia sempre in lite con la vita e con l'arte, per farlo approdare da ultimo a Roma, battesimo immancabile di tutti gli eroi vasariani ». Difatti il « battesimo » di Roma era stato per Giampaoli subito assicurato ; ci vorrebbe spazio a iosa e tempo disponibile per poter ripetere quì i giudizi e le espressioni di plauso della stampa del tempo. Per tutti riporto quanto scrisse « L'Osservatore Romano » nel 1933, riproducendo sulle sue colonne le medaglie che il nostro artista aveva preparato per il VII centenario dei Servi di Maria. « Queste due medaglie, finemente cesellate, sono opera di Pietro Giampaoli, artista di chiara fama nel difficile campo della medaglia. Ispirate alla moderna estetica è però chiara in esse la classica tradizione italiana. Armonia nella composizione, sintesi di linee e di piani, padronanza tecnica e sana sensibilità, penetrazione intima dei soggetti, sono i pregi di queste medaglie ». Quando il nostro artista entrava alla Zecca camminava già su di una « via larga », sulla via del successo, preconizzato e riconosciuto così autorevolmente fin dagli anni duri e difficili cui abbiamo accennato. Quante tappe dolorose dalla bottega paterna di falegname nel borgo natio, alle soglie della Zecca!... E d'ora innanzi, dopo di avere atteso al suo compito di Capo incisore nel grande Stabilimento, preparando i coni, per monete e medaglie nazionali ed estere, con una tecnica e precisione insuperabili, attende, senza conoscere fatica, ad altri delicatissimi incarichi. Le monete vaticane sono commissionate a lui, a Giampaoli, e così dicasi di molte medaglie che la Santa Sede solitamente conia per ricordo dei suoi fastigi, delle encicliche papali. A più riprese ha illustrato quattro Papi, i due Pio, XI e XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. In cinque lustri e più della sua permanenza alla Zecca più volte è stato chiamato a consulto presso Stabilimenti e Zecche estere, come in Germania, in Turchia, in Francia, in Ispagna, ecc.

Sempre in questo lasso di tempo partecipò a Mostre ed Esposizioni a carattere mondiale, a Madrid, a Bonn, a Washington. Le ultime medaglie vaticane di Pietro Giampaoli sono fra le più ammirate, quelle che commemorano il viaggio di Papa Giovanni a Loreto ed Assisi. A questo proposito vale la pena di ricordare un piccolo episodio. In questa medaglia l'artista voleva mettere tutta l'anima e l'umanità del Buon Pastore, e a tal fine pensò di confondersi fra i pellegrini di una pubblica udienza, per imprimere quelle sembianze, cogliere magari un palpito, un'espressione, un moto che gli rivelasse un lato nuovo e men sfruttato dell'illustre personaggio. Giampaoli era intento alla sua « scoperta », quando il Papa, individuandolo fra la folla, senza preamboli, con la semplicità che gli era propria e spontanea, gli disse, così forte da farsi sentire nella ressa:

— « Senta, lei, dopo si fermi... tanto noi ci conosciamo!... ». Fu così che la medaglia che commemora e ricorda il pellegrinaggio mariano del Sommo Pontefice alla vigilia dell'apertura del Concilio Vaticano II venne compiuta e quella figura, assomigliante e maestosa, ha qualcosa che associa lo spirituale e l'umano. Nella sua quiescenza Pietro Giampaoli, con la libertà che ne consegue dallo svincolo dagli impegni pubblici, continuerà l'opera sua meravigliosa e dalla sua « officina » usciranno certamente ancora nuove opere, capolavori che si aggiungeranno alla ininterrotta serie iniziata otto lustri addietro.