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Acetàiso les mascarutes?

di Andreina Ciceri

 

Buia non ha tradizioni particolarmente originali, ma assomma gli aspetti piu caratteristici degli usi di un Friuli medio, per cui si può studiarlo come paese tipo.

A Buia gli anni si contano a Carnevali e ognuno ha cari quelli della sua infanzia e giovinezza. Io ne traccerò un prototipo sulla scorta di notizie fornitemi dalle due generazioni precedenti alla mia,
vale a dire da imformatori nati dal 1875 al 1900.

Carnevale si apre con l'Epifania: alla vigilia si benedicono la acqua ed il sale; un po' d'acqua benedetta si versa nel pozzo di casa; I'acqua di «tre Epifanie» mescolata dà una mistura preziosa contro tempesta e fulmini; il sale benedetto si mette nel pasto degli animali domestici e, a sera, nell'acqua della polenta, versandolo in tre punti, a triangolo, ed accompagnandolo con le parole: «In non de Santissime-Trinitât». Alcuni fanno benedire anche semola per gli  animali e mele da consumare a S. Biagio contro il mal di gola. Dopo questi gentili riti cristiani, a sera si ripete il rito assai più antico del fuoco: si preparano nei campi grandi cumuli di canne di granturco e sterpaglia (cjàpes, tamosses) e, dopo il suono dell'Ave Maria, un vecchio dà loro fuoco (brusâ l'avent). Intorno c'ê un gran correre di bambini, reggenti fasci di paglia accesa al pignarûl: senza averne coscienza compiono un atto di purificazione e propiziazione per la futura annata agraria, mentre i vecchi compiono atto divinatorio, profetando l'andamento dei raccolti dalla direzione del fumo del pignarâl: Se el fum al va a soreli amont-cjape el sac e va pal mont! Se el fum al va a soreli jevât-cjape el sac e va al marcjât!

La consapevolezza del valore rituale di molti usi si ê ormai perduta, cosi anche il grido augurale ê diventalo ormai una filastrocca scherzosa:

Ven pan, ven vin,

le lujanie tal cjadìn

el cjadin, al è forât

le lujanie sul toglât

el toglât al e plen di fen

le lujanie sun tun len

el len nol à scusse

ti metarai su pe musse

le musse no à pêl

ti metarai sul camêl

el camêl ti trai une vesse

che ti pare drete a messe

messe no à timp

ti pare-fûr incurint.

(Inf. Angela Pittini)

 

Dall'Epifania cominciavano a girare le maschere; dapprima in sordina: si presentavano col buio, sulla porta o alla finestra: Aceíàiso les mascarutes? Preferivano le case dove c'erano ragazze con cui ballare, al suono dell'armonica. Era questa infatti la stagione propizia a fidanzamenti e matrimoni. Portavano allegria ed anche un po' la suggestione del mistero, per quelle maschere (moretine) che nessuno avrebbe osato toccare e che spesso mettevano paura ai bambini.

Dopo due, tre balli (pulcre, manfrine, mazurche, ponte e tac.) se ne andavano in altre case, a portare i loro lazzi e la loro presenza grottesca. Di regola però accoglieva le offerte uno a viso scoperto. Le mascherate si facevano di sabato, ma andavano infittendosi e crescendo in euforia verso gli ultimi giorni: giovedi grasso, sevrùt (lunedi) e, nel martedi, si concludeva con una pubblica pantomima, con solenni bevute e mangiate di crostoli e frittelle (crofes). In questo periodo, ogni famiglia disponeva di buone scorte e dei soldi degli emigranti, cosi anche i nostri tranquilli e morigerati paesani diventavano per una volta spavaldi:

A Carnavâl no mi fas paure

n'e di frét nè di criure!


Le donne normalmente non si mascheravano e i bambini lo facevano solo di giorno, magari incalzali dai coetanei, al grido:

Mascare mascare dal pezzot

dàit un pît, paràile sot!

Mascare mascare dal tambúr

dàit un pît, paràile fûr!


Fino alla prima guerra mondiale, le mascherate hanno avuto un sapore più rustico ed autentico. Da Tomba le mascherate più strabilianti, sopra carri rivestiti di edera, alloro, frasche. I mascherati erano spesso vestiti da donna, o formavano coppie di sposi, o di vecchi; si agghindavano con ogni sorta di indumento in disuso, magari cucendovi-su tutoli, rape, persino topi. Abbastanza comune era lo scherzo del mascherato che usciva col busto da una gerla forata, mentre reggeva davanti un pupazzo: sembrava cosi che una donna portasse il marito nella gerla.

Queste ed altre forme di dismisura, tipiche del sovvertimento carnevalesco, procuravano gran divertimento e inducevano a generose offerte alla compagnia del Carnevale. Del resto un Carnevale ricco di maschere ê sempre stato ritenuto di buon augurio per il paese. Oltre ad assolvere questa funzione catartica, il Carnevale aveva altre implicazioni simboliche, che ha completamente perduto, formalizzandosi.

Solitamente sulla piazza di Avilla convenivano le mascherate, a consumare l'atto finale: il processo e la condanna di Carnevale. Gli si muovevano le accuse piú varie, passando in rivista i fatti dell'annata paesana e compiendo cosi, pur nello scherzo, un atto di pubblica autocensura.
Talvolta i pupazzi erano due: Carnevâl e Coresime, che ingaggiavano un duello di reciproche ingiurie; talvolta si recitava il ben noto "Contrasto", attribuito al Colloredo. Poi il giudice leggeva il verbâl e chiedeva al pubblico la condanna da infliggere. Tutti lo volevano bruciato! Gli si concedeva ancora di fare testamento. C'era sempre un buontempone che, variando di anno in anno, si faceva portavoce del morituro:

J lassi i bregons a chei di Strambons

J lassi le camisole a chei di Cjasesole

J lassi el cjapièl a chei di Saquel

J lassi un carantàn a chei di Tonzolan

J lassi el gaban a chei di San Florean

J lassi le gombe a di chei di Tombe....


E cosi a lungo! Alfine si accendeva un falò in piazza e vi si gettava Carnevale in effigie (e talvolta anche Quaresima) ed era la degna chiusa dei riti del fuoco, iniziati al solstizio invernale, a celebrare l'apertura di un nuovo ciclo agrario.

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Vuê, a vê fan al ê un lusso.

Al e parchel che il nestri mont civîl,

si preòcupe di plui dal apetìt dai massepassûz

che nò de fan de puare int.

Puppo