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Ritorno in Friuli, 

lungo itinerario dei longobardi

di Danilo Tamagnini

 

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I buoni propositi, già. Torno, devo tornare, capita di proporsi e di riproporsi. Ma l'intenzione pur colorata di speranza non diventa realtà. Passa un anno, passa il secondo... Ne passano addirittura quindici da quando il terremoto sconvolse quel territorio, però nulla accade.

Un paio di viaggi sono intercorsi, dopo il '76: l'inaugurazione della chiesetta di Ursinins, poi una visita con sindaci bresciani per una presa di contatto, tornata la vita alla tranquillità, con il Villaggio che i lettori del Giornale di Brescia avevano donato ai sinistrati.

Quindici anni dal sisma, dieci dalla pubblicazione del primo periodico che risollecita la solidarietà allora instauratasi tra la nostra provincia lombarda e la frazione di Buja. Anniversari. Un altro, non così precisamente databile, è stato scandito da un avvenimento culturale che ha riaffermato un remoto legame tra bresciani e friulani. La Mostra "I Longobardi" che, artefice mons.

Gian Carlo Menis, è stata dedicata al popolo cui tanto deve il costume nostro e vostro. Desiderio, Ermengarda (sparsa le trecce morbide... studiavamo) e via elencando: personaggi tornati a vivere nelle pagine del libro che il sacerdote ha dedicato agli avi comuni. Dei quali, nella nostra provincia, di tanto in tanto, nelle tombe scoperte (e sconvolte) da ruspe e aratri, si ritrovano aurei monili: croci, fibule, anelli. Una via d'oro alla cui tradizione si ria un laboratorio artigiano aperto che non è molto nel centro storico di Brescia.

Gia, la firma, che sta per un'artista sensibile. Lei crea; un ragazzo che aiutò a montare le prime tende inviate per i soccorsi (ne è passato di tempo... ) Luigi Tonino, insieme con altri commercializza. Quindi c'è anche qui, prezioso, un segno di quell'amicizia fiorita sulle macerie. Che si sia dimostrata durevole, oggi soprattutto che si va tanto di fretta, non deve meravigliare.

Gente solida, bresciani e bujesi (e friulani nel complesso) perché identica risulta la matrice, ceppo vigoroso appunto irrobustito dalla comune ascendenza longobarda. Di quel popolo non ancora abbastanza conosciuto parlano molti monumenti: a Brescia il complesso di s. Giulia, che lodevole iniziativa comunale ha riscattato dalla trasformazione in quartiere militare; a Sirmione, diamante del turismo gardesano, resti di mura e denominazioni che hanno resistito al crollo degli edifici con esse tenuti a battesimo.

San Salvatore, per esempio. Invano si cercherebbe la chiesa; è uno slargo a chiamarsi così (e un ristorante esaltato per culinaria sapidità). Anche a Leno, in pianura, invano si va alla ricerca di un segno che indichi la badia benedettina, seconda in Italia solo a quella cassinese. Niente di niente. I giacobini la ridussero a cumuli di detriti che dormono sotto campi generosi. Ma il ricordo sopravvive, e riporta a Desiderio. Duca di Brescia, il futuro sovrano (758?) dormì da quelle parti: un sonno improvviso che gli fece scegliere, riparo di fortuna, un albero fronzuto.

S'assopì e sognò di essere insidiato da un serpente. Il ridestarsi lo rese consapevole che effettivamente era in pericolo e, vinta l'insidia, volle che di quell'essere restituito alla vita (che anche gli riservava corona regale) restasse memoria fondando un monastero. Che crebbe, moltiplicò le proprietà, decadde e venne cancellato dalla geografia conventuale per mano iconoclasta (1797), quando anche la non più serenissima Repubblica di Venezia esauriva il proprio ciclo storico.

Svanita la meteora napoleonica, dove al Nord, remotivamente, aveva governato il longobardo, giunse l'austriaco. Che non fu poi così malefico come a scuola ci vollero far credere. Siamo come siamo, qui noi e lì voi, anche per essere stati sudditi di quell'impero, poliziescamente occhiuto ma di grande avvedutezza economica e amministrativa.

Solidarietà ben più antica di quella che tre lustri fa venne espressa con tanto entusiasmo dunque ci lega, e quasi un ritorno a casa è stato per molti mettersi in strada: la mostra longobardo-furlana non era da perdere rivelando molti tratti della somigliante identità, ribadita dal presente periodico, si mantiene nel tempo.

 L'assenza (lunga e ancor più colpevole) dallo scenario di quella visita avvenuta subito dopo la tragedia di maggio, non ha certo cancellato, anzi nemmeno ha tolto vivacità e rilegami di amicizia con gli ursininconesi (ma si dirà così?). I tanti nomi sfuggono, non le figure, non la quotidianità del loro esempio di dedizione alla fatica nell'impegno, mantenuto a tambur battente, di ricostruire quanto le forze della Natura, nella circostanza matrigna, aveva loro sottratto.

Grandi lavoratori per i quali la parola data vale più che un atto stipulato davanti al notaio, mai arresi di fronte all'avversità. Un po' "todèsch", secondo l'appellativo che noi bresciani genericamente riserviamo ai nordici. Tra i quali in fondo ci annoveriamo per tenacia e per intraprendenza. Questi i binari sui quali facciamo correre il nostro itinerario esistenziale. Come i friulani e come, prima, i longobardi.

Globuli rossi, globuli bianchi e intraprendenza: il nostro sangue, ieri, e oggi.

E auguriamoci, ancora per il futuro. Noi e voi.

Loro ormai appartengono alla storia e a chi, come mons. Menis, sa leggerla. Mutuandone ammirazione.