Franco Arrighini fu l’elemento operativo nel campo logistico:

la sua testimonianza.

Nel cortile il centro di raccolta,

poi i viaggi con i camion carichi.

m.b.c.

 

BRESCIA - Chi non conosce Franco Arrighini non ha idea cosa sia la forza applicata a un’impresa. Si dice che sia in grado di alzare un’auto con una mano sola, di sostituire un muletto nelle performance di sollevamento più ardite e di compiere altre leggendarie azioni, con un’energia muscolare sorprendente, quasi che fosse caduto, da bambino, nella pozione magica del druido Panoramix.Arrighini fu l’addetto operativo agli approvvigionamenti, nei giorni successivi ai terremoti: carico e scarico del materiale, rifornimenti, vettovagliamenti e forniture, durante le operazioni di soccorso organizzate dal Giornale di Brescia. Tanto si deve anche alla sua straordinaria energia e alla precisione nel trasformare un ordine in azione. Maestrini, da Buja, chiamava il direttore amministrativo, segnalando la necessità di recupero d’altri aiuti. Gli uffici del Giornale trovavano la strada per dare al più presto una risposta positiva alle esigenze del campo di Ursinins Piccolo. E gli ordini prendevano la direzione di Arrighini.
Be’, lo vediamo laggiù nel cortile del Giornale di Brescia, accanto agli altri uomini con le tute bianche. È un giorno di maggio. I camion, che hanno ancora una linea anti-diluviana - ma sono passati davvero soltanto trent’anni? E in trent’anni, che non sono un abisso, tutto muta in modo così abissale? - sono già stati caricati, dopo che amministratori e giornalisti, hanno percorso i canali dell’offerta. Ci si appresta a partire. Il fotografo si protende dalla finestra. Ehi, ragazzi, guardate quassù. Clic.
«Eh sì, quando siamo arrivati a destinazione, quella notte, abbiamo visto il campanile crollare. Non eravamo mica molto distanti da quel punto. È stato un brutto spavento». Un battesimo del fuoco, eh, Arrighini?
«Sei camion» dice lui, mentre ripercorre il labirinto di quelle giornate ricche di opere, senza soppesare il peso immane di ogni masserizia che cavava dal rimorchio, in assenza del minimo soffio di fatica.
«Siamo arrivati, tutto bene, in cinque, sei ore. Maestrini, il direttore della tipografia, ha cercato subito gli amministratori del paese. Ci hanno dato appuntamento la mattina dopo. I nostri camion portavano un po’ di tutto, dalle tende ai lettini, dai materassi fino alle torce elettriche. Be’ la gente era contenta di vederci. Era riconoscente. Ci aiutava a scaricare i camion. Non ricordo episodi particolari. Era gente molto composta anche se molto provata da quello che era successo. Tante case sembravano lì lì per cadere. Le scosse di assestamento si ripetevano. E quando la terra tremava gli abitanti erano percorsi da un brivido».
«Sembrava che dovessi stare lì un giorno - dice Arrighini -. Ma come si faceva a tornare indietro con tutte quelle cose da fare? È andata a finire che mi sono fermato una settimana. Senza valigie, né niente. Poi Maestrini mi ha detto che era meglio rientrare perchè c’era bisogno di qualcuno che lavorasse alla raccolta del materiale che sembrava non bastasse mai, perchè veniva sempre fuori qualche nuova necessità, qualche altra frazione da aiutare. Io sono venuto via, ma sapevo che presto sarei ritornato. Anche a Brescia c’era molto da fare. L’avvocato Pelizzari mi mandava a raccogliere quello che era stato messo a disposizione dalle diverse imprese. Poi c’erano le coperte e il resto raccolto dai privati e portato qui al Giornale. Si trattava di organizzare il materiale, di sistemarlo ordinatamente nel magazzino, di caricarlo bene sul camion e di organizzare gli invii. Maestrini ci chiamava da Buja. Segnalava la mancanza di un dato tipo di materiale. L’amministrazione lavorava per trovarlo rapidamente. E noi, con grande rapidità, lo caricavamo e facevamo il trasporto».
«La mattina dopo il nostro primo arrivo, il sindaco ci ha destinato al campo dove avremmo dovuto montare le tende. La gente ci aiutava molto. Ricordo di aver montato molte tende insieme a due donne, una sposina austriaca e un’anziana del posto. Era tutto un andare e venire; il lavoro non finiva mai. Ecco che arrivava il proprietario di un trattore. Allora si dava una mano a spalare via le macerie, perchè bisognava liberare al più presto le strade».
«La gente, poveretta, cercava di recuperare qualcosa dalle case. Ma non era facile perchè c’era il grande rischio dei crolli».
Mostriamo ad Arrighini le vecchie fotografie. Non le ha più riviste, da trent’anni. Allora, sul volto serio, s’espande la rarità del sorriso. Tagli di nastri, casette prefabbricate, uomini e donne dal look inconfondibile degli anni Settanta, macerie e tanta fatica affrontata con un incrollabile senso di responsabilità.
m. b. c.