I ricordi di Franco Baruzzi e Dante Balzarini impegnati in decine di viaggi della solidarietà alla guida dei camion che da Brescia portavano aiuti  nel Friuli devastato dal terremoto.

«Quel paese rimasto senza campanili»

di Alberto Pellegrini

 

«Non sapevo cosa avrei trovato, nel Friuli devastato dal terremoto. Avevo accettato di andare, di mettermi alla guida di un autotreno per portare aiuto, vestiti, viveri e medicine. Il sisma aveva colpito due giorni prima e c’era ancora pericolo. Ma non ci pensava nessuno: l’unica preoccupazione era arrivare a destinazione prima possibile. A Udine superammo rapidamente un centro di smistamento e poi iniziammo a salire verso le zone più colpite, Gemona, Buja. Verso le montagne. Improvvisamente mi accorsi che nelle vallate, nei paesini che vedevamo da lontano non c’era più un solo campanile. Non dimenticherò mai più quell’impressione strana, quella visione inquietante».

Così Dante Balzarini, oggi pensionato di 73 anni, ricorda quella primavera di 30 anni fa, quando all’Om Iveco dove lavorava come collaudatore dei camion, chiesero se qualcuno si offriva per trasportare i primi aiuti nel Friuli devastato. Furono in molti ad accettare e così iniziarono quei viaggi della solidarietà che aiutarono davvero i friulani a rialzare la testa e a ricostruire i loro paesi distrutti in tempi straordinariamente brevi.

«Quando arrivammo a Gemona - ricorda ancora Balzarini - non credevamo ai nostri occhi: era tutto distrutto, c’erano ancora ambulanze che andavano e venivano, gente che piangeva davanti a mucchi di macerie che fino a due giorni prima erano state case, luoghi di vita e di felicità. Ti si stringeva il cuore. Ma eravamo là per lavorare, bisognava fare in fretta, scaricare e ripartire».

Così, per più di un mese, Balzarini con altri compagni conitnuò ad andare avanti e indietro dal Friuli con i camion pieni di cibo, latte, acqua potabile, vestiti e coperte, medicinali e poi, nella seconda fase dell’intervento che fu coordinato da Brescia dalla Croce rossa e dal nostro giornale, con il materiale per costruire il villaggio di casette prefabbricate in legno vicino alle rovine di Buja. Un lavoro duro e difficile e anche rischioso.

«Sì qualche rischio lo abbiamo corso - prosegue l’ex collaudatore di camion - ricordo che proprio la prima notte in Friuli, parcheggiammo i camion nel piazzale della chiesa di Buja: il posto era libero dalle macerie e sembrava adatto per aspettare l’alba riposandoci un po’. Improvvisamente sopraggiunse un’auto con il sindaco del paese che agitatissimo ci disse di andare via, che era pericoloso perché la chiesa era stata lesionata gravemente ed era pericolante. Poche decine di minuti dopo la facciata della chiesa crollò rovinosamente proprio nel punto dove poco prima c’erano alcuni dei nostri mezzi».
Fu una grande fatica, quindi. «Già, fu un lavoro duro, durissimo - prosegue il racconto di Dante Balzarini - non si sapeva quando avremmo potuto dormire, si caricava, si guidava e si scaricava. Poi si ricominciava di nuovo. Non ricordo quanti viaggi ho fatto, più o meno una ventina».
Ricordi drammatici, tristi, ma anche esaltanti per il fatto di rendersi conto di essere davvero utili a quella gente. «Non si aveva molto tempo per pensare - spiega Balzarini - e quindi anche la tristezza per le vittime, per chi aveva perso tutto, veniva superata dall’impegno.

E  poi c’era quella gente meravigliosa che, poche ore dopo quell’immane tragedia, era già al lavoro per rialzare la testa, per rinascere. Non dimenticherò mai più l’impegno, la forza e lo spirito incrollabile dei friulani».
Simili a quelli di Dante Balzarini sono i ricordi di Franco Baruzzi, pure lui bresciano e pure lui ex dipendente dell’Om Iveco. Nel ’76 faceva l’autista per i dirigenti dell’azienda e aderì con entusiasmo all’idea di poter aiutare i friulani colpiti dal terremoto.

Oggi anche Baruzzi è in pensione, ha 71 anni e molti ricordi di quelle settimane passate sui camion: «La terra tremava ancora quando arrivai col primo carico a Udine. Lì smistavano le colonne di automezzi indirizzandole verso le varie zone a seconda del carico. C’era una grande confusione, mancava tutto e si respirava un clima di tragedia. Ricordo che la prima notte a Gemona, raggiunta evitando mucchi di macerie sulle strade, ci sedemmo per riposare vicino a una delle poche case non lesionate e improvvisamente le seggiole iniziarono a traballare: era una scossa di assestamento».

Momenti di paura quindi, oltre alla fatica. «Non ci si pensava, perché bisognava darsi da fare per aiutare quella gente. Sempre durante il primo viaggio io e alcuni compagni aiutammo dei militari a tirare fuori dalle macerie della sua casa un uomo che era sotto da quasi due giorni, ed era ancora vivo».

Di quel periodo restano anche ricordi belli. «La gente, i friulani mi sono rimasti nel cuore - conclude Franco Baruzzi - quelli che stavano bene, poche ore dopo il sisma erano già tutti al lavoro, uomini, donne e anche ragazzini, scavavano con le mani, erano un esempio vivente di carattere e di forza».
Alberto Pellegrini