È sera. A Brescia, due sorelline di otto e dieci anni stanno per addormentarsi, nella loro casa al quarto piano di un condominio. «Ma cosa stai facendo? Smettila di muovere il mio letto», sbotta la piccola nel buio della cameretta. «Smettila tu». «Mi stai prendendo in giro? Falla finita, ho sonno». Poi, un lampo attraversa la mente della maggiore: «Il terremoto!» Le due corrono dai genitori, e subito si ritrovano in strada con i vicini di casa insolitamente scarmigliati e la curiosa sensazione di indossare pigiama e mocassini. Sarà una serata speciale, fatta di paura-confusione-molte parole-lieve euforia perché alla fine si tornerà a dormire nel letto di sempre, e il giorno dopo la vita riprenderà uguale a prima, tra scuola e giochi in cortile. È sera. A Ursinins Piccolo, frazione di Buja, una bambina di nove anni sta finendo di fare i compiti, al primo piano della palazzina nella quale abita con la madre, il padre e due fratelli di 21 e 18 anni. Improvvisamente sente «un rumore strano». Allora va sulle scale per capire, per scendere, ma a metà strada si ferma terrorizzata: la luce se n’è andata e nelle tenebre «tutto balla». Se lo ricorda ancora bene, anche se dal terremoto del 1976 è passato molto tempo. Trent’anni di vita «normale», con la Scuola superiore a Udine, l’Università a Trieste, la laurea in Giurisprudenza e poi il lavoro, il matrimonio, due figli che oggi hanno sei e tre anni. E il ritorno a Buja, l’anno scorso dopo un periodo in cui ha vissuto altrove, «finalmente in una casa di un solo piano». Perché quella sera, quella notte e quel che seguì non hanno lasciato soltanto immagini nella memoria, ma anche un brivido che torna ogni volta che la bambina di allora avverte - o crede di avvertire - un movimento di troppo intorno a sé o sotto i piedi. Una paura, un bisogno istintivo di riparo e sicurezza che nel tempo è diventato il progetto di un’abitazione singola, «di un solo piano» appunto, come quella nella quale vive oggi con la sua famiglia. E, ancora, accanto al ricordo degli istanti infiniti del terremoto sopravvive l’immagine nitida di «una casa di pietra completamente sbriciolata», ovvero di un paese che «un giorno c’era e il giorno dopo non c’era più». Quell’immagine si riflette nell’espressione fissata in una fotografia che ritrae proprio lei, Sandra Tonino, tra le macerie, e che è custodita nell’archivio del Giornale di Brescia insieme a molte altre. Sandra sembra arrabbiata, e infastidita dal fatto di essere fotografata, ma lei assicura di no: «Ero semplicemente scioccata perché non riconoscevo più il paesaggio che mi aveva sempre circondato. Ecco, il vero colpo è stato quello». Prima dell’angosciosa scoperta della distruzione impietosamente illuminata dal nuovo giorno, c’era stata una lunga notte trascorsa in automobile con i genitori e i fratelli, in una strada di un buio irreale e piena delle sirene dei soccorsi. Una sistemazione di fortuna improvvisata dai Tonino fino al trasferimento in una delle tende arrivate da Brescia. Le scosse di maggio non avevano reso inagibile la palazzina della famiglia, che sarebbe stata invece demolita dopo quelle di settembre, ma Sandra non volle più salire al primo piano della sua casa («mi portavano da mangiare al pian terreno») e, in generale, per qualche tempo dopo il terremoto preferì tenersi alla larga da quella e da altre abitazioni: «Era come se identificassi il pericolo nelle case». Le tende, invece, piacevano alla piccola Sandra, nonostante quando pioveva vi entrasse l’acqua. «Ho seguito ogni momento della costruzione della tendopoli - racconta -. Forse ero d’impiccio, ma per me era un gioco, una scoperta, l’occasione per fare nuove conoscenze, e i volontari che vi lavoravano erano sempre disponibili e sorridenti. A un ragazzo, Beppe, ho anche scritto per un po’; e lui, gentilissimo, mi rispondeva, nonostante io fossi soltanto una bambina. Insomma, dopo la paura e lo choc ci sono stati anche dei bei momenti e sono quelli che rammento maggiormente, forse anche grazie a un meccanismo psicologico di rimozione. Le mie cose, i miei giocattoli perduti? Non mi importava più di tanto, a Ursinis noi bambini eravamo già abituati a giocare soprattutto all’aperto». Immaginando Sandra - all’epoca «un maschiaccio» - e i suoi amici che, liberi dalla scuola anzitempo, scorrazzano tra le tende in cerca d’avventure o si ritrovano a disegnare tutti insieme in uno spazio appositamente allestito, vien da pensare a quei racconti, a quei film nei quali anche le più immani tragedie vengono trasfigurate dagli occhi dei più piccoli, innocenti e spalancati sul domani. Ma va anche detto - e Sandra lo dice - che non per tutti è andata così: «Io sono stata molto fortunata. Innanzitutto, nella mia famiglia non ci sono stati lutti, mentre persone della mia età hanno perso addirittura i genitori. A Ursinins, infatti, non sono mancati i morti, e nessuno me l’ha nascosto, per cui mi sono resa conto subito della tragedia che il terremoto aveva portato con sè, seppur con la mente di una bambina di nove anni. Così mi porto dietro la paura, ma non la sofferenza per aver perso qualcuno di caro». Un altro elemento di fortuna che Sandra sottolinea ricostruendo la propria vicenda è la tempestività degli aiuti, nei quali peraltro suo padre Giuseppe si è impegnato in prima persona fin dall’inizio (mentre la madre Marta si occupava soprattutto dei figli, sforzandosi di ricreare un’atmosfera domestica nell’emergenza): «Ho avuto il grande esempio dei miei genitori, che si sono rimboccati le maniche». Non solo. Giuseppe Tonino ha trasmesso alla figlia la gratitudine e l’affetto per i bresciani del giornale arrivati a dare una mano e diventati amici veri: «Me li ricordo tutti: Danilo Tamagnini e Franco Solina, Maestrini e l’avvocato Pelizzari...» Addirittura, da ragazzina, Sandra ha sognato un futuro da giornalista. La sua vita professionale, però, è andata in un’altra direzione, non priva di soddisfazioni. Per il resto, l’esistenza di Sandra Tonino è tornata «quasi normale» quando le tende sono state sostituite dai prefabbricati del Villaggio Brescia. E «dalla Scuola media in poi - dice - ho condotto una vita normalissima». Certo percorsa dalla memoria di quei giorni drammatici del 1976, ma non ripiegata su di essa («al mio bambino di sei anni ho spiegato cos’è il terremoto, ma senza fare riferimento alla mia esperienza e senza particolare enfasi»). Oggi è soprattutto una vita felicemente affannata, come quella di molte donne divise tra casa-figli-lavoro. Eppure Sandra non si nega alla richiesta di fermarsi più di un attimo per lasciare liberi quei ricordi terribili e per certi versi gioiosi: la richiesta arriva da Brescia (e da chi - ma lei questo non lo sa - il 6 maggio di trent’anni fa percepì dalla sua cameretta l’eco di quanto lei stava vivendo). |