Ricordo degli scout dell'Agesci: quell'estate in Friuli a recuperare dalle rovine tutto quanto poteva essere utile per far rinascere le case

Chiodi e mattoni per ricostruire

di Paolo Bertoli

 

«Andavamo nelle case lesionate dal terremoto e recuperavamo travi, chiodi, mattoni... tutto quello che era ancora intatto, tutto quello che poteva essere usato nella ricostruzione». L’hanno vissuto così quello scorcio d’estate tra l’agosto e il settembre del 1976, lavorando tra i calcinacci e le macerie, la quindicina di ragazzi e ragazze che formava il clan del gruppo scout Brescia 5.
«L’idea era venuta a uno dei miei capi - ricorda Chiara, allora scolta diciottenne - servivano braccia per aiutare la ricostruzione.

Così ci siamo organizzati e siamo partiti, alla fine dell’estate, una quindicina tra Rover e Scolte (ragazzi e ragazze, ndr), e ci hanno sistemati a Madonna di Buja, in una casa con dietro un grande prato, proprio di fronte alla chiesa». Per due settimane gli scout del Brescia 5 hanno aiutato le famiglie del paese, dando letteralmente «una mano» alle persone che potevano iniziare a ricostruire. «Nelle case completamente distrutte non andava nessuno. In tante altre, anche se danneggiate seriamente, si poteva entrare».

A Madonna di Buja, in quei giorni, le autorità avevano concesso a diverse famiglie di iniziare a lavorare alle proprie abitazioni, «ma c’era da fare tutto. Andavamo in gruppetti di tre o quattro ad aiutare le famiglie. Prima di poter ricostruire bisognava vuotare e recuperare i materiali. Ripulivamo le stanze dai calcinacci, sgombravamo dalle macerie tutto quello che poteva tornare utile: travi di legno, mattoni, pietre. Quanto non era andato distrutto veniva separato, preparato per fare nuovamente da materia prima nella ricostruzione».

Nell’esperienza in Friuli, per i ragazzi bresciani, non c’è stato solo il peso dei secchi di detriti, dei colpi di badile per scoprire un pavimento, una finestra. Ci sono stati quindici giorni a stretto contatto con una popolazione colpita in quello che ha di più profondo, con tante famiglie private della propria casa , con anziani trovatisi soli, senza un tetto sulla testa. «Abbiamo incontrato tantissime persone che nel terremoto avevano perso tutto, ma dal primo all’ultimo sono state molto ospitali verso di noi. Materialmente non c’erano strutture dove si poteva essere accolti, ma siamo stati ospiti della gente, graditi compagni in un lavoro lungo e difficile come quello di ricostruire un paese distrutto».

Nei ricordi di Chiara accanto alla fatica del lavoro, i sorrisi delle persone, «per un paio di giorni siamo andati nella cascina di un contadino che si chiamava Mondo. Nel terremoto aveva perso la sua casa ma anche la costruzione che pazientemente stava recuperando per farne gli appartamenti per i figli che si sarebbero sposati. Noi eravamo così giovani... pensavamo a tutto meno che al matrimonio.

E nelle ore a scavare, a recuperare persino gli spilli, ricordo questo signore che si faceva forza parlando delle gioie della vita in famiglia, del futuro che desiderava per i suoi figli e di quanto fosse importante il nostro lavoro per queste famiglie, che ancora non esistevano, ma che lui già immaginava, già sognava, che nelle sue parole erano davvero reali. In una casa vicino alla nostra una delle poche cose sopravvisute al sisma era un piccolo banano, che il padrone di casa aveva portato da un viaggio. Ogni giorno, a chi passava, offriva una banana, tutto quello che era rimasto della sua casa».

Ma gli scout hanno condiviso anche la paura del terremoto, il 15 settembre alle 15.31. «Ci stavamo riposando, eravamo in cerchio, nel prato dietro la casa. All’improvviso il boato, la seconda terribile scossa che ha fatto cadere le tegole del tetto della chiesa. Ma passato lo spavento ci siamo rimboccati le maniche. Eravamo lì per aiutare».

Paolo Bertoli