Brescia e il suo Giornale in prima linea nel campo dei soccorsi.

II ricordo dell'alpinista Franco Solina: 

le tende, i crolli, la solidarietà. E quel terribile nubifragio...

di  Maurizio Bernardelli Curuz

 

 

State ascoltando Franco Solina (Registrazione maggio 2006 Teletutto)   

Franco Solina osserva le casette della foto qui accanto, linde ma emergenti dal mare di fango, disposte lungo linee ortogonali, come capitava negli accampamenti romani. Ma qui, in questa foto, siamo già a un segmento temporale piuttosto avanzato rispetto ai giorni del primo soccorso, come dire che la fondazione eroica era giù stata compiuta a partire da una mattina del 12 maggio, dopo che nella notte, mentre i nostri camion stavano lì, acquattati, in attesa che la luce riportasse un po’ di ordine tra lo sfacelo delle macerie, il campanile della chiesa era crollato con la stupefacente dinamica di un gioco infantile impilato malamente, lanciando qualche cubo di pietra e qualche parallelepipedo di mattone a una decina di metri dai camion che il Giornale di Brescia aveva lanciato in direzione di Buja.
Tutta la macchina dei soccorsi era stata messa a registro in poche ore, dalla nostra testata, poichè un giornale, è organizzativamente, una struttura complicatissima e flessibile, atta di per sè, ad operare, in modo stupefacente, nella dimensione della quotidiana emergenza; così questa vocazione forniva il prerequisito di una nuova funzione in grado di supportare - e sopportare - nel volgere di un lasso limitatissimo di tempo, un’azione di solidarietà, così vasta e complessa. E poi, da non dimenticare, emergeva, ad alti tassi, il fattore umano, il motore principale di tutta la vicenda. Chi aveva preso in mano le leve del solidale comando aveva vissuto gli anni della guerra e della ricostruzione. E sembrava che quella nuova prova così drammatica, messa in atto dal sisma, fosse, ad un tempo, più tragica e più semplice, nella sua neutralità, di quanto ci si era lasciati alle spalle nel 1945.
Così il direttore amministrativo, l’avvocato Silvio Pelizzari, gentiluomo di poche parole, ma di rara, sensibilissima attenzione al prossimo, aveva deciso che, per quanto un giornale abbia un oggetto sociale diverso da quello del percorrimento di impervie vie di soccorso, fosse necessario fornire alle popolazioni friulane una risposta precisa e decisa, un segnale concreto della profonda, reale condivisione della sofferenza, espressa dai bresciani.
Franco Solina, alpinista e collaboratore del Giornale di Brescia, era stato chiamato da Franco Maestrini, il direttore della tipografia. "Dobbiamo partire" aveva detto Maestrini. Franco, alpinista e scrittore di montagna, aveva accettato senza porre altro pensiero tra sè e la formulazione di un sì convinto, nonostante fosse tornato da poco da un altro viaggio difficile, in Patagonia, dove, con la punta della piccozza, aveva cavato da due bare di ghiaccio, su un monte impossibile, il Fitz Roy, percorso da un vento tormentoso, i cadaveri di due alpinisti precipitati l’anno precedente.
Franco ha ancora negli occhi azzurrissimi la notte acuminata di Buja, dopo sei ore di viaggio che era stato un progressivo addentrarsi in un territorio di case attraversate da crepe, poi da divaricate fenditure, infine coperte da cumuli sui quali svettavano triangoli di malta che tenevano insieme porzioni frantumate di forati.
Ricordo con grande tristezza quella notte, dice Solina. I senzatetto si aggiravano come fantasmi, tra le macerie, per recuperare qualcosa. Era un’immagine davvero impressionante. C’era gente che aveva dormito per alcune notti nell’auto. Nelle case non poteva stare più nessuno. Per fortuna quello era un maggio tiepido.
«Siamo arrivati cinque giorni dopo il sisma, l’11 maggio, un martedì sera. Abbiamo riposato un po’ nel camion e la mattina successiva, alle prime luci dell’alba, è iniziato il lavoro di scarico del materiale: tende, letti, materassi e coperte, che, in così pochi giorni, grazie alla solidarietà catalizzata dal Giornale di Brescia, eravamo riusciti a recuperare. Trovammo la popolazione ancora spaventata, ma già attraversata dal grande desiderio di cancellare quant’era successo. Era stupefacente l’atteggiamento di quella gente, che aveva perso la casa e il lavoro e che si proiettava già verso il futuro della ricostruzione, accelerando i tempi. Buja era una cittadina di 6.500 abitanti. Le persone che erano morte a causa del sisma erano 46, una delle quali era di Ursinins Piccolo, la frazione alla quale fummo assegnati dal Consiglio comunale, anch’esso dislocato sotto una tenda».
Un trattore - forse una ruspa? - spianò un campo. E lì fu deciso che, con rapidità, fossero infissi i picchetti, srotolate e tende, montate le strutture metalliche.
Al lavoro partecipavano anche le donne anziane. Gran silenzio, rumore di martelli e picchetti. L’operazione sembrava positivamente compiuta - il campo venne dotato anche di servizi igienici e di un’ampia cucina in grado di sfamare una Compagnia - quando giovedì il cielo si fece scuro, le nubi scesero a capofitto a tagliarsi il ventre sulle macerie così che, nel volgere di pochi minuti, uno spaventoso nubifragio, reso violentissimo dall’accumulo del materiale finito nei torrenti - che limitava il naturale deflusso, fino all’ingorgo, lanciando poi uno schiaffo d’acqua esplosiva giù per le pendici dei colli - portò quantità spaventose d’acqua sul campo. Le tende furono abbattute.
«In quel momento - dice Solina - stavamo consegnando le coperte in una frazione vicina. L’acqua che picchiava violentemente sui tetti e che mitragliava gli infissi provocava il crollo dei cornicioni. Corremmo giù verso il campo; pensammo subito che tanta acqua avesse creato qualche problema alle tende. Purtroppo era peggio di quanto avessimo immaginato. Fu un brutto colpo. Il nostro lavoro era stato annullato. La mattina successiva dovemmo ripartire da capo. Eravamo bagnati, stanchi, al limite della disperazione. È stata veramente una grande botta. Ma la gente non stava con le mani in mano. Tutti lavoravano, lavoravano, in continuazione. Erano instancabili. Anche le donne, quelle anziane, che portavano ancora il fazzoletto annodato in testa, non riposavano mai. Parlavano poco e lavoravano».
«Franco Maestrini, il direttore della tipografia, era il nostro comandante. Riceveva ordini e indicazioni dal direttore amministrativo, l’avvocato Pelizzari. A sua volta, Maestrini avanzava richieste di materiale al giornale, che era divenuta una centrale operativa efficientissima. Maestrini mi aveva scelto per le mie esperienze alpinistiche. Sapevo come montare rapidamente le tende, avevo maturato una resistenza spaventosa alla fatica. Ho trascorso in questo modo, tre settimane circa. Poi sono tornato a Buja, ripetutamente nei fine settimana. C’erano nuovi carichi da portare, nuove azioni da svolgere».
Nel volgere di un mese, a metà giugno, nella frazione di Buja, che era stata adottata dal Giornale di Brescia, si passò alla fase successiva, quella dei prefabbricati in legno forniti dalla «Pasotti». Il 12 luglio il villaggio venne inaugurato.
Quando si va a Buja, dice Solina, è come tornare a casa. È rimasto un rapporto molto forte.

Le situazioni estreme creano amicizie destinate a durare.