«La prima tendopoli, in tutto il Friuli, fu la vostra, furono le tende del "Giornale di Brescia".
Così la prima scuola, il primo ambulatorio. Noi non dimenticheremo mai la generosità dei bresciani. Non vi dimenticheremo mai».
Siamo a Ursinins Piccolo, frazione di Buja. Il bar si chiama Ics, come l’ora Ics, come l’ora della guerra. Il terremoto fu un atto di guerra della natura. Nessuno si vergogna di piangere, nessuno si allontana dallo stupore di noi bresciani, giovani e anziani, la ragazza del bar, il sindaco di allora, Eddi Giacomini, che ci sta raccontando i primi minuti del terremoto, il sindaco di oggi, Luca Marcuzzo, che il 6 maggio 1976 aveva appena compiuto gli 11 anni.
«Avevo 42 anni - spiega il primo cittadino del terremoto - nel 1977 mi sono ammalato. La tensione, il dolore, ho scelto di abbandonare».
Il terremoto ha ucciso subito, ha ferito subito, ha ferito per gli anni a venire, nel corpo e nella mente. Il sindaco Giacomini anima la memoria, i minuti escono con la polvere, il buio, il tremore, il boato, la morte, la corsa nella notte.
«Eravamo diversi sindaci dell’area pedecollinare - racconta il sindaco di allora, Eddi Giacomini - eravamo riuniti nella sede della Democrazia Cristiana di Maiano, 6 km da Buja. Ad un tratto siamo travolti da due botti, come due bombe. La maggior parte di noi pensa a un attentato. Siamo nel 1976, gli attentati sono all’ordine del giorno. Un altro, invece, intuisce che è il terremoto. Usciamo dalla sede a tentoni e siamo investiti da una nube. È l’onda di ritorno della polvere causata dal crollo dei condomini. Ognuno cerca la macchina, ognuno punta verso casa. Di chiaro esiste soltanto la luce dei fari. Raggiungiamo il nostro paese, entrando a caso nei terreni della campagna. Al buio, le case sembrano in piedi. Nel centro di Buja, troviamo le prime macerie, i primi morti per terra. La mia casa è in collina, prego Dio che mia moglie e i figli siano vivi, magari feriti ma vivi. Stanno bene, ringrazio il Cielo mentre li stringo forte. Dormiremo in macchina, più tardi, un paio di ore».
Il sindaco è un sindaco soprattutto nei momenti dell’emergenza. Giacomini contatta i carabinieri, riunisce la Giunta e i consiglieri. Il primo Consiglio comunale è nella casa dell’Arma. L’acqua corrente e la luce sono perse, dai carabinieri, inoltre, funziona il telefono. I soccorsi sono più rapidi delle decine di scosse di terremoto. Non si capisce da dove arrivino. Un’umanità varia supera i valichi austriaci e sloveni, sale dalle città del Veneto, della Lombardia, del Piemonte, da tutta Italia. Presto, la sala del Consiglio si trasferisce in una grande tenda in mezzo alla piazza. Dopo 4 giorni, una sera arriva lo squadrone del Giornale di Brescia. Qualcuno dice dal camion: «Noi siamo pronti per una tendopoli...». Questi li manda il Signore, ci siamo detti subito, io e altri consiglieri comunali. Da quell’istante è nata un’amicizia che dura nel tempo».
Trent’anni dopo, noi che eravamo nelle nostre contrade del Bresciano, che pensavamo a Buja e a Gemona, a Osoppo, a Maiano come ai luoghi della più aspra delle disperazioni, oggi siamo accolti come fossimo ancora gli uomini di allora, come fossimo Maestrini, Solina, Arrighini... Capiamo profondamente come chi è stato prima di noi abbia fondato i luoghi in cui stiamo, conosciamo sul versante del terremoto, il senso della tradizione, il valore del vissuto umano e professionale nei posti della sfida contro la morte. Non c’entra la retorica, c’entrerebbe il cinismo se non fossimo orgogliosi della gratitudine friulana guadagnata dal milione di gesti e dal fiume di parole dei Berti e dei Tamagnini, dei Franceschetti, di tutti gli altri nostri amici e colleghi. Rileggere le cronache di quei giorni aiuta a comprendere il miracolo di una ripetizione della storia che diventa continuamente sorpresa e da tale viene affrontata. Sorprendente fu la violenza del terremoto del Friuli e sorprendente fu la risposta di un bene che si mosse prepotentemente, in modo inversamente proporzionale al terremoto.
Mille morti giacevano nel catino della pianura su un raggio di 20 chilometri. Mille morti e decine di migliaia di sopravissuti, migliaia ritrovati anche 20 giorni dopo sotto le macerie.
L’epicentro fu nel cuore del monte San Simeone. Lo osservi per minuti e minuti, di fronte, sul piano alto di Buja. È un monte di poche centinaia di metri, a forma di pera. A quest’ora, a mezzogiorno, è di colore blu. Qualcuno sostiene che il San Simeone inquieta anche a non sapere che lì fu l’origine del terremoto. Nel 1513 ci fu un terremoto di questa intensità. Questa è una terra con dentro un destino arduo. Ma su questa terra, la gente addenta le radici, si incatena all’origine. L’identità è nella resistenza agli strappi dei terremoti.
Il sindaco di oggi, Luca Marcuzzo, era un bambino. Gli chiedo cosa gli viene in mente. Risponde: «Tutto». Sentite: «Stavo vicino a casa, appeso alla ringhiera della trattoria "Da Rita". Seguivo le gare di bocce in notturna. Ad un certo punto un frastuono, sparisce la luce, crolla una casa vicino. Tutti scappiamo verso le nostre case, si corre e ci si chiama, «dove sei?», «stai bene?...». Si saltano i muri, si calpestano gli orti...».
Ognuno spinge le mani e le gambe nel buio, da battere è il buio, il niente, l’ignoto, il terrore che oltre non ci sia più quello che c’era: il padre, la madre, la moglie, i figli, la casa. Il terrore che il Cielo sia caduto in terra e tutto rovini per un tempo senza tempo.
Gli sguardi e il suono delle parole si armonizzano e si traducono in pellicola. I sindaci proiettano la tragedia: le vedi le 6mila e 600 anime di Buja in preda al panico, le anime di un Friuli in viaggio da secoli per il resto del mondo, in Venezuela, in Argentina, in Uruguay, in Svizzera, in Francia.
Il terremoto del 6 maggio 1976 ha vomitato rabbia nel momento del riscatto di questa terra del Friuli, mentre le rimesse di migliaia di migranti avevano formato la forza per resistere al tempo della miseria e vedere l’arrivo delle fabbriche nella piana di Buja. Il ritorno dall’esilio. L’emigrazione si stava dimettendo e il terremoto esigeva che si riprendesse la strada per camminare lontani.
I sopravvissuti, subito, avevano alzato lo stendardo degli avi, lo stendardo della riscossa: «Buja, nessuna paura». Scritto in ladino, nella lingua delle madri. Cioè, noi stiamo qui, che la terra tremi, noi non ci muoviamo, noi ricostruiremo.
Noi vivremo qui.