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Il Friuli secondo Pasolini:

Lingua, Poesia, Autonomia

di Gianfranco Ellero

 

Vedi anche "A scuola di  storia friulana"  di Deborah Crapiz

 

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traccia della lezione tenuta il 9 dicembre 2004 da Gianfranco Ellero

per gli insegnanti dell’Istituto Comprensivo di Buja

 Il prof. Gianfranco Ellero, che ha tenuto il corso per insegnanti, ha gentilmente concesso la pubblicazione dei suoi appunti, la cui lettura è indubbiamente interessante non solo per chi voglia rielaborarne i temi dentro le aule scolastiche, ma anche per chi ama approfondire la conoscenza dell’ identità storica e culturale della regione in cui viviamo. In queste pagine è riportata la traccia dell’introduzione all’ultima lezione, avente per argomento “Il paesaggio friulano nella letteratura popolare e nella letteratura d’autore”. Essa è stata preceduta da altri quattro incontri, sempre di  carattere storico, geografico, linguistico e letterario, aventi per titolo: “Confini”, “Dalle prime popolazioni alla nascita del Friuli sotto i Longobardi”, “Origine della lingua friulana e testimonianze linguistiche lasciate dai popoli invasori”, “Scambi culturali tra regioni”. Come testimoniano le impressioni raccolte tra alcune insegnanti che hanno partecipato al corso, anche nello stralcio sotto riportato interdisciplinarietà, efficacia e leggerezza comunicativa si intrecciano a reciproco vantaggio per una trattazione che crea l’aspettativa di ulteriori approfondimenti. 

 (M.C.)

 

Dopo quattro lezioni “pesanti”, possiamo concludere con una lezione “leggera”, impostata sulla ricerca del paesaggio (fisico, storico e umano) del Friuli nella letteratura popolare e in quella d’autore. Leggera non significa tuttavia di evasione o poco importante, perché si tratta della “chiave di volta” dell’arco che mi sono sforzato di costruire in questo corso.

Andiamo a prendere le mosse da una indispensabile premessa.

L’Italia è un meraviglioso mosaico di regioni storiche e subregioni (la Carnia, la Tuscia, il Salento, la Garfagnana, la Lomellina, l’Irpinia, il Sannio…) con radici antiche, dotate di forte e riconoscibile personalità, parlanti lingue regionali o dialetti con base latina ma piuttosto distanti fra loro.

Erano tante “patrie”, in senso medioevale, cioè piccole, che in un certo momento furono politicamente riunite in una sola grande “patria” in senso moderno, cioè grande.

Le regioni unite nel 1861 (17 marzo, proclamazione a Torino del Regno d’Italia), erano in realtà, o erano state fino a pochi anni prima, “stati regionali”, definiti di solito “staterelli” nei manuali in uso nelle nostre scuole. Avevano quindi, o avevano avuto, legislazione, monete, eserciti, culture e mentalità diversi, al punto che alcuni risorgimentali, come Carlo Cattaneo (e lo stesso Cavour, se non fosse morto troppo presto) pensavano a uno stato federale o, in ogni caso, a una struttura fortemente decentrata.

Non furono ascoltati, perché i più temevano - e il loro timore è un riconoscimento della forza delle regioni o staterelli preesistenti - temevano che le forze in campo fra regioni tanto diverse finissero per essere repulsive!

L’Italia fu, di conseguenza, uno stato fortemente accentrato e “nazionale”, organizzato secondo una formula che causò, a mio avviso, danni incalcolabili, il primo dei quali fu la diffusione e il radicamento di una mentalità nazionalistica basata sulla retorica, cioè, sostanzialmente, sulle bugie. Augurandomi di essere ben capito, dirò che la prima bugia consiste nell’affermare che l’italiano è la lingua dell’Italia: si tratta, in verità, di una lingua regionale o dialetto, trasformata in lingua o dialetto di prestigio dai tre grandi toscani del Trecento (Dante, Petrarca, Boccaccio), imposta per ragioni politiche, fra le quali spicca la convenienza economica, a tutte le regioni unificate nel 1961 e più tardi. E’ difficile negare la necessità e la convenienza dell’unione nazionale, necessaria oltre tutto per non fare la fine dei vasi di creta fra i vasi di bronzo in un continente ormai dominato da grandi stati nazionali, ma certo è da deprecare il modo anticulturale e antistorico con il quale fu perseguita l’unità.

Un solo esempio. Nel 1892 “Il Secolo” di Edoardo Sonzogno pubblicò un inserto dedicato a Udine. Se andate a sfogliarlo, potrete leggere un passo del giornalista A. Purasanta, il quale scrive che nonostante la guerra che gli si muove nella scuola, nell’esercito, nella burocrazia e nelle famiglie, il friulano è ancora parlato da circa settecentomila persone.

Lo stato, ben prima del fascismo, faceva dunque la guerra ai dialetti, o lingue regionali che dir si voglia, e ha continuato anche dopo il fascismo, anche dopo l’entrata in vigore della costituzione repubblicana, che conferì dignità giuridica pubblica alle antiche regioni storiche della penisola. Perché, direte voi? Perché la mentalità o abito mentale è difficilissimo da abbandonare, e finisce per affermarsi come moda. Ricordate e meditate il proverbio inglese: “Jack sarebbe un gentiluomo se parlasse francese”!

La guerra ai dialetti, sia detto per inciso, perché l’argomento meriterebbe adeguato spazio, si traduce in una grave perdita culturale e nella paradossale convinzione che sia meglio il monolinguismo (“italiano televisivo”- lo definì Pasolini) in un mondo che tende fatalmente al plurilinguismo. A questo punto molti ignoranti diranno: d’accordo, ma allora bisogna imparare le lingue utili, cioè più parlate nel mondo, non sapendo: a) che l’italiano è fra le lingue meno parlate; b) che le piccole lingue sono come gli attrezzi da palestra: servono per fare ginnastica linguistica, utilissima per dilatare la “materia grigia”, e aprire finestre su molte culture; c) più lingue si conoscono (grandi o piccole non importa, ma ormai tutti gli europei conoscono almeno una lingua grande) e più facile diventa l’apprendimento di una nuova lingua, specie se affine (come il catalano nei confronti del friulano), perché la nostra mente non è una valigia, cioè uno spazio chiuso e non dilatabile.

Ebbene, nonostante la guerra ai dialetti, e la sottovalutazione di tutto ciò che è regionale o, peggio ancora, provinciale, le regioni storiche sopravvissero e dimostrano ancora un’insospettata vitalità (basta saperla vedere, e non scambiare per “italiano” ciò che è “toscano” – perché generato da quella regione storica – “veneto”, “pugliese”…).

Ma da un certo giorno, ammonisce Pasolini dalle pagine del “Quaderno romanzo” del giugno 1947, gli abitanti delle regioni dovranno fare una scelta fondamentale. Ecco le sue parole testuali:”Il Friuli è sul punto – ora – di passare dall’essere al dover essere, e questo senza tradire la sua naturalezza (la naturalezza, per intenderci, dei gelsi, delle acque), senza rifiutarsi alla sua imperfezione vitale.”

Pasolini, impegnato nella battaglia autonomistica dall’autunno 1945, capiva che fino a quel giorno –poniamo, simbolicamente, il 1° gennaio 1948, data dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana – si nasceva naturalmente friulani (se ripenso a Frofeàn nella mia infanzia, sento soltanto parole friulane da tutte le labbra): si era, quindi, friulani non per scelta, potremmo dire per natura. Ma da quel giorno, e il monito vale per tutti gli abitanti di tutte le regioni storiche, sarebbe stato necessario scegliere. Fino a quel giorno si nasceva friulani per caso; dopo quel giorno si sarebbe diventati friulani per scelta, per adesione, decidendo di essere quindi diversi dai vicini, in un mondo dominato da forze che spingono verso l’uniformità!

Naturalmente nella sua visione (e anche, modestamente, nella mia) non c’è spazio per una chiusura difensiva a protezione della tradizione, che sfocerebbe nella xenofobia, e dunque in un movimento contrario alla tradizione (il Friuli è sempre stato aperto, accogliente, tollerante pur rimanendo se stesso): rimanere se stessi significa allora soltanto avere la capacità di coniugare tradizione e modernità, senza rifiuti e chiusure.

È, anzi, con consapevolezza che i prodotti regionali, quando valgono, sono universalizzabili. Lo Champagne è un vino famoso in tutto il mondo, ma si tratta di un prodotto della Champagne, regione della Francia. La grappa friulana, prodotto perdente se presentato nell’ambito del folklore contadino (bottiglioni da due litri, etichette inadatte, vinacce miste), è diventata vincente ed esportabile nel giro di trent’anni (bottiglie eleganti in confezioni di lusso, etichette firmate, vinacce di un solo vitigno).

Anche il friulano (lingua) diventa esportabile, per esempio nelle Università del mondo, se un friulano (uomo) riesce a rivelarne le bellezze glottologiche (Ascoli) e le possibilità poetiche (Pasolini).

Per capire l’autonomismo di Pasolini, in polemica con le destre, contrarie alle autonomie regionali, ma anche con i suoi compagni comunisti, contrari, ma per altri motivi, all’autonomia del Friuli, e con gli stessi democristiani, che volevano l’autonomia ma in chiave conservativa, non evolutiva, bisogna ricordare che lui chiedeva l’autonomia per ragioni essenzialmente glottologiche (“Libertà”, Udine, 6 novembre 1946: “Che cos’è dunque il Friuli?”), specificando che “non c’è nulla di più scientifico [e quindi certo] della glottologia”.

Il Poeta di Casarsa affermava, in buona sostanza, che il Friuli esisteva perché c’era la lingua friulana (“specchio discretissimo dell’anima di un popolo”), e se esisteva aveva diritto ad autoamministrarsi. La prova glottologica valeva dunque più delle convenienze politiche ed economiche. Ma così dicendo si poneva automaticamente in polemica con la Società Filologica Friulana, rea, ai suoi occhi, di tener bordone a poeti di poco talento, che usavano la lingua come un dialetto ad imitazione di Pietro Zorutti.

Ora, se noi ricordiamo che non esistono differenze strettamente linguistiche fra lingue e dialetti, e che i dialetti o lingue minori possono essere promossi al rango delle lingue maggiori da vari fattori extralinguistici (come l’autonomia del loro processo formativo, il riconoscimento statale, la coscienza dei parlanti…) e anche dalla buona o ottima letteratura, è naturale che Pasolini fosse critico nei confronti di una Società che promoveva una letteratura scadente, che devitaminizzava la lingua anziché vitaminizzarla.

Occorreva, in conclusione, un’ottima letteratura per rafforzare e rivitalizzare la lingua friulana, e con la lingua il diritto all’autonomia.

Sarebbe per me un gran vanto se riuscissi a far capire la portata della tesi pasoliniana anche a persone che non hanno una preparazione specifica (1).

Segue la trattazione del tema: “Letteratura popolare e letteratura d’autore”


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(1)  Su questo tema, ancor oggi di grande attualità, si veda: G. Ellero, Lingua Poesia Autonomia, Istitût Ladin-Furlan “Pre Checo Placerean”, 2004