DIARIO DI UN VIAGGIO IN INDIA - Capitolo 4
Martedì 23 gennaio 96 Ho passato una notte terribile, credo di non aver chiuso occhio a causa del generatore, che ha ripreso alcune volte a funzionare a seconda dell’erogazione della corrente. Dopo aver fatto colazione con il Vescovo Jogi, verso le nove siamo ripartiti. Siamo passati per una miriade di paesini, quindi abbiamo attraversato un centro abbastanza grosso dal nome Paloncha; il paesaggio era molto più verde rispetto al giorno precedente, inoltre abbiamo cominciato a vedere vaste coltivazioni di tabacco, cotone e molte risaie. A un certo punto abbiamo trovato la strada sbarrata da una stanga, come nei passaggi a livello, accanto c’era un uomo seduto su una sedia che l’alzava e l’abbassava, per lasciare passare chi ci transitava dopo il pagamento di alcune rupie. Per manovrare la stanga, l’addetto seduto su una scassatissima sedia., usava una cordicella attaccata alla punta; la cosa, a nostro modo di vedere, era molto comica. Ci è stato spiegato che in India quando servono soldi per asfaltare, o riparare una strada si mette una fermata come quella descritta e al raggiungimento della quota, si eseguono i lavori. Dopo aver passato Bhadrachalam è iniziata la foresta, la strada si apriva in un budello fatto di verde e alberi, diverse volte abbiamo notato gruppi di scimmiette ai bordi delle strada, che non erano per niente intimidite dal nostro passaggio, mi è stato sconsigliato comunque di scendere dalla macchina per fotografarle in quanto, nel migliore dei casi possono essere molto dispettose. A Bhadrachalam ci siamo fermati presso una scuola cattolica, i bambini, tutti in divisa celeste e cravatta, ci hanno fatto una gran festa, Redento lo avevano preso per un Monsignore e dopo un po’ ha commentato “se chi al ven Ariedo lu cjapin sigûr par un Vescul”. Mi sembra di non aver mai parlato del fatto che il cenno di assenso, che noi facciamo dondolando la testa dall’alto in basso, in India al contrario viene fatto dondolando la testa lateralmente. Abbiamo poi proseguito per una località posta a metà strada fra Bhadrachalam e Konta dove, con l’aiuto delle Frecce Tricolori, è stata costruita una struttura che funge da scuola e raccoglie una sessantina di bambini, tutti adottati a distanza dall'Italia. Siamo quindi ripartiti e, dopo aver percorso circa 5 Km di strada sterrata, siamo giunti ad una radura dove sorgeva un villaggio; poco lontano iniziava un tratto montuoso tutto ricoperto dalla vegetazione. Gli abitanti del posto sono chiamati “Tribali” e il nome ne rispecchia l’indole, alcuni abitano infatti nei pressi della scuola, altri invece vivono nascosti in capanne fra i monti, vivono di caccia e di quello che offre la natura, raccolgono il miele e si fanno vedere solo quando devono barattarlo con il riso. Gianandrea ci ha raccontato che lo stato indiano ha costruito cinque anni fa, ai limiti di un bosco, una quindicina di casette (stanzoni a forma di cubo in cemento) nella speranza che queste persone lascino la montagna, ma le difficoltà sono enormi e solo due famiglie finora lo hanno fatto. Settimanalmente due suore raggiungono questo luogo e abitando per due giorni in queste casette, tentano di avvicinarli. Per quanto abbiamo visto finora, sono convinto che non ci siano riconoscimenti o medaglie al mondo che possano premiare l’operato di queste suore e questi sacerdoti; operano in luoghi che non avrei mai potuto lontanamente immaginare, nonostante Gianandrea ce ne avesse più volte parlato; sopportano ogni giorno i disagi con una forza che solo una grande fede e amore per il prossimo possono dare. Una delle due famiglie che abitano in queste casette, l’abbiamo conosciuta, fotografata e rifornita di rupie. Parlano una lingua diversa da quella locale (Talogu) che è incomprensibile a tutti, ad eccezione di alcuni vocaboli; sono timidissimi, infatti quando mi sono accostato a una donna per farle una foto, questa si è lentamente andata a nascondere dietro il marito. Sono di piccola statura, comunque non diversamente dalla media degli indiani, e hanno i lineamenti molto pronunciati. La donna portava degli orecchini appesi al naso, ma quello che mi ha colpito maggiormente però era la pianta dei loro piedi, molto più larga del normale a causa del camminare scalzi sul suolo accidentato. Dall’auto abbiamo potuto vedere un giovane che stava cacciando ai bordi del sentiero con l’arco in mano e mi rammarico di non essere riuscito purtroppo a fotografarlo. Poco distante sorge un villaggio “tradizionale”, ci siamo avvicinati a piedi seguiti a una ventina di metri da una decina di bambini, due maschietti più coraggiosi si sono avvicinati a una distanza massima di tre metri. Alcune donne si sono lasciate fotografare e dopo laute mance abbiamo potuto persino entrare in una capanna. Contrariamente a quanto si presuppone guardando dall’esterno, l’interno è pulito, non solo, ma il pavimento è rialzato rispetto al terreno ed è di una compattezza da sembrare di cemento invece che di terra battuta. L’interno della capanna è spoglio, ad eccezione di qualche arnese attaccato alle pareti, c’è un giaciglio e una macina fatta con una pietra rotonda con foro centrale per introdurvi le sementi da macinare e una leva decentrata, che serve a farla ruotare. na persona che stava vicino a noi ha portato alla bocca una foglia arrotolata malamente, dal colore verde e l’ha accesa; peccato che ho smesso di fumare, altrimenti avrei certamente chiesto di provare il curioso sigaro! In questi villaggi dell’interno gli uomini portano ancora uno straccio per coprire i genitali, a differenza dei villaggi in cui si usano ormai abitualmente camicia e pantaloni. Ad eccezione delle rupie, che conoscono visto che le hanno accettate di buon grado, non credo che la loro vita si discosti molto da quella di mille o duemila anni fa. Appena fuori dal villaggio, nel prato, c’era una capanna molto piccola e malridotta, alta non più di un metro e mezzo, che ci è stato detto essere il luogo dove si ritirano le donne quando devono partorire; se ci penso mi si drizzano i capelli! Siamo quindi rientrati alla scuola e dopo aver pranzato i bambini hanno eseguito alcune danze in nostro onore, che a differenza di quelle che avevamo visto il primo giorno, molto dolci, erano moto più ritmate e “primitive” e rispecchiavano l’indole di queste popolazioni. Alle due e trenta del pomeriggio siamo ripartiti per Vijayawada, dove risiede la base principale di Gianandrea. Abbiamo così percorso 250\300 Km, alla velocità massima consentita dalla strada, 50 Km orari, per fortuna il paesaggio è quanto di meglio gli occhi possano vedere. Un viaggio massacrante, un continuo salterellare sul sedile, durato sei ore, fra continui scossoni, decine di camion e poi carri trainati da buoi, centinaia di biciclette, gente a piedi, mandrie di bufale, di capre, che si incrociano rallentando e talvolta bloccando la marcia, soprattutto nell'assoluta mancanza di regole stradali che rendono il viaggio ancora più avventuroso. Quando ad esempio si incrocia un veicolo, si ha la sensazione di essere vicini ad uno scontro frontale, solo all’ultimo momento infatti, entrambi i guidatori si schivano, uscendo dalla carreggiata che non è sufficientemente larga a tenere entrambi i veicoli. Fra l’asfalto e il terreno spesso poi c'è un buco, dovuta allo smottamento della carreggiata. Al sopraggiungere del buio abbiamo potuto notare che, mentre le biciclette circolano del tutto senza fanali, i camion sono privi delle luci posteriori e se a questo si aggiunge il malvezzo di inserire gli abbaglianti quando ci si incrocia, si può intuire quanto potesse essere avventuroso questo viaggio! La segnaletica poi manca del tutto ed è quindi sconsigliabile addentrarsi all’interno senza conoscere, oltre all’inglese, le lingue locali. Nelle città non esistono regole, per fortuna le velocità consentite sono basse; negli incroci ad esempio, passa prima chi arriva prima, ci si regola comunque a colpi di clacson e stranamente, benché il traffico sia caotico, non ci sono ingorghi, difficilmente ci si ferma per più di qualche secondo e sovente capita di passare in mezzo a due auto che vanno in senso inverso. Nonostante ciò non ho mai visto nessuno litigare. Siamo arrivati a Vijayawada alle nove di sera, io e Redento non riuscivamo a capacitarci di come avesse potuto Gianandrea, alla sua età, resistere a un viaggio di quel genere. Alle dieci siamo andati a cena, tutto era molto piccante come al solito, a Mirella piace, mentre a noi due i sapori sembrano tutti uguali, sia che si mangi pesce, montone, pollo, o altro si sente solo bruciore in bocca.....
Eravamo alloggiati in un hotel gestito da mussulmani, in quanto il migliore della città era già tutto occupato, il servizio, nonostante Gianadrea avesse fatto il possibile, era alquanto scadente. |