DIARIO DI UN VIAGGIO IN INDIA    -     Capitolo 8

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Sabato 27 gennaio 1996

Alle cinque del mattino abbiamo preso il taxi che ci ha portati dove risiede Madre Maria Teresa; l’edificio è posto in un’arteria stradale principale rumorosissima e dall’esterno si ha l’impressione che l’edificio a tre o quattro piani, sia piuttosto un capannone che un convento, i muri esterni sono scuri di smog, come tutti gli altri del resto. 

Abbiamo bussato alla porta, una suora molto giovane è venuta ad aprirci, ci ha fatti gentilmente entrare e accompagnati al piano superiore. (Un cartello vietava di fotografare) Siamo poi entrati in uno stanzone largo una decina di metri e lungo una trentina, cioè quanto tutto l’edificio, era completamente vuoto eccetto un altare posto nel centro. 

Non c’erano sedie, ma a terra erano sistemati dei teli dove centinaia di suore che a me sembravano tutte molto giovani, stavano pregando sedute a terra, scalze, a gambe incrociate.

Ogni tanto una suora molto anziana, a cinque metri di distanza alla nostra sinistra, pregava in inglese a voce alta seguita dalle altre come stessero recitando un rosario. La suora era bassa di statura e solo molti minuti dopo, a messa iniziata, ho capito che era proprio Madre Teresa di Calcutta, questo è successo perchè il suo aspetto attuale è più in carne di quello delle foto che solitamente la vedono ritratta. 

La messa era in inglese e la concelebrava un sacerdote bianco, le preghiere dopo la messa sono continuate fino alle otto circa, quindi tutti sono usciti, ad eccezione di Madre Teresa che assieme ad un altra suora anziana, che si notava dalle altre per la carnagione bianchissima, ha continuato a pregare.

Fuori dallo stanzone c’era un ballatoio largo circa un metro che seguiva la stanza per circa tutta la sua lunghezza e che portava alle stanze laterali dell’edificio. Fuori dalla porta che immette allo stanzone, c’era una semplice panchina in legno e accanto una sedia. Io e Redento ci siamo seduti su quella panchina in attesa di veder uscire Madre Teresa per poterla salutare, nel frattempo abbiamo potuto osservare quanto accadeva nel cortile sottostante.

Sul pavimento, tutto in cemento, numerose suore stavano lavando dei panni, nel modo che avevamo visto altre volte fare e cioè sbattendo a terra e strizzando i capi fra i piedi, in una posizione che per noi sembrava scomodissima, il tutto veniva effettuato ritmicamente e naturalmente pregando.

Ad un certo punto abbiamo visto Madre Maria Teresa uscire sul ballatoio e, rivolgendosi verso una statua della Madonna posta in un punto del cortile, ha incominciato a pregare a voce alta: tutte le suore che stavano lavorando si sono fermate e, rivolgendosi anch’esse alla Madonna, l’hanno seguita nella preghiera, quindi è rientrata nello stanzone che funge da chiesa, si è rimessa in posizione joga e ha ripreso a pregare.

Nel frattempo accanto a noi si era seduta una terza persona, probabilmente inglese o statunitense; sono passati ancora pochi minuti e Madre Teresa è uscita dalla stanza, ha preso la sedia posta accanto a noi e si è seduta proprio di fronte a noi tre, ci ha dato la mano e si è messa a parlare con il signore (seduto accanto a me) in inglese. Quindi rivolgendosi a noi due, con la sua voce molto bassa e roca, per ben due volte “si è scusata” di non saper parlare l’italiano.

Le sensazioni che si provano nell’avere di fronte questa persona così fragile, che in poche decine di anni ha realizzato cose inimmaginabili, non si possono descrivere. So solo che nel vederla seduta davanti a me così piccola e scalza, con i piedi deformati e sapere di avere lì, a trenta centimetri, il volto sorridente dell’artefice di quanto vedevo attorno a me mi ha fatto venire un nodo alla gola.  

Ricordo di aver pensato, mentre parlava con l’uomo seduto accanto a noi, che se ai due Vescovi conosciuti alcuni giorni prima avevo, come da prassi, baciato l’anello, a lei potevo tranquillamente baciare i piedi. Al momento di salutarla mi sono inginocchiato e le ho baciato la mano e così pure ha fatto Redento.

Con Lorenza siamo andati quindi a visitare l’orfanotrofio, gestito dalla compagnia di suore di Madre Maria Teresa, che è posto sempre sulla stessa via, a poche centinaia di metri più avanti.

Appena entrati una marea di bambini ci ha assalito e tutti volevano essere presi in braccio; per me è stato scioccante e a un certo punto mi sono come bloccato. Continue domande cominciavano a martellarmi la testa, domande che non avevano risposta e così incominciavo a fare paragoni fra la nostra società opulenta e sprecona e la realtà che avevo sotto gli occhi. 

Bisognerebbe andare più spesso “a vedere”, perchè solo così si può capire e trovare l’incentivo per fare qualcosa. Chi non vede con i suoi occhi difficilmente riesce a capire.

A un certo punto mi è venuta voglia di uscire da quel luogo, quello che vedevo mi faceva soffrire troppo, e avrei voluto togliermi dalla testa quella realtà e far finta che non ci fosse. 

Abbiamo visto dentro l’asilo un bambino che, disteso a terra, sembrava giocasse con le braccia alzate verso il cielo, era cieco e uno stuolo di suoi coetanei giocava intorno a lui e ogni tanto lo scavalcava, cercando di evitarlo. Redento mi ha detto “guardalo” ma non gli ho risposto, mi sono girato per non farmi vedere con le lacrime agli occhi e un nodo alla gola che mi impediva di parlare.

A questo punto è arrivata Lorenza che ci ha chiesto se volevamo andare a vedere al piano superiore il reparto destinato ai bambini deformi. Io ho rifiutato senza il minimo dubbio e così anche Redento; Carlo invece si è avviato con Lorenza, mentre Mirella, pure lei molto scossa dalla visita all’orfanotrofio, non riusciva in certi momenti a trattenere le lacrime.

Verso le dieci, dopo esserci consigliati dalle suore, abbiamo traslocato dall’albergo dove avevamo appena passato la notte e ci siamo spostati in un altro, posto proprio a un centinaio di metri dalla casa madre di Madre Teresa; il nuovo albergo era comunque di poco migliore all’altro. 

Nel pomeriggio abbiamo visitato il monumento Victoria Memorial costruito da un Vicerè Inglese agli inizi del secolo, poi in taxi siamo andati al gigantesco ponte di Howrah lungo 450 mt in un unica campata e che è l’unico che unisce la città (di 10 milioni di abitanti) tagliata in due dal fiume Hooghly.

Quindi siamo andati a visitare una mostra di tessuti, all’incirca come una mini “Casa moderna” dove si paga l’ingresso. Sono rimasto colpito dalla biglietteria, apparentemente era come le nostre, ma a guardarci bene il foro, a U rovesciata del vetro separatore era a taglio vivo. 

I prezzi erano molto bassi se raffrontati con la nostra moneta; io ho acquistato un “Pangjab” che sarebbe il vestito classico indiano, ai nostri occhi sembra un pigiama e mi sono accorto poi che ai pantaloni mancavano dei bottoni. 

Lorenza mi ha spiegato che la cosa è abbastanza normale in quanto così costano meno. 

A poche decine di metri dal monumento, oltre la piazza, c’erano gli attracchi ai “vaporetti “ che navigano il fiume Hoogly. 

Noi dapprima avevamo pensato di prenderne uno e fare un giro turistico della città, poi, dopo aver visto la gran massa di gente che ci viaggiava, abbiamo desistito e ci siamo incamminati lungo un tratto di ferrovia che costeggiava il fiume. 

Senza saperlo eravamo entrati in uno “slam” (bidonville) che sorgeva ai due lati della ferrovia; ricordo una donna che seduta sui binari si stava pettinando, altra gente dormiva ai lati sul marciapiede, (quando c’era) sopra uno straccio gettato a terra, fra un frastuono di gente che circolava in ogni direzione. 

Ai due lati c’era una fila di catapecchie; dentro c’era di tutto in un caos incredibile, sotto una di queste stava seduto immobile un uomo che sembrava fosse in meditazione e ogni tanto rivolgeva il proprio sguardo al cielo (foto copertina). Se dovessi descriverlo superficialmente, direi che era il classico caso di chi da anni non vede sapone. 

C’era però una spiegazione a tutto ciò, infatti si trattava di un “Sadu”, questi sono persone che non danno alcuna importanza ai fatti “terreni”, il loro compito è solo quello di “pregare per tutta l’umanità”, vivono di sola elemosina, la sera si ritrovano e dividono fra loro tutto quanto è stato loro offerto, sono infatti gli unici a cui gli indiani fanno la carità.

Verso l’imbrunire abbiamo assistito a una proiezione, fatta nel giardino del Victoria Memorial,  dove veniva presentata e ripercorsa la vita della città di Calcutta, il tutto naturalmente in Inglese, l’impianto audiovisivo, l’ordine con cui erano disposte le sedie non davano assolutamente l’impressione di trovarci a Calcutta....... eppure a cento metri c’era gente che non sapeva se avrebbe mangiato la sera. Questi sono i contrasti dell’India a cui non riesco ad abituarmi e a cui noi occidentali non riusciamo a dare una spiegazione.

In India, ad esempio, l’acqua continua a rimanere un problema molto grave, chi la beve deve farla bollire se vuole essere certo di non incappare in un’infezione intestinale, oppure fare come abbiamo fatto noi, cioè pretendere che le bottiglie siano sempre sigillate alla consegna. Per un Indiano l’acqua minerale costa in proporzione più di quanto a noi costi il vino, ne consegue che, se possono, ti fanno fesso, (come da noi con il vino al metanolo .... mondo è paese .....).

A Vijayawada, nell’albergo dove pernottavamo, ci è capitato di vederci consegnare dell’acqua con il tappo stretto al punto da sembrare sigillato, ma che in realtà era acqua riempita al rubinetto.

 

 

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