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Sentendo nei giorni di sole dai poggi operosi, passare una villotta col brivido del vento o nelle notti lunari l'eco nostalgica e un po strascicata di un canto solitario, vien fatto di pensare ai "cori che vanno eterni tra la terra e il cielo" perché tanto bene essi rendono sensi panici che sembrano nascere direttamente da questa natura vivificatrice, accordati al suo cielo e al suo verde, voce della nostra voce, fiore più bello della nostra terra.. E da questa flora spontanea, non dai fiori culti di serra, conoscerà lo studioso l'anima vera del nostro popolo, l'anima "che sembra gaia ed è triste" che porta le tracce di secolari fatiche nella pensosità e in quel senso di tristezza tanto più intima ed umana della gioia. Nel suo isolamento questo nostro popolo ha saputo creare la sua poesia ed ogni modesta cosa diventa occasione per suscitare canti dalla sua anima, come sassolino gettato in pozzo profondo che desta strane risonanze. Esso riprende la voce delle cose, poi l'immagine reale si smaterializza e diventa poesia. Veramente non bisogna cadere nell'equivoco di credere ad una produzione collettiva, ad una poesia di popolo secondo la teoria herderiana e romantica La villotta è bensì espressione e voce della stirpe, ma creata da un individuo unico che, baciato dalla rustica musa rende colla sua lira motivi e stati d'animo di tutti e di sempre, che rarissimi sono gli accenti particolaristici nella villotta. Il popolo poi se ne impadronisce perché l'ha riconosciuta figlia legittima della sua anima e il nome dell'autore va perduto perché il suo parto non porta l'impronta di un soggettivismo lirico, ma si diffonde col battesimo dell'universalità. La tradizione orale e l'abbondanza della produzione di villette, la liberano dell'ultima àncora che la costringe ad una ragione contingente: l'autore. Diviene cosi definitivo possesso e patrimonio del popolo che in esse si specchia e che le tratta come cose sue allo stesso modo che le produzioni letterarie che più lo colpiscono e più gli si confanno e che egli trasforma e plasma a modo suo. Del resto si può ripetere per questi poeti, quello che dice Cantù dei poeti antichi: che "... erano bocche (stomata) e sotto il canto che d'eco in eco propagato, riempiva il mondo, scompariva il cantore..." perché essi operano sopra se stessi attingendo alle radici della razza. Perciò il carattere di questa poesia è un fatto etnico, Sbocciata al libero sole dei campi, essa ha il profumo sano del buon pane casalingo e nella brevità concettosa ricorda la nostra gente semplice che parla con le mani in tasca, negata ad ogni esteriore effusione. Alla sua laconicità corrisponde anche una grande semplicità di mezzi tanto da raggiungere talvolta l'andatura dimessa e discorsiva del parlare comune. (Quanc che vo no mi volevis - mal dovevis fa savè) senza perdere la sua poeticità che sorge da un intimo afflato e da una rusticana, spontanea grazia che non è gentilezza leziosa e manierata come spesso nella toscana. Per questo devo dar torto all'Angeletti quando dice che "scrivere come si parla è un assurdo estetico" e credere invece col Fauriel che "dove la forma è più semplice, più potente è il sentimento, più vera è l'idea". Infatti le forme artistiche, essendo prodotto di sentimento più che di pensiero, devono essere sempre molto aderenti alla verità interiore tanto più nelle forme artistiche del popolo che è come fanciullo che non sa ancora la menzogna. Infatti chi, già smaliziato alle arti retoriche volesse raggiungere la essenzialità e semplicità di andatura della villotta, pur conservando evidenza e armonia, si troverebbe nell'impossibilità di fare una cosa che gli pareva così semplice, come nessuna scienza riuscirà mai a imitare i prodotti più elementari di natura. In questa rustica immediatezza sta il loro valore : esse sono intraducibili in lingua o per lo meno tradotte perdono il loro migliore profumo come fiori recisi e costretti nei vasi. Nel breve giro di quattro ottonari esse chiudono un piccolo mondo ideale. La villotta nasce libera da ogni pregiudiziale letteraria : essa nasce come canto ! La prima ed immediata espressione dell'uomo primitivo infatti non è la parola, ma la voce perché il linguaggio è già convenzione. Ma anche per l'uomo moderno la prima ragione del canto sta nello spontaneo ed impellente bisogno di dire ciò che non è ancora alle soglie della coscienza, ma stagna ancora nel subcosciente : "e jo cianti, cianti,, cianti e no sai besôl parcè" E il valore del canto va sempre oltre il significato delle parole. Il popolo manca di autoanalisi perciò si effonde immediatamente nel canto che ha d'Annunzio ''sembra là più profonda parola sull'essenza del popolo,, perché in esso direttamente egli si esprime oggettivando il suo sentimento che il canto gli rende, come specchio fedele della sua anima. E' strano dover notare nel friulano una così grande ricchezza di sensibilità musicale, una così seconda vena di canto, mentre è breviloquente e sobrio nella sua parlata. Ciò forse per la ragione elementare che i primitivi meglio si esprimono col canto che con la parola, specialmente quando essi sono così spesso soli con se stessi sull'alpe ricca di echi o o nelle campagne a valle. Ed allora la natura stessa canta per la loro bocca quasi per influenza mimetica. Questo popolo è terra della sua terra non meno che la quercia ed il fiore; egli trae il senso dell'umano dolore dalla quotidiana fatica, sente la potenza guardando il monte che sovrasta, ha il brivido del divino nella lotta con le bufere. |