HO FAME - Capitolo 1
In caserma a Belluno Mi sono svegliato alle cinque di mattina per prendere il treno delle sei e quaranta alla stazione di Rivoli di Osoppo. Dovevo fare in fretta, guai a perderlo, sarei andato incontro a guai seri! Pensavo: “Da oggi in poi, per un periodo di tempo forse molto lungo, non sarò più una persona libera come lo sono stato fino ad ora, ma un militare e dovrò sottostare a delle regole”. Sono sceso in cucina, la mamma stava preparando la colazione ed io giravo, un po' irrequieto, intorno alla tavola pensando:”A quale corpo mi assegneranno? Dove mi destineranno? Vicino oppure lontano?”. Insomma, ero preoccupato, ma cercavo di non dimostrarlo ai miei familiari che si erano alzati per salutarmi. Arrivata l'ora di partire, ho cominciato a sentire un nodo stringermi la gola. Avevo notato che anche i miei nonni, la mamma, mia sorella Elide e mio fratello Gardo erano commossi, mentre gli altri due miei fratelli più piccoli, non si rendevano conto di quanto stava accadendo. Mio padre si trovava in Germania a lavorare, perciò non era con noi. Dopo aver abbracciato tutti, sono saltato sulla bicicletta e mi sono avviato verso la stazione di Rivoli. Con me portavo, oltre allo stretto necessario, un quaderno con una copertina nera fatta di cartone molto robusto, una matita e la mia giovane età: da un paio di mesi avevo compiuto 19 anni. Ho fatto un po' di strada con le lacrime agli occhi, poi, ad aspettare il treno, ho trovato altri coetanei di Buja che dovevano presentarsi al mio stesso Distretto Militare e così, chiacchierando e scherzando, ho cacciato le preoccupazioni e la malinconia. Siamo saliti sul treno per Sacile, dove siamo arrivati in perfetto orario. Ero ansioso di sapere quale uniforme avrei dovuto indossare. In caserma si erano radunate molte reclute provenienti da diverse località. Ci hanno messi in fila per essere visitati uno ad uno dall’Ufficiale medico. Quando è toccato il mio turno mi sono sentito dire: «Quattordicesimo Reggimento, Genio - Compagnia Marconisti - Belluno». Il mio cuore si era un po' calmato, ma ho passato ugualmente momenti di tristezza perché alcuni miei amici erano stati destinati ad altri reparti. Usciti a gruppetti nell'ampio cortile del Distretto, camminando lentamente, ci siamo scambiati le prime impressioni. Faceva molto freddo. Dopo poco tempo, a tutte le reclute destinate a Belluno, è stato ordinato d'inquadrarsi e di raggiungere di nuovo la stazione ferroviaria. Siamo ripartiti subito e, durante il tragitto, mi sono fatto qualche nuovo amico. Per rompere quell'aria triste che c'era fra noi, abbiamo cercato di cantare qualcosa ma, dopo un paio di tentativi, le voci poco a poco si sono affievolite, la malinconia, infatti, aveva preso un pò tutti. Pensavo alle truppe italiane che combattevano sui diversi fronti, in particolare su quello russo. Sapevo che le cose non andavano bene, anzi, andavano malissimo; eravamo in guerra e non potevo prevedere quello che mi sarebbe accaduto. Arrivati alla stazione di Belluno, siamo scesi dal treno e subito si sono avvicinati a noi alcuni militari addetti al servizio di accompagnamento reclute. Al suolo c'erano venti centimetri di neve e il vento era fortissimo. Preoccupato ho chiesto subito informazioni: «Caporal maggiore c'è parecchia strada da fare per arrivare alla caserma? », «Sono appena 300 metri» mi ha risposto, aggiungendo: «Oe!! Paesà hai una sigaretta per il nonno?», «Anche due» ho risposto prontamente. Così, verso le ore ventitrè, siamo entrati nella caserma Fantuzzi. Qui è cominciata la prima parte della mia odissea. Ci hanno portato in un grande stanzone dove, vestiti, ci siamo coricati sulla paglia. Quella sera, ho aperto per la prima volta il quaderno, ho preso la matita in mano, mi sono estraniato dall’ambiente circostante ed ho incominciato a scrivere. Il giorno seguente, dopo essere stati assegnati alla Compagnia, ci hanno portato in una grande camerata. Mi ero appena steso sopra un letto a castello, quando si è avvicinato un caporal maggiore, che ha chiesto: «Tra voi c'è qualcuno di Buja?» «Io» ho risposto alzandomi ed ho aggiunto: «Siamo una decina». Il caporal maggiore era Angelo Brollo di Urbignacco, poichè conosceva bene il Comandante ha cercato di sistemarci nel migliore dei modi. Ci ha detto: «Tre vengono con me alla Compagnia Artieri, cinque vanno alla Compagnia Marconisti e due alla Compagnia Telegrafisti». Sono rimasto perplesso quando ho capito che uno dei tre Artieri ero io, “Ma come” ho pensato “allora fare il corso Marconisti, a Buja, non mi è servito a nulla!!”. Angelo, però, mi ha assicurato che con gli Artieri, sarei stato meglio che nelle altre Compagnie, così ho accettato assieme a due altri miei amici, Ferruccio Pezzetta di Tomba e Decio Fabbro di Sottocostoia. Avevo lavorato per un anno nel cantiere di Monfalcone in qualità di meccanico attrezzista, perciò mi hanno mandato a lavorare in officina. Venti giorni dopo, sono iniziate a circolare delle voci, che riguardavano la nostra Compagnia: entro breve tempo avremmo dovuto partire per i Balcani. Quella sera sono andato in libera uscita ed ho fatto una telefonata a casa; due giorni dopo è venuta a trovarmi la mamma e mi ha portato da mangiare cose prelibate. Nello stesso giorno, ci hanno fatto anche la prima iniezione al petto; io non ne ho risentito, come molti altri, ma alla sera la mamma è rientrata a casa triste e preoccupata. Il 14 febbraio ‘43 si è svolta la grande cerimonia per il “Giuramento”, seguita da un pranzo speciale, non si parlava e non circolavano più voci di partenza. Ad un amico, che dormiva nella mia stessa camerata, avevano portato da casa la fisarmonica, le ore della sera sono cominciate, così, a passare fra suoni e canti. Il Tenente, che mi aveva preso in simpatia, mi aveva assegnato l'incarico di occuparmi dell'officina; ero perciò esentato da marce, guardie e servizi. Quando mi ha proposto di fare il corso per diventare Caporale, all’inizio ho rifiutato, perché sapevo che, assumendomi delle responsabilità, avrei limitato la mia libertà di azione, ma alla fine sono stato costretto ad accettare. Nelle settimane seguenti ci hanno fatto le altre due iniezioni al petto. A giorni alterni circolavano voci insistenti, che davano per imminente la partenza per i Balcani, la notizia veniva poi regolarmente smentita. Era una situazione che ci teneva in continua apprensione. Una sera è arrivato l'ordine del Comandante Generale: non ci si poteva allontanare dal presidio, perché la partenza per i Balcani poteva essere imminente. Ho telefonato a casa e, pochi giorni dopo, mia mamma era di nuovo a Belluno. Eravamo a metà marzo, l'ora di partire non era ancora arrivata, le giornate si erano allungate, la primavera si faceva sentire ed il sole cominciava a riscaldare. Dopo il rancio avevamo due ore di riposo, che io passavo leggendo qualche romanzo. La sera si andava sempre in libera uscita a far baldoria. Il 18 marzo ho pensato: "Domani nella mia borgata di Ursinins Piccolo si festeggerà San Giuseppe", così mi è venuta in mente l’idea di fare un'improvvisata alla mia famiglia. Come fare, visto che di permessi non ne rilasciavano? Bisognava scappare e così ho fatto. Sono rientrato due giorni dopo, fortunatamente nessuno si era accorto di nulla; tutto era andato bene, tanto che in seguito mi hanno dato anche un premio di 50 lire perchè ero stato giudicato dai Superiori uno dei migliori elementi della Compagnia. Continuavo a lavorare in officina, sempre benvoluto dal tenente Marzotta, responsabile del personale e dirigente dei lavori. Il 3 aprile sono scappato di nuovo a casa senza licenza e senza neppure il biglietto ferroviario. Al mio rientro in caserma ho trovato brutte nuove: il Capitano aveva scoperto la mia assenza, ma soprattutto, entro due giorni saremmo partiti per la Grecia. A quel punto tutti, tranne me, potevano usufruire di una licenza, il Capitano, però, mi ha fatto capire che avrebbe chiuso entrambi gli occhi qualora avessi tagliato di nuovo la corda..... Così sono partito alla volta di casa per la terza volta. Era il 5 aprile, quella è stata una giornata molto triste per tutta la mia famiglia, soprattutto nel momento del distacco. |
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