HO  FAME   -    Capitolo 4

HO  FAME

 

 

Al lavoro

Il 9 ottobre, dopo tredici terribili giorni di viaggio, siamo giunti a Forlimpostal, un campo di concentramento grandissimo che serviva per smistare i prigionieri ed era chiuso da altissimi reticolati. Anche qui il mangiare era scarso e di pessima qualità.

Prima di partire dalla Grecia con le "dracme" che mi restavano, avevo acquistato dei pacchetti di sigarette “Papastrato”, le avevo messe alla meglio nel mio zaino, assieme a poche cose e al mio inseparabile quaderno. Erano una cinquantina di pacchetti che mi sono stati utilissimi come merce di scambio con altri prigionieri che, lavorando nelle fattorie esterne al campo e rientrando la sera, avevano disponibilità di patate.

In quei giorni ho conosciuto cinque prigionieri friulani: Agostino Menis di Zeglianutto, Nino Valle e Otello Sambuco di Flaibano, Luigi Cappelletti di Nogaredo e Ostilio Rodaro di Martignacco, con i quali ho stretto subito amicizia. Con loro ho condiviso le patate che riuscivo a procurarmi: cinque o sei per ogni pacchetto di sigarette.

Quando ci hanno chiesto quale fosse il nostro mestiere, tutti e sei abbiamo detto che eravamo meccanici.

Così il giorno 24 ottobre siamo partiti tutti insieme alla volta di un  campo di lavoro: Lagher 8 Stammlager XI B Arbeits K.do 6063, io ero il prigioniero numero 167169

Questo campo si trovava in una zona industriale chiamata "Hermann Göring", dove erano occupate centinaia di migliaia di persone.

Era un grandissimo complesso di fabbriche, dove si vedevano entrare vagoni di minerale ferroso ed uscire carri armati, cannoni ed armi di ogni tipo.

Io, assieme ai miei amici, sono stato destinato al lavoro in un'officina meccanica, reparto attrezzisti. Assieme ad altri 180 prigionieri di guerra di varie nazioni e controllati da capi tedeschi, lavoravamo suddivisi in due turni di dodici ore e ci alternavamo settimanalmente.

I campi di prigionia erano posti tutti su un lato di una grande arteria stradale, dopo il nostro campo c’era quello americano, seguivano quelli francese, inglese, russo, polacco per circa tre chilometri, sull’altro lato della strada c’era, invece, qualche paese.

Dal campo, per raggiungere la fabbrica, mettevamo quaranta minuti. Il tragitto, lo percorrevamo due volte al giorno a piedi, accompagnati da due guardie tedesche, poste una davanti e una dietro la colonna. Guai a fermarsi o fare un passo falso, per qualsivoglia motivo; erano pedate, botte date con il calcio del fucile sulla schiena e accompagnate da un unico e ripetitivo insulto: "Badoglio!".

La razione giornaliera veniva distribuita alla sera ed era composta da un mestolo di zuppa, 3/4 di litro circa di acqua con quattro carote e bietole, 100 grammi di pane con 25 di margarina, oppure di carne. In poco tempo le forze mi avevano abbandonato, ero dimagrito e avevo il morale a terra.

Il 17 novembre mi sono alzato con la febbre. Una guardia mi ha portato nell'infermeria del campo dove sono stato visitato da un medico tedesco che mi ha rimandato immediatamente al lavoro. Due giorni dopo, quando la febbre aveva ormai superato i quaranta gradi, sono stato ricoverato in infermeria. Un altro medico mi ha diagnosticato una "malaria perniciosa", probabilmente contratta in Grecia. I sintomi che avvertivo erano di grande caldo per circa mezz'ora, seguiti da un freddo incredibile, che nessun tipo di coperta riusciva a farmi passare.

Mia madre mi aveva mandato l'indirizzo di papà, che da diversi anni lavorava in Germania, nell'Alta Slesia, sperando che in qualche modo potesse essermi di aiuto. Gli ho spedito qualche lettera tramite il mio compaesano Giovanni Pezzetta di Avilla di Buja, operaio, (non prigioniero di guerra). In breve tempo, mi ha risposto che avrebbe fatto tutto il possibile. Dopo venticinque giorni di degenza, sono guarito e dimesso dall'infermeria; avevo riacquistato forza e morale, quindi ho potuto riprendere il lavoro in fabbrica.

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