HO  FAME   -    Capitolo 5

HO  FAME

 

 

Ho fame

Il giorno di Natale del ‘43 l’ho passato al campo, con pochi amici, parlando a bassa voce; cercavamo di non lasciarci prendere dallo sconforto nel ricordare i Natali trascorsi con i nostri cari, nelle nostre famiglie.

Intanto il tempo passava, ero tormentato da frotte di cimici e pidocchi, ma il vero grande incubo era la fame.

E' molto difficile, a parole, riuscire a spiegare che cosa significhi "FAME"; è provare dolore per i crampi allo stomaco che ti debilitano fisicamente, ma soprattutto è avere un tarlo in testa che non ti lascia in pace e non ti fa pensare ad altro. Significa volgere lo sguardo su qualche oggetto e pensare che, forse, dentro c'è qualcosa di commestibile, scrutare la terra e credere che magari lì sotto, a pochi centimetri, c’è una patata o una bietola. E' sofferenza continua, che non ti lascia mai, neppure per un attimo. E’ parlare con i compagni ed andare inevitabilmente a ricordare le pastasciutte o i minestroni che preparava la mamma e alla fine, per disperazione, ritirarsi in un cantuccio a piangere, .... da soli, perché non si piange mai in compagnia!

Nel mio campo si trovava un altro bujese, Cornelio Del Missier di Strambons. Con il tempo ho preso contatto con altri miei compaesani che lavoravano nelle fabbriche del complesso industriale, come operai liberi. Essi hanno fatto quanto umanamente era possibile per aiutarmi ed io non l'ho mai dimenticato. Fin quando sono stati in vita, ogni anno a Natale, sono andato da loro per ringraziarli, soprattutto da Giovanni Pezzetta di Avilla, Giuseppe Ursella di Sottocostoia e Amadio Domini di Ursinins Piccolo.

Il direttore della fabbrica era spesso assente. Non era una cattiva persona, però era molto pignolo, bisognava quindi essere precisi nello svolgere le mansioni che affidava. Il caposquadra responsabile della produzione si chiamava Antonio Miotto ed era di Treviso, molto bravo e dinamico e, da grande lavoratore qual era, sapeva essere anche comprensivo. Le dodici ore di lavoro erano comunque molto faticose, soprattutto se lo stomaco era vuoto.

A metà gennaio ho ricevuto due lettere che mi hanno alzato notevolmente il morale: una dalla mia famiglia, così ho saputo che stavano tutti bene, l'altra mi è giunta, tramite Giovanni Pezzetta, da mio padre. Pur essendo il campo molto lontano dal suo posto di lavoro, avrebbe fatto il possibile per venirmi a trovare.

Il 30 gennaio del ‘44, un grande bombardamento ha colpito le fabbriche. Alcune bombe, purtroppo, sono cadute anche nei vicini campi di concentramento. Il nostro, occupato da 1500 italiani, fortunatamente è stato risparmiato, in altri, invece, ci sono stati molti morti.

Il 3 febbraio, alle quindici, sono stato chiamato in portineria e fatto entrare in una stanzetta dove mio padre mi attendeva. Ero talmente felice che mi sembrava tutto un sogno! Due passi e ci siamo trovati abbracciati, la gioia era tanta che entrambi avevamo le lacrime agli occhi; non riuscivamo a parlare, tante erano le cose che avremmo voluto dirci. Le uniche parole che ci siamo scambiati, rimanendo abbracciati, sono state: 

«Come stai papà?» 

«Io sto bene»

«E tu?»

«Anch'io, ma soffro molto la fame».

Un attimo prima che entrasse la guardia a dividerci, mi ha passato una busta contenente dei buoni per l'acquisto di tre filoni di pane, per un totale di quattro chili e mezzo. Il pane, lo facevo comperare dai miei compaesani, che erano lavoratori liberi e lo dividevo in buona parte con i miei cinque compagni di lavoro.

Altre due volte mio padre è venuto al campo, ma non gli è stato permesso incontrarmi. Ci siamo salutati da lontano, lui fuori sulla strada, io dentro a debita distanza dai reticolati. Una volta mi ha lanciato un pacchetto vicino ai reticolati, l’ho potuto raccogliere solo quando la sentinella si è allontanata. Nessuno può immaginare il disprezzo che ho provato verso i tedeschi per quel comportamento privo di ogni senso di umanità. 

 

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