HO  FAME   -    Capitolo 6

HO  FAME

 

 

Per una cioccolata

Era pericolosissimo avvicinarsi ai reticolati molto alti che delimitavano un campo di prigionia dall’altro. Fra un reticolato e l’altro c’era uno spazio di tre metri nel quale camminava avanti e indietro una sentinella tedesca ben armata.

Un pomeriggio, dopo essermi lavato e aver fatto bollire i lerci panni che portavo addosso, per eliminare cimici e pidocchi, assieme ad un gruppetto di compagni, ho deciso di fare un giretto all’interno del campo.

Ci siamo seduti vicino ad un rifugio antischegge, distante dal reticolato una ventina di metri. Dall’altra parte c’era il campo degli americani che, diversamente da noi, ricevevano un pacco alla settimana dalla loro Croce Rossa. Erano, inoltre, protetti da trattati internazionali, perciò non avevano problemi di alcun genere. Non lavoravano in fabbrica e li vedevamo spesso passare il tempo giocando a basket; questa era la migliore dimostrazione che a loro le energie non mancavano di certo. Lo stesso succedeva agli inglesi ed ai francesi, mentre i russi si trovavano nelle nostre stesse condizioni, forse anche peggiori.

Ad un certo punto un prigioniero americano che stava da tempo camminando avanti e indietro vicino ai reticolati, ci ha mostrato un pacchetto che teneva fra le mani. Ad un tratto questo è volato all’interno del nostro campo, andando a cadere vicino al filo spinato, siamo rimasti fermi. Dopo qualche minuto abbiamo deciso di rientrare lasciando il pacchetto dove stava, tutti, fuorchè un abruzzese che, nonostante i nostri richiami, non ha voluto seguirci.

La fame ed il forte desiderio della cioccolata che sicuramente l’involucro conteneva, sono stati per lui fatali, infatti, poco dopo, si è diretto verso i reticolati. Abbiamo sentito uno sparo e lo abbiamo visto cadere al suolo colpito a morte.

A queste cose io non ho mai trovato altre giustificazioni che la mancanza di umanità e di ogni principio morale. Sotto qualsiasi regime certe cose, contrarie alla mia coscienza, non avrei mai potuto farle!

In quel periodo, il mio caposquadra, rientrando da una breve vacanza da Treviso, mi aveva portato un pacco con dei viveri, del chinino e una lettera che mia madre gli aveva consegnato. Mio padre, tramite Pezzetta, mi scriveva regolarmente mandandomi ogni volta che poteva, dei buoni per l'acquisto di pane, non sempre, però, riusciva a trovarli al mercato nero.

Il 7 aprile di nuovo avevo la febbre alta, stavo malissimo e sono stato ancora una volta ricoverato in infermeria. In mezzo a tanti altri ammalati pensavo tutto il giorno a casa. Era Venerdì Santo e rammentavo con commozione le cerimonie e la processione serale che, partendo dal Duomo, percorreva le vie di Santo Stefano. Mi sembravano immagini lontane, di tempi felici e spensierati che non sarebbero più tornati .

Un medico italiano mi ha diagnosticato malaria con aggiunta di pleurite secca al polmone destro.

Il 9 aprile la febbre alta mi ha impedito di andare alla solenne Messa Pasquale celebrata nel campo. Nel pomeriggio gli amici sono venuti a trovarmi portandomi una barbabietola lessata, dono che ho apprezzato molto. Sapevo che, per potermela dare, avevano dovuto privarsene loro. Sono rimasti con me alcune ore riuscendo a ridarmi un pò di coraggio e di morale.

Dopo tre settimane di infermeria sono stato dimesso. Quando ho ripreso il lavoro (12-5-44) ) ero di nuovo febbricitante e talmente debole che sono stato ricoverato per la terza volta.

Il 13 giugno, giorno di Sant'Antonio, è venuto a farmi visita il mio amico “Agnulin” (Angelo Tonino) che si trovava in Germania. Poichè conosceva molto bene il tedesco, ha provato in ogni modo a convincere le guardie a lasciarci incontrare, ma non c’è stato verso. Come al solito siamo stati costretti a salutarci da lontano, mentre dentro di me si agitavano sentimenti contrastanti che andavano dalla commozione, al dolore, al profondo disprezzo per chi era causa dei miei patimenti.

Quella volta sono rimasto ricoverato per circa un mese, quindi sono stato dimesso e, dopo qualche giorno di riposo, ho dovuto riprendere il lavoro. Quando arrivavo in fabbrica, dopo i quaranta minuti di marcia che occorrevano per percorrere i tre chilometri che ci dividevano dal campo, ero già stanco. Per fortuna il caposquadra Miotto, a conoscenza della situazione in cui mi trovavo, mi affidava dei lavori leggeri, inoltre, per la prima volta ho ricevuto dalla Croce Rossa Italiana, alcuni pacchi spediti da casa: riso, pasta, fagioli e generi vari. Ho saputo poi che ben dieci pacchi che mi erano stati spediti, non mi sono mai stati recapitati. 

 

AL PROSSIMO CAPITOLO