HO  FAME   -    Capitolo 8

HO  FAME

 

 

La mamma russa

Il 10 ottobre mi sono svegliato con fortissimi dolori al ventre, non riuscivo neppure a reggermi in piedi. Un dottore tedesco, diagnosticando un’indigestione, ha risolto il tutto facendomi bere mezzo bicchiere di olio di ricino. Quel giorno ho pensato veramente che per me era arrivata la fine. Dopo otto giorni di dolori lancinanti mi hanno rispedito al lavoro. Sono svenuto sulla porta della baracca e portato all’ospedale di "Drütte".

Fortuna ha voluto che in quell'ospedale, fossi visitato da una dottoressa russa, che faceva il chirurgo. Aveva circa sessant'anni, la sua diagnosi è stata "appendicite". I tedeschi avrebbero voluto operarmi subito, ma lei vedendomi in quelle condizioni, (il mio peso era di quaranta chili circa) si è opposta. Ha dato ordini affinchè fossi sistemato in un angolo del reparto e messo in condizioni di poter affrontare l'operazione, il cui esito altrimenti, sarebbe stato scontato. Non so che cosa abbia spinto quella donna a sfidare apertamente i tedeschi, forse vedeva in me un figlio, chissà, comunque veniva spesso a sincerarsi delle mie condizioni.

All'ospedale il rancio era ancora più scarso rispetto a quello che davano al campo, però, il fatto di poter riposare tutto il giorno e di sentirmi tranquillo e fiducioso poichè una seconda mamma voleva salvarmi, mi ha permesso di recuperare le forze.

I bombardamenti, ormai, colpivano giorno e notte, a decine i feriti venivano ricoverati nell'ospedale dove mi trovavo. Anche il nostro campo è stato di nuovo bombardato, moltissimi sono stati i feriti e una ventina i morti.

Il 12 dicembre la dottoressa russa, a cui devo la vita, dopo 55 giorni di ricovero ha deciso che poteva operarmi; tutto è andato per il meglio, anche se, oltre che all’appendicite, ha dovuto asportarmi anche un tratto dell’intestino. Il 27 dicembre sono stato dimesso dall'ospedale e accompagnato dai miei amici al campo, dove sono rimasto due settimane in convalescenza.

L'8 gennaio ‘45 il caposquadra mi ha assegnato un lavoro molto leggero che potevo svolgere stando seduto. Il lavoro non era un problema, il vero problema era la fame che aumentava, infatti, gli approvvigionamenti a causa dei continui attacchi aerei, si erano ulteriormente ridotti.

Ormai venivano bombardate anche le fabbriche, notte e giorno. I tedeschi non ci lasciavano andare nei rifugi al suono dell'allarme, ma solo dopo lo scoppio delle prime bombe. I bombardieri che partivano in squadriglie dall'Olanda, avevano come obiettivo Berlino e la zona industriale dove noi lavoravamo si trovava proprio su quella direttrice. Molte volte, nelle giornate di bel tempo, vedevamo, altissimi in cielo, passare in formazione, centinaia di aerei.

 Allora, da tutti i campi, uscivamo all'aperto cercando di farci notare, agitavamo migliaia di braccia sperando che vedendole, gli americani capissero che erano dei campi di prigionia ed evitassero lo sgancio di bombe.

Il 13 gennaio un bombardamento ha danneggiato seriamente molte fabbriche. Ormai eravamo ridotti a lavorare in capannoni scoperchiati e danneggiati, con temperature al di sotto dello zero e la produzione era notevolmente diminuita. I tedeschi avevano cominciato, mano a mano, a perdere il loro fare autoritario e la sicurezza nella vittoria , sui loro volti ora si leggeva benissimo la preoccupazione. L'anno nuovo l’avevamo iniziato con la speranza che presto la guerra sarebbe finita e che tutti saremmo ritornati a casa, più i giorni passavano più ci rendevamo conto che i tedeschi erano ormai al capolinea.

Il 16 gennaio sono venuto a sapere che il territorio dell'Alta Slesia, dove mio padre lavorava, era stato occupato dai russi. Papà infatti, è stato fatto prigioniero e mandato a lavorare in Polonia. E' rientrato a casa nel mese di ottobre del 1945. 

 

AL PROSSIMO CAPITOLO