HO FAME - Capitolo 9
La liberazione A febbraio le mie condizioni di salute erano abbastanza buone, ma la fame era tantissima, non riuscivamo a trovare assolutamente nulla da mettere sotto i denti per farla passare. Da un po' di tempo mi ero costruito, con della lamiera, una pentola da tre litri circa, per cuocere qualsiasi cosa di vagamente commestibile mi fosse capitata per le mani. Andavo perfino a prendere i rimasugli della zuppa di rape che distribuivano ai prigionieri russi e che loro non mangiavano, tanto era cattiva. La fame era tanta che mi ero ridotto a raccogliere le bucce delle patate; più che bucce sarebbe corretto dire quella pellicina che le copre e, dopo averle fatte bollire con un pò di sale, bevevamo questa brodaglia calda che riusciva almeno a darci un momentaneo senso di sazietà. Allarmi e bombardamenti ormai si succedevano in continuazione, giorno e notte; non ci lasciavano un momento di tranquillità. In compenso ho ricevuto, dopo tanto tempo, tramite Severino Calligaro di Buja, una lettera da casa. Durante il mese di marzo le notizie che avevamo davano i tedeschi in rotta su tutti i fronti e dicevano che gli americani stavano velocemente avanzando sul suolo tedesco. In quei giorni il lavoro cominciò ad essere trascurato anche dai padroni di casa, preoccupati ormai solo di cercarsi una via di fuga. Il 1º aprile alle nove, dopo la Messa Pasquale celebrata da un sacerdote francese, nell'aria è risuonato l’ennesimo allarme aereo, seguito da un bombardamento sulla vicina Braunschweig. Da tempo attendevamo con ansia l'arrivo dei liberatori, ormai non andavamo più a lavorare. Un giorno, chiusi nel rifugio, abbiamo sentito alcune cannonate. Avevamo sognato quel momento, ma ora che stava per arrivare, la preoccupazione per qualche colpo di coda dei tedeschi in fuga o di una cannonata sparata per errore dagli alleati, ci teneva in apprensione. Avevamo la netta sensazione che ci stesse per capitare, proprio ora, qualcosa di brutto. A metà mattina del 10 aprile le sirene hanno suonato per lunghi minuti. Siamo rimasti nei rifugi tutta la notte, ci guardavamo negli occhi luccicanti dalla gioia, ogni paura era scomparsa, sentivamo che la tanto sognata liberazione era ormai questione di ore. Il fuoco delle artiglierie alleate martellava la zona tanto che non è stato possibile distribuire quel poco di rancio che ci spettava. L’11 aprile dopo ventidue ore siamo usciti dal rifugio e, con sorpresa, abbiamo notato che dentro il campo erano fermi due camion americani, i soldati si sono messi subito a distribuire viveri: cioccolato e dolciumi, ma anche sigarette e altri generi di conforto. Dopo le privazioni che avevamo provato, non ci sembrava vero! I patimenti erano finiti, tutto si era trasformato in una grande e gioiosa festa, mentre sulla strada principale posta di fronte ai campi di concentramento, passavano decine e decine di carri armati, autocarri, autoblinda carichi di uomini e materiali, una colonna ininterrotta che ci dava il senso delle enormi disponibilità dei nostri salvatori. Tutti i tedeschi erano fuggiti lasciando liberi cucine, negozi, magazzini di viveri e vestiario. Così ci siamo organizzati, visitando i magazzini abbiamo fatto dei buoni approvvigionamenti, abbiamo imparato anche ad usare le cucine. Dopo una quindicina di giorni siamo stati trasferiti nel grande campo di Lebensteed, dove erano stati concentrati tutti i prigionieri italiani della zona. Nel nostro campo era stato rinchiuso un buon numero di prigionieri tedeschi, le parti si erano invertite. Al campo di Lebensteed stavamo bene, grazie soprattutto all'organizzazione degli americani e alla nostra rinata voglia di vivere. Avevamo persino formato un’orchestrina e diverse donne russe e tedesche, la sera, venivano per divertirsi e ballare "con gli italiani". Non si poteva purtroppo ancora rientrare in Italia, le ferrovie dell'Asse erano completamente distrutte, così la bella vita al campo è durata tre mesi, durante questo periodo, mangiando e bevendo a sufficienza, abbiamo ripreso anche l’aspetto di uomini forti e giovani quali eravamo. Più i giorni passavano, però, più forte si faceva il desiderio di rientrare nelle nostre case, di rivedere le persone care. |