Capitolo 1 - In Divisa
In Divisa Avevo diciassette anni quando, nell’ aprile del '40, andai a lavorare presso l’“Officina Autorizzata Fiat” di Udine, uno dei proprietari era il bujese Arrigo Barnaba. Mi trovavo lì quando, pochi mesi più tardi, scoppiò la guerra. La mia passione per la meccanica mi portò a frequentare un corso serale per motoristi, che si svolgeva all’Istituto Malignani di Udine. Poiché facevo parte dei "Giovani Fascisti", il tenente Zucchi, che conosceva la mia predisposizione per tutto quello che riguardava i motori, mi propose di entrare come volontario in aviazione. Siccome ero minorenne avevo bisogno del consenso di mio padre. Lui andò a chiedere consiglio al parroco di Mels che era suo amico, questi gli fece capire che non era proprio il caso che mi arruolassi, visto il difficile momento a cui stavamo andando incontro. Il Tenene mi iscrisse comunque al corso premilitare di motorista, così andai a Pesaro, dove, tecnici della Fiat, in un mese ci insegnarono tutto quello che c'era da sapere sui motori a scoppio. Finito il corso, il 20 settembre del ’42 mi presentai per la chiamata alle armi nella caserma di Sacile, dove fui subito aggregato all'"Autocentro di Udine". Qui, per prima cosa, fecero prendere a tutti la patente. Mentre mi trovavo a Pesaro, avevo fatto richiesta per frequentare un corso destinato ad "Allievi Sottufficiali Specializzati" e proprio in quei giorni seppi che la mia domanda era stata accettata. Massimo Nobile di Martignacco, che era impiegato all'Ufficio Fureria, mi raccomandò di accettare senza il minimo dubbio dicendomi: «Se non vai al corso (che durava sette mesi), fra quindici giorni dovrai partire per la Russia!». Così, assieme ad altri cinque ragazzi, presi il treno alla stazione ferroviaria di Udine, destinazione Torino. Ricordo che, prima di partire, fui nominato "Capodrappello". Il giorno dopo ci presentammo alla "Caserma Scuola" del 1º Reggimento Autieri in Corso Francia, dove ci trovammo circondati da un mare di giovani giunti da tutta Italia. La sera del 20 novembre Torino subì un grande bombardamento, quando suonò l'allarme le porte della caserma furono aperte e tutti fuggimmo per le strade. L'indomani alcuni di noi mancavano all'appello, la paura era stata tanta che molti chiesero di poter rientrare ai corpi di provenienza; fra questi c’erano anche alcuni commilitoni giunti con me da Sacile. Nei giorni seguenti, durante un altro forte bombardamento, assieme ad alcuni colleghi uscii dalla caserma, tutti andammo a rifugiarci nel grande scantinato di un palazzo trasformato in rifugio antiaereo, dove si trovavano già più di duecento persone. Quella sera, sfortuna volle che una bomba, entrata nell'edificio attraverso la tromba dell'ascensore, andasse a bloccare l'uscita del rifugio. All'interno scoppiò il panico, poco dopo l'acqua cominciò ad invadere lo scantinato raggiungendo, dopo qualche ora, l'altezza di mezzo metro. Noi militari cercammo in tutti i modi di aprire un varco, ma era buio e si sentivano solo le urla della gente. Il fumo aveva cominciato a rendere difficoltosa la respirazione, ci furono molti svenimenti. Con una trave, riuscimmo ad aprire un passaggio, che però si dimostrò inutilizzabile poiché era di fronte ad un deposito di nafta che, a sua volta, era stato colpito. Le esplosioni dei fusti lanciavano vampate di fuoco sino al foro che avevamo aperto, impedendoci di uscire. Verso le quattro del mattino, con l'aiuto dei Vigili del fuoco, riuscimmo a metterci in salvo. Ci avviammo subito verso la caserma, ma la trovammo in fiamme. Ci diedero l’ordine di andare immediatamente a dare una mano per salvare quanto era possibile, arrivati, però, trovammo allo spaccio moltissimi soldati ubriachi che tranquillamente si davano alle libagioni. Io, dopo essermi bevuto un cognachino, uscii all’aperto e, alla luce delle fiamme, notai molti civili che stavano saccheggiando la caserma. Tutti fummo trasferiti a Venaria Reale, ma a turno, ogni giorno, quaranta di noi dovevano recarsi alla caserma bombardata di Corso Francia per fare la guardia a quel poco che rimaneva in piedi. Tempo dopo fummo trasferiti a Poirino e sistemati in una ex filanda di cui ricordo, oltre ai tanti scarafaggi che la notte vedevo fuggire appena qualcuno accendeva la luce, la scarsità del vitto. |