Capitolo 2  -  L' 8 Settembre

INDICE  "EVIDENTEMENTE  QUELLO NON ERA IL MIO DESTINO" 

 

 

L' 8 Settembre

Era il febbraio ‘43 quando ad alcuni di noi fu dato l'ordine di andare a Bologna presso la caserma  Il Littoriale” per incominciare finalmente il corso di “Meccanica e motori diesel”, che si svolgeva presso i locali della Fiat. Al mattino si tenevano le lezioni teoriche, mentre nel pomeriggio andavamo in officina per la pratica. Finito il corso, verso la fine di agosto del ’43, mi fu dato il grado di Sergente e fui mandato in Trentino, nella caserma del 105º Reggimento che fungeva da reparto di smistamento. Infatti poco tempo dopo, assieme ad alcuni compagni d'arme, raggiunsi Montechiari in provincia di Brescia. Il compito che ci era stato assegnato era quello di ricostituire la “10ª Officina mobile  pesante” appena rientrata dalla Russia. Torni, frese e tutto quanto era necessario per la riparazione di qualsiasi veicolo era posto su dei camion, avevamo appena cominciato a prendere visione di quanto era recuperabile, quando arrivò l'8 settembre.

Molta gente quel giorno venne presso i reticolati della caserma, che era posta in mezzo al paese, per dirci di scappare prima dell'arrivo dei tedeschi. Non sapevamo che fare, così cercammo i Superiori per poter chiedere informazioni ed avere delucidazioni, ma presto constatammo che nella caserma non si trovava nessun graduato. Poco dopo arrivarono i tedeschi che incominciarono a dare ordini a destra e sinistra, solo allora ci rendemmo conto che la gente del paese aveva visto giusto. Appena incominciò ad imbrunire, assieme a tre amici, scelto un punto della caserma poco illuminato saltai la rete e fuggii. Un tedesco, che ci aveva visto, sparò una raffica di mitra, fortunatamente non colpì nessuno.

Si era fatto buio quando entrammo in una casa di contadini che ci diedero abiti borghesi e ci mandarono a dormire in una camera, spiegandoci come e dove fuggire nel caso ci fossero stati dei problemi.

Più tardi, infatti, un gruppo di russi, aggregati ai tedeschi, arrivò nella casa di campagna e, a stento, rischiando di beccarci qualche pallottola, riuscimmo a fuggire. L'indomani, passato il pericolo, un componente della famiglia ci disse che c'era stata sicuramente una spiata. Dopo averci fatto salire su di un carro con forche e attrezzi di lavoro e passando per strade secondarie, ci portarono in una casa colonica disabitata, in mezzo ai prati, dove ci fermammo per due giorni.

Da lì raggiungemmo la linea ferroviaria, in attesa del treno che in quel punto rallentava.

Quando lo sentimmo arrivare, uscimmo velocemente dal campo di mais per salire sul convoglio in corsa solo allora ci accorgemmo che non eravamo soli. Delle mani si allungarono per aiutarci a salire sui vagoni bestiame che erano già pieni di giovani, vestiti alla menopeggio e che, come noi, stavano cercando di rientrare a casa.

Verso le undici, dopo tre ore di viaggio, arrivammo a Verona. Quando il treno si fermò, un gruppo di tedeschi fece scendere alcune decine di giovani, li fece salire sui loro camion e li portarono via: fortuna volle che i camion fossero troppo pochi per tutti quanti!  Qualche ora dopo giungemmo alla stazione di Mestre dove, nonostante circolassero diverse ronde, nessuno ci chiese documenti o creò dei problemi, anzi ci furono dati dei buoni che ci permisero di andare a prendere il caffè allo spaccio. Ripartimmo e, verso le sei del mattino, il convoglio giunse alla stazione di Udine, dove incontrai fortunatamente un conoscente di Villalta che lavorava alle ferrovie.

Questi, dopo avermi sporcato la faccia con del grasso, mi mise in testa il suo berretto da ferroviere e mi accompagnò all'uscita. Evitai, così, di essere fermato dalle numerose pattuglie che circolavano nella stazione.

Partimmo con la bicicletta in due sino a Villalta, quindi proseguii per Mels dove allora abitavo e, a mezzogiorno del 12 settembre, ero finalmente a casa.

 

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